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STORIA: Montanelli ci fa un ritratto del primo presidente della Repubblica Enrico De Nicola

12 Novembre 2021

(Da Indro Montanelli e Mario Cervi: “L’Italia della Repubblica”)

“Se la presidenza della Costituente era, nella sostanza, una questione interna dei socialisti, il nome del Capo dello Stato poteva uscire solo da una trattativa interpartitica. Poiché De Gasperi non era disposto a farsi promuovere (e rimuovere dal governo) la lista dei nomi possibili si restringeva alle figure insigni del prefascismo, recuperate dal postfascismo. Attento ai dosaggi, preoccupato di rassicurare la mezza Italia monarchica, De Gasperi aveva in mente un identikit ben definito del primo Capo dello Stato repubblicano. Doveva essere filomonarchico, e doveva essere meridionale. Perciò non erano proponibili né il piemontese Einaudi né il lombardo Bonomi. Benedetto Croce sembrava rispondere ai requisiti richiesti. E i socialisti, lanciandone la candidatura, erano convinti d’andare sul sicuro. L’idea fu attribuita a Nenni che in verità se ne fece paladino, ma senza entusiasmo. «Alla direzione » raccontò lui stesso «è sbucata fuori d’improvviso la questione della nostra adesione a una eventuale candidatura Croce… La proposta iniziale è di Cacciatore. L’hanno ripresa Silone, inquadrandola nel più vasto piano del laicismo, e Saragat per esigenza di equilibrio interno. Io trovo l’iniziativa avventata, ma dopotutto non mi spiace di dare una punzecchiatura ai democristiani. » E Nenni in persona firmò sull’«Avanti! » del 23 giugno (mancavano due giorni all’apertura della Costituente) un articolo in favore di Croce Capo dello Stato.
Il filosofo si mostrava riluttante a impegnarsi totalmente nell’attività politica. Ma al di là di queste remore personali, esisteva un veto democristiano, morbidamente ma ostinatamente motivato. Croce, obiettava la DC, era presidente del PLI, quindi legato specificamente a un partito, non super partes come il suo delicato ruolo imponeva. Il pretesto era buono, ma rimaneva un pretesto. Altri erano, agli occhi della DC, gli handicap di Croce: la scarsa malleabilità, e il laicismo intransigente. Sua era stata la opposizione alla richiesta democristiana d’avere il Ministero della Pubblica Istruzione, quando s’era formato il ministero Parri. De Gasperi aveva ceduto, ma non dimenticato. E il povero Nenni, bocciatogli Romita in casa, si vide bocciare Croce fuori casa. Croce declinò, con una lettera a Nenni, l’offerta socialista. Ma rinunciava a ciò che non era più, comunque, alla sua portata.
Chi allora? De Gasperi sosteneva Orlando, ma era pronto ad accettare un altro nome idoneo. E il nome fu quello di Enrico De Nicola, che era napoletano, era stato consigliere della Corona (suo l’espediente della Luogotenenza per Umberto) e, infine, come sperimentato parlamentare e come giurista insigne, avrebbe saputo meglio di chiunque altro ideare un protocollo e una procedura tutte da inventare per una carica «anomala ».
Ma se la carica era anomala, ancor più lo era l’uomo designato a ricoprirla. Grande avvocato napoletano, si era affermato non con l’eloquenza focosa e alluvionale che caratterizzava la scuola forense meridionale, ma col suo ferrato puntiglio giuridico, e soprattutto procedurale. In un ambiente non sempre cristallino, ammorbato dalla spregiudicatezza, dalla venalità e anche da compromissioni camorristiche, aveva portato un suo personale, severissimo costume. Non incassava i vaglia dei clienti se non dopo aver deciso di occuparsi del loro caso, e non prendeva un soldo se, esaminato semplicemente il fascicolo, decideva per il no. Scapolo, ritroso, solitario, suscettibilissimo, perse quasi tutto il patrimonio accumulato in una lunga e fortunata vita professionale perché, da patriota imprevidente, aveva avuto fiducia nei titoli di Stato. Allo scoppio della guerra investì in buoni del Tesoro, all’interesse del 3,50 per cento, dieci milioni (di allora, ovviamente), che furono polverizzati dall’inflazione. La sua eleganza accurata e antiquata, la sua rettitudine, il suo stile, l’avevano reso popolare in una città che vedeva in lui ciò che avrebbe voluto essere, e che non era.
Sulla scia dei brillanti successi forensi, De Nicola era approdato alla politica, ed era stato eletto deputato di Afragola sconfiggendo il candidato giolittiano. Il che non gli impedì di essere fatto dallo stesso Giolitti sotto- segretario alle Colonie, nel 1913. Era allora trentaseienne. Praticò la vita pubblica con gli stessi scrupoli di correttezza esasperata cui s’era ispirata la sua vita professionale. «Aveva l’abitudine » riferì Bartoli nel suo Da Vittorio Emanuele a Gronchi «di scrivere la corrispondenza privata su carta senza intestazione, e di fare affrancare le lettere a proprie spese. » Gli fossero piaciuti il potere, e il governo, De Nicola sarebbe diventato senza difficoltà Ministro, Presidente del Consiglio. Manifestò prestissimo, invece, la sua vocazione al rifiuto. L’assunzione di una carica pubblica era preceduta sistematicamente da una fase durante la quale De Nicola si faceva pregare, e accettava, se accettava, di malavoglia. Altrettanto sistematicamente sopravveniva una seconda fase durante la quale De Nicola si dimetteva, e veniva indotto a recedere dalla sua decisione – quando recedeva – con insistenze non minori di quelle che erano state necessarie per indurlo ad accettare. Gli estenuanti negoziati si svolgevano sovente a lunga distanza, perché De Nicola, alla minima contrarietà, si rifugiava nella sua villa di Torre del Greco, e di là era difficilissimo stanarlo. Questo cerimoniale contrassegnò il cursus honorum di De Nicola che era Presidente della Camera quando il fascismo si impadronì del potere.
Occupava la sua poltrona a Montecitorio il giorno che Mussolini – nel novembre del 1922 – minacciò di fare dell’aula «sorda e grigia » un bivacco di manipoli: e non redarguì l’oratore. Anzi richiamò al silenzio il deputato socialista Modigliani che aveva gridato «Viva il parlamento ». Una dimostrazione di pavidità che a De Nicola fu sempre rinfacciata. Durante il ventennio De Nicola, rassegnato ogni incarico, si appartò dignitosamente, sospendendo la serie delle offerte, dei rifiuti, delle rinunce alle rinunce. Accettò tuttavia, nel 1929, la nomina a senatore che Mussolini – il cui consenso era indispensabile – forse non propose, ma che certo non avversò.

Proprio perché così riluttante ad occupare poltrone, in un Paese dove per conquistarle i politici si scannavano, De Nicola finiva per essere subissato di proposte. Gliele facevano sapendo che le declinava, e che, se diceva sì, si trattava pur sempre di un sì provvisorio e fragile, che non sbarrava definitivamente la strada agli altri concorrenti. Ma i suoi no erano dosati, c’erano quelli definitivi e irrevocabili, c’erano quelli tenaci, e c’erano quelli che preludevano all’assenso, purché estorto. Nelle elezioni per la Costituente non aveva voluto candidarsi. Era un no vero. Gli avevano fatto visita, per indurlo a entrare nella Unione democratica nazionale, Benedetto Croce e Porzio. «L’ho fatto io che non sono un uomo politico » aveva detto Croce «a maggior ragione dovete farlo voi che vi siete occupato di politica per tanti anni. » Dopo di lui Porzio era ricorso alla mozione degli affetti: «Mi sono sognato mamma tua » aveva detto a De Nicola, la cui risposta era stata fulminea: «Anch’io l’ho sognata: mi ha detto di non presentarmi candidato ». Avendo a che fare con un personaggio di questa fatta, la Costituente deliberò la sua nomina a Capo provvisorio dello Stato senza chiedergli se era d’accordo. Il 27 giugno – mentre già sul suo nome convergevano tutti – ribadiva di non volerne sapere, e quando Saragat, nell’imminenza del voto, lo chiamò per vincerne la ritrosia, staccò il telefono. Solo a elezione avvenuta pronunciò il sospirato sì, e molti sospettarono che
Il precedente irremovibile no alla candidatura in una lista di partito mirasse proprio a lasciarlo libero per la successiva ben più alta designazione.
Capo dello Stato per ventidue mesi – cessò di essere provvisorio e assunse la qualifica di Presidente della Repubblica solo il primo gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione – De Nicola rifiutò il fasto del Quirinale, e preferì il Palazzo Giustiniani, noto come sede di una delle massonerie italiane, che è accanto a Palazzo Madama. Pazientemente, ingegnosamente, da procedurista raffinato, elaborò il protocollo sul quale la Repubblica avrebbe poi largamente campato di rendita, senza tuttavia perseverare nello stile sobrio e sparagnino di questo suo primo Presidente. Era schivo, ma con impennate di puntiglioso orgoglio se appena avvertiva un’ombra di irrispettosità. Fu un Capo dello Stato senza corazzieri, e senza first lady.
Con De Gasperi e i Ministri era cordiale, cauto, buttando là qualche avvertimento politico, ma più sovente insistendo perché alcuni atti solenni non avvenissero di venerdì, giorno infausto. Il suo soggiorno a Palazzo Giustiniani fu punteggiato di scatti umorali, e da qualche sdegnoso ma temporaneo ritiro a Torre del Greco. Su alcuni «incidenti » più gravi con il governo, e sulle vicende della sua mancata ricandidatura ed elezione, ritorneremo. Da Palazzo Giustiniani uscì in collera, così come in collera lasciò negli anni successivi la presidenza del Senato e quella della Corte costituzionale. Risolse brillantemente nella sua esistenza, infinite volte, gli altrui dilemmi umani, o giuridici, o politici, ma non risolse mai il suo proprio dilemma: che era quello d’un amore-odio per il potere, per le dignità, per gli onori. Questa incertezza lo rendeva, lui così amabile, litigioso e anche offensivo. Sembrava scaricasse sugli altri l’insoddisfazione per quel suo piacere morboso di volere gli inviti, infuriandosi se non gli erano rivolti, per poi sdegnarli.”.


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Bart