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STORIA: Montanelli: Tutto sul Doge di Venezia

10 Ottobre 2021

(Da Indro Montanelli: “Storia d’Italiaâ€)

L’espansione economica all’esterno fu resa possibile dalla stabilità politica all’interno, garantita da un’originale costituzione aristocratica. Solo in teoria infatti Venezia era una repubblica democratica. I suoi ordinamenti, fin dall’ottavo secolo, furono oligarchici. Se i primi dogi erano stati eletti a suffragio popolare, col passare del tempo il diritto di voto fu limitato a gruppi sempre più ristretti di cittadini. Tuttavia solo alla fine del 1100 l’elezione del doge ebbe un assetto definitivo. La procedura era lunga e macchinosa; noi cercheremo di semplificarla (ma temiamo di non riuscirci).
Il supremo organo dello Stato era il Gran Consiglio, formato da un migliaio di membri, di età non inferiore ai trent’anni, appartenenti alle famiglie più cospicue per censo o per nascita. Il giorno dell’elezione si riunivano, e ciascuno traeva una pallina da un’urna. Coloro ai quali toccava in sorte una delle trenta palline con la scritta lector, o elettore, restavano nell’aula, mentre gli altri ne uscivano. Con lo stesso sistema i trenta si riducevano a nove, i quali a loro volta sceglievano, fra tutti i componenti il Gran Consiglio, quaranta nomi. I quaranta si riducevano a dodici che in una successiva votazione ne eleggevano venticinque. Nuovo ballottaggio e i venticinque ne designavano nove, i quali dovevano eleggerne quarantatré che si riducevano 320 poi a undici. Costoro finalmente designavano i quarantuno elettori del doge, e a questo punto cominciava il conclave.
I partecipanti venivano rinchiusi ciascuno in una delle sale del palazzo ducale, in compagnia dei servi e sotto la vigilanza di due consiglieri. Ogni elettore proponeva su una scheda un candidato. Colui che otteneva almeno venticinque voti era il nuovo doge. I conclavi non duravano in media più di due-tre giorni, ma qualcuno si prolungò per oltre un mese, durante il quale si faceva un gran scialo di carni, pesci, selvaggina, frutta, verdura, torte, spezie, gelati, vini, liquori. Le tavole erano inghirlandate e co-sparse di profumi. Fra una votazione e l’altra i conclavisti giocavano a carte e a scacchi.
Le campane delle chiese annunciavano l’avvenuta elezione e chiamavano a raccolta in piazza San Marco i Veneziani. Il gran cancelliere della Repubblica comunicava al neo-eletto l’esito della votazione. Poi cominciavano le cerimonie ufficiali. I patrizi veneti sfilavano davanti al doge e gli rendevano omaggio. Si svolgeva quindi un banchetto al quale intervenivano i notabili della Repubblica e il corpo diplomatico. Successivamente il neo-eletto si recava nella chiesa di San Marco a baciare le reliquie dell’Evangelista. All’uscita veniva acclamato dal popolo al quale distribuiva denaro. Si avviava poi a palazzo ducale, e qui, dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica e rispetto alla costituzione, indossava uno speciale copricapo a forma di corno, tempestato di diamanti, simbolo della suprema autorità. Finalmente, esausto, si ritirava nei suoi appartamenti. Per tre giorni Venezia era in festa. Nelle piazze il popolino s’abbandonava a canti e danze. Nelle sale del palazzo ducale si dava un gran ballo in onore dei nobili e dei cittadini più ragguardevoli. Il doge però non vi compariva, e a fare gli onori di casa erano i suoi familiari.
Venezia era una provincia bizantina. Ciò implicava il riconoscimento ufficiale del doge da parte dell’Imperatore d’Oriente. Era, si capisce, una pura formalità come del tutto convenzionali erano i titoli di console, spalano, senatore, patrizio e maestro che il basileus conferiva al doge, cui spettavano di diritto anche gli appellativi di ìnclito, preclarissimo, glorioso, magnifico, eccelso, illustre, serenissimo. Quest’ultimo prevalse sugli altri fino alla caduta della Repubblica.
Dapprincipio i poteri del doge erano molto ampi, ma col tempo diventarono sempre più limitati poiché la suprema autorità politica era detenuta dal Gran Consiglio. Il doge non poteva esercitare il commercio e l’usura, fare o ricevere doni, aprire le lettere di Stato, esibire ritratti o stemmi di famiglia, innalzare baldacchini, concedere udienze private. Non aveva diritto a baciamano né a inchini. Doveva pagare le tasse come un qualunque cittadino, finanziare il Capitolo di San Marco, stipendiare il cappellano di palazzo e assistere alla messa almeno tre volte la settimana. Se voleva fare un viaggio doveva chiederne l’autorizzazione al Gran Consiglio che gli vietava persino di recarsi a teatro. Raramente, e solo nelle grandi occasioni, usciva da palazzo ducale. Talvolta, per non farsi riconoscere, indossava una semplice tunica e si copriva il volto con una maschera. La sua gondola era addobbata con due cuscini e un tappeto color crèmisi. Dalla metà del tredicesimo secolo il doge fu obbligato a regalare ogni anno ai nobili veneziani due anitre selvatiche, una grassa e una magra, allevate, per tale scopo, in un suo feudo situato in val di Marano.

La vita pubblica del doge era regolata da un rigido cerimoniale e da un protocollo complicatissimo. Egli doveva partecipare alle sedute del Gran Consiglio e presiedere le più importanti riunioni di Stato. Quando pronunciava un discorso, lo faceva non in latino, come usava dappertutto altrove, ma in dialetto veneto, restando seduto e a capo coperto, mentre l’uditorio si levava silenziosamente in piedi. Le spese che doveva sostenere erano immense. La lista civile, o appannaggio, che lo Stato gli versava non era sufficiente a coprirle. Doveva arredare i propri appartamenti, dotarli di mobili, tappeti e argenteria, mentre agli arazzi e alle sedie di velluto provvedeva il ministro del Tesoro.
Il doge stanziava anche una certa somma per il proprio guardaroba che comprendeva capi di vestiario assai costosi. Fin verso il XII secolo essi erano di foggia bizantina. Il celebre corno che fungeva da diadema sovrano derivava da un copricapo greco; di fattura orientale era anche l’abito da cerimonia, composto da una sottana, o dogalina, da una tunica e da un manto di lana o di velluto, a tinta unita o a fiori, di solito foderato di pelliccia e dotato di uno strascico.
Sotto la dogalina indossava un paio di bra- goni di velluto e raso crèmisi, fermati da una cintura scarlatta con fregi d’oro. Ai piedi portava calzette rosse e sandali, e al dito un anello con l’effigie di San Marco, protettore di Venezia, nell’atto di consegnargli lo stendardo della Repubblica. Il colore delle vesti variava a seconda delle circostanze. Il venerdì santo il manto era scarlatto e la vigilia di Natale crèmisi. I primi dogi portavano i capelli lunghi e la barba folta, tagliata alla greca, ma col tempo e il mutare della moda Venezia andò perdendo quei caratteri bizantini che per secoli avevano improntato la sua vita e i suoi costumi.
Anche i familiari del doge erano sottoposti ‘ a ogni sorta di limitazioni. Esclusi dalla carriera ecclesiastica e da quella pubblica, i figli e i fratelli potevano entrare a far parte del Gran Consiglio dove però non avevano diritto di voto. L’unico privilegio di cui godevano era la precedenza sugli altri patrizi. Nelle grandi occasioni seguivano il corteo dogale che, preceduto da una banda di trombe e di pifferi, si snodava attraverso le calli cittadine, diretto in piazza San Marco. Qui, quando il doge moriva, faceva capo il solenne corteo funebre con le sue spoglie mortali.
Dapprincipio le esequie non rivestirono alcun carattere di solennità. Solo dopo il Mille cominciarono ad ammantarsi di una certa pompa.
Il corpo del doge, poche ore dopo il decesso, veniva imbalsamato e avvolto in un manto d’oro. In testa gli veniva posto il corno ducale, ai piedi gli speroni d’oro calzati alla rovescia, e al fianco lo stocco, ch’era uno spadino corto e sottile, con la impugnatura rivolta verso l’estremità. La salma veniva quindi deposta su un grande tavolo foderato di tappeti fra due alti candelabri accesi in una delle sale del palazzo, e per tre giorni, vegliata da gentiluomini in toga rossa, rimaneva e- sposta al pubblico. I funerali si svolgevano al calar del sole ed erano accompagnati dai rintocchi delle campane di San Marco e delle altre chiese della laguna. Un interminabile corteo di consiglieri, magistrati, ufficiali, ammiragli ed ecclesiastici, seguiti da una folla oceanica di cittadini, s’avviava verso la chiesa dei santi Giovanni e Paolo (col cattivo tempo il rito funebre si svolgeva in San Marco), brandendo labari, gonfaloni, ceri e simulacri di santi. I congiunti del doge che scortavano il feretro indossavano un mantello nero con cappuccio. Quando il corteo giungeva davanti a San Marco le campane cessavano di suonare e alcuni marinai sollevavano nove volte da terra il catafalco gridando «Misericordia ». Al termine del rito, che si chiamava salto del morto, la processione si rimetteva in marcia, dirigendosi verso la Chiesa dei santi Giovanni e Paolo. Qui il Patriarca celebrava la messa funebre che culminava con la benedizione del cataletto, collocato nel bel mezzo della navata centrale e ricoperto di drappi neri con gli stemmi del doge. La cerimonia si concludeva con l’inumazione della salma che avveniva nella chiesa stessa. Le ingentissime spese del funerale erano a carico della famiglia del doge che molto spesso per sostenerle s’indebitava fino al collo.
Non meno fastose erano le esequie della dogaressa che il Da Mosto definì «principessa esclusivamente veneziana ». In origine essa non era che la moglie del doge, priva di speciali prerogative. Ma al principio del XIII secolo privilegi e limitazioni vennero estesi anche a lei. Nel 1229 la dogaressa Tiepolo s’impegnò a non accettare doni, a meno che non si trattasse di acqua di rose, balsami e fiori, e promise di non contrarre debiti e di non esercitare l’usura. Nelle grandi solennità cingeva il corno ducale, indossava un manto dorato e si copriva il viso con un velo. Sedeva sempre alla sinistra del doge su uno scanno sopraelevato, e a tavola veniva servita in piatti dorati. Aveva a disposizione una gondola con specchi e pomoli. Era la first lady, la prima signora della Repubblica, e spesso godette di una popolarità superiore a quella del doge. Essa eguagliò per fasto e ricchezza la basilissa greca e l’imperatrice di Persia, vivendo nella più prospera e brillante capitale d’Europa e forse del mondo.


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Bart