STORIA: SCRITTORI DI GUERRA LUCCHESI: Dino Magistrelli: “I.M.I. N. 66484”
23 Novembre 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Non sono molti coloro che conoscono la storia e il travaglio dei nostri soldati che, avendo dopo l’8 settembre 1943 rifiutato di combattere per i tedeschi, furono presi prigionieri e rinchiusi nei campi di concentramento in Germania. I.M.I. sta per Internati Militari Italiani.
Questo libro è stato scritto per renderne memoria.
Dino Magistrelli (per tanti anni giornalista de La Nazione) è il figlio di Corinno, il prigioniero protagonista, il quale racconta in prima persona, mentre l’autore illustra e spiega i dati storici. Il numero 66484 è il suo “numero identificativo da prigioniero”.
Il 10 giugno 1940, quando l’Italia entra in guerra, Corinno si trova nei campi a fare il suo lavoro di pastore e di contadino assieme al padre Adelio, “sull’Alpe di Borsigliana per il taglio del fieno.”. Ha 17 anni. Si spera che la guerra duri poco onde evitargli la chiamata alle armi. Invece la guerra si presenta difficile e lunga e il 5 gennaio 1943 parte per il servizio militare da svolgersi a Dronero (Cuneo). Poi il suo battaglione verrà trasferito in Alto Adige.
Ed ecco che il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’armistizio, è fatto prigioniero dai tedeschi, insieme a tanti altri militari italiani.
Comincia il calvario. Il 20 settembre i tedeschi non li considerano più prigionieri di guerra bensì ‘internati’, “un sistema per non riconoscere ai soldati prigionieri le garanzie delle diverse Convenzioni di Ginevra.”. Poi il “2 agosto 1944 (in seguito all’accordo Hitler-Mussolini del 20 luglio): ancora un cambiamento di stato giuridico fino al termine della guerra, da internato militare si passa a lavoratore civile. In questo modo quei giovani potevano essere utilizzati come manodopera coatta senza godere delle tutele della Croce Rossa, di cui avevano diritto.”.
Sarà liberato dall’esercito statunitense il 22 marzo 1945 e farà ritorno a casa, a Vergnano di Piazza al Serchio nell’Alta Garfagnana, il 3 settembre dello stesso anno.
Il giorno dopo l’armistizio l’esercito tedesco è pronto a reagire: “Il 9 settembre, il mattino verso le 11, arrivano gruppi di tedeschi armati che ci invitarono a consegnare le armi e noi, con il suggerimento anche degli ufficiali, non facemmo altro che ubbidire e in pratica arrendersi. Insomma abbiamo gettato via le armi, che in pratica si trattava di moschetti e poco altro, ammassandole da una parte. Sembrava quasi che fosse roba rubata da disfarsene velocemente.
Mi ricordo ancora quella catasta di moschetti, in un angolo del nostro campo. Poco dopo arrivarono dei carri armati tedeschi, di cui uno aveva alzata una bandiera bianca ed altre camionette. Sul momento, comunque, sembrava una situazione tranquilla e pacifica. Invece, dopo poche ore dalla consegna delle armi, cambiò l’atteggiamento dei militari tedeschi, molti dei quali li conoscevamo di vista o anche per averci ‘parlato’ qualche volta, ovviamente più a gesti che a parole per problemi di lingua.”.
Vengono portati alla stazione ferroviaria più vicina e caricati su vagoni bestiame, ciascuno strapieno fino all’inverosimile e sprangati da fuori: “Peggio ancora, il treno partì dopo quasi una giornata che eravamo rinchiusi. Il viaggio era lento con continue interruzioni forse per dare la precedenza ai treni di linea. Per i bisogni fisiologici, riuscimmo, con non poca difficoltà, a mani nude, a creare un’apertura nel pavimento del carro, ma lascio immaginare i cattivi odori che si sprigionavano all’interno con così tante persone. Inizialmente, mentre per la pipì si faceva contro la parete e per terra, per altri bisogni qualcuno era arrivato a defecare anche nella propria gavetta, quasi in segno di rispetto verso gli altri, invece che farla sul pavimento.”.
Si arriva a destinazione, il campo di concentramento di Limburg, situato “nel Land dell’Assia in Germania”, sorvegliato dalla Wehrmacht. I campi di sterminio erano invece sorvegliati dalle SS.
“Si calcola che nei giorni successivi all’8 settembre 1943, i tedeschi abbiano disarmato e preso prigionieri 1.007.000 militari italiani su un totale approssimativo di circa 2 milioni che si trovavano sotto le armi. Di questi, 196.000 sfuggirono alla deportazione dandosi alla fuga per lo più poi confluendo nelle squadre partigiane.”. Alla fine di tutto “furono oltre 600 mila i militari che rifiutarono di aderire alla RSI e dunque di riprendere le armi al fianco dei tedeschi e delle truppe fasciste repubblicane italiane.”.
La vita all’interno del campo è terribile. A causa della scarsità del cibo, si dimagrisce velocemente. I nomi propri sono quasi dimenticati. Ci si chiama con il numero che è stato assegnato a ciascuno degli internati: “Tra noi internati dilagava la tubercolosi verso la quale non c’era allora praticamente scampo. Le condizioni di vita erano sempre più disumane e la fame ci spingeva a cercare le bucce di patate o di mele tra i rifiuti, tanto da mettere qualcosa sotto i denti. Le baracche erano prive di ogni servizio igienico interno e ospitavano brande di due e a volte tre piani.
Ad ogni internato venivano assegnati un pagliericcio e due coperte corte. Anche l’abbigliamento era insufficiente. Disponevamo perlopiù della divisa con la quale eravamo stati catturati ai primi di settembre.”.
Le miserevoli condizioni di vita non cambiano quando, un mese dopo, Corinno è trasferito da Limburg a Forbach, “una cittadina francese occupata dai nazisti nel 1940 e dopo il 1945 ritornata alla Francia.”.
Quando gli internati uscivano per recarsi al lavoro “se capitava di catturare piccoli animali, dai conigli alle galline dispersi, ai gatti, ranocchi, lumache, al rientro, la sera, li facevamo cuocere su una vecchia stufa posta nel mezzo della baracca. Insomma tutto serviva per togliere via i morsi della fame.”.
Anche la notte era difficile dormire: “Le ore notturne del sonno che avrebbero potuto essere il momento della dimenticanza del nostro stato, erano invece interrotte da ispezioni e controlli che avevano soltanto la finalità di crearci ulteriore disagio e qualunque pretesto era buono per assegnare delle sanzioni e pene. Ad esempio uno che saltava giù dal letto con un leggero ritardo era soggetto immediatamente a punizioni che consistevano in riduzioni del già scarso cibo, aumento delle ore lavorative, frustate e percosse.”.
Corinno, che ha lasciato al figlio i suoi ricordi all’età di 80 anni, ha una memoria di ferro e non si dimentica nemmeno dei particolari, così che ci offre l’immagine di un prigioniero che deve escogitare di tutto pur di sopravvivere e sfidare il rischio di essere severamente punito, anche con un colpo di pistola sparato dai suoi aguzzini.
Chi ha avuto un familiare, come il sottoscritto, rinchiuso in uno di questi campi per internati militari, ha modo di rendersi conto delle sofferenze patite e riviverle, quando, come spesso è successo, il sopravvissuto ha avuto vergogna di parlare di queste disumane umiliazioni patite: “Ammalarsi significava l’anticamera della morte in quanto subito lo sventurato veniva trasferito in apposite stanze-lazzaretto in attesa del trapasso ovviamente senza medicinali.”.
I tedeschi passavano continuamente a sollecitare gli italiani ad arruolarsi nell’esercito della Rsi, quello repubblichino di Mussolini. In questo caso avrebbero beneficiato di un trattamento migliore in attesa di essere inviati in Italia per riunirsi all’esercito in formazione comandato dal Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani. Furono pochi ad aderire, e Corinno ci spiega che il massiccio rifiuto degli altri non fu un atto eroico, come poi venne considerato: “Oggi, a tanti anni di distanza, quel rifiuto a tornare in Italia e lasciare così i campi di concentramento viene spiegato come un atto eroico, ma per me è un termine esagerato, insomma non andò proprio così. La maggior parte di noi ragazzi di allora non aveva conoscenza degli eventi in corso e consapevolezza politica. Eravamo soltanto molto stanchi della guerra e delle armi e preferivamo rischiare a rimanere prigionieri, sperando in una prossima liberazione anche se essa non era affatto all’orizzonte.”.
Corinno ci rivela anche che i tedeschi non spingevano molto per l’adesione, preferendo che gli internati lavorassero per loro in Germania: “vedevano nei prigionieri italiani una preziosa manodopera da utilizzare nelle proprie industrie quasi a costo zero.”.
Aderirono in 62.500, “in pratica il 10% dei soldati italiani deportati nei campi di concentramento.
Va anche ricordato che molti di questi 62.500 al loro arrivo in Italia disertarono o si dettero alla macchia alla prima occasione.”.
Per dare conto delle malattie a cui i prigionieri andavano incontro, si riporta ciò che accadde a Corinno: “Nel lager ho rischiato la vita quando presi una forte dissenteria in seguito alla scarsa igiene alimentare oppure per l’acqua inquinata. In pratica mi ridussi ad essere senza la forza di muovermi, ero inerme, ad occhi chiusi, quasi in coma, anche se ero vigile e riuscivo ad ascoltare le parole dei miei compagni garfagnini (…) I miei compagni mi vedevano con gli occhi chiusi, sudato, con la febbre sicuramente altissima e non pensavano certo che ascoltassi i loro commenti. Fecero comunque una scelta di grande generosità umana, decisiva e vitale per me. Infatti cominciarono a farmi mangiare soltanto un po’ di mollica e poi fettine di pane anche del loro. In pratica roba solida e poco alla volta fu un toccasana. Per alcuni giorni, insomma, evitai quella brodaglia che sicuramente era anche un forte lassativo.”.
Quasi tutti i giorni venivano scelti per un lavoro: “Quasi ogni giorno capitavano al campo degli esponenti delle ditte tedesche per sceglierci, quasi come fossimo delle bestie, per il lavoro nelle loro aziende. Lavoravamo anche 14 ore al giorno nelle fabbriche nelle varie industrie degli armamenti tedeschi. Andava un po’ meglio quando eravamo chiamati a lavorare nell’agricoltura, grazie ad un contatto più umano con i proprietari agricoli tedeschi, ai ritmi lavorativi meno assillanti e la possibilità di mangiare qualcosa dei prodotti che raccoglievamo e trasportavamo. Ne ho avuto un’esperienza diretta.”.
Dal febbraio 1944 cominciano ad arrivare i pacchi con vestiario e viveri spediti dalle famiglie italiane ai propri cari: “Un problema poi era conservare quella roba per qualche giorno senza farsela rubare. Nello stesso tempo era angosciante per chi mangiava, incrociare lo sguardo di chi non aveva nulla. Magari eri sul letto a castello e sapevi bene che sopra o sotto c’era un altro prigioniero che ti sentiva masticare qualcosa. Dividere, però, fra tanti un pacco significava un atteggiamento autolesionista e in qualche modo neppure morale e rispettoso per la propria famiglia che magari si privava di quei biscotti, di quel pane, di quella maglia e calzini di lana per inviarli a te.”.
Quando i prigionieri scrivevano ai familiari cercavano sempre di rassicurarli sulla loro salute, non dimenticando mai di ringraziarli per i pacchi ricevuti.
L’autore riporta alcune di queste lettere scritta dal papà.
Praticamente, con le memorie lasciate da Corinno, stiamo vivendo direttamente la straziante vita condotta dai nostri militari internati in Germania. Non c’erano differenze di sorta tra l’uno o l’altro dei prigionieri e, leggendo di Corinno, possiamo dire con certezza di leggere anche di tutti gli altri.
Una testimonianza, dunque, personale, ma di valore generale.
Le parti che derivano direttamente dalla testimonianza di Corinno sono scritte in corsivo, mentre quelle introduttive e spiegative sono dell’autore e riportate in carattere normale.
Arriva il giorno che cambiò le sorti della guerra, il 6 giugno 1944, quando si ebbe lo sbarco in Normandia, che “fu una delle più grandi invasioni via mare della storia. Il nome in codice fu Operazione Neptun: “All’alba del 6 giugno, precedute da un intenso bombardamento aeronavale, i soldati alleati sbarcarono su cinque spiagge lungo una fascia di circa ottanta chilometri sulle coste della Normandia. Le truppe statunitensi con tre divisioni di fanteria presero terra alle ore 6,30 sulle spiagge denominate Utah e Omaha, mentre quelle anglo-canadesi, un’ora più tardi, con altre tre divisioni sbarcarono sulle spiagge chiamate Swords, Juno e Gold.”.
I tedeschi furono costretti, così, ad aprire un nuovo fronte, togliendo truppe da quello orientale. I bombardamenti alleati si fecero frequenti e intensi: “I bombardamenti rappresentavano anche un momento di grande sbandamento per i nostri guardiani tedeschi e noi ne approfittavamo per rifornirci di qualcosa da mangiare dagli abitanti del luogo e in cambio indicavamo loro alcuni rifugi sicuri e incustoditi dove potevano mettersi in salvo.”.
Il 22 marzo 1945 è il giorno della liberazione da parte delle truppe americane: “Inizialmente avevano un atteggiamento un po’ guardingo, diffidente, sembrava che non apprezzassero troppo noi italiani ormai passati alla storia, in diverse occasioni, come traditori in guerra. Però presto i rapporti migliorarono e la situazione si ammorbidì anche perché nell’esercito americano c’erano molti nostri paisà, cioè compaesani emigrati in America o figli di emigrati, che avevano scelto, o forse anche obbligati, di ritornare in Europa per combattere contro il nazismo e il fascismo.”. Tra essi c’è un cugino di Corinno, “Ugo Magistrelli, classe 1916, con la divisa di soldato degli Stati Uniti.”; “L’incontro fu emozionante. Parlava bene l’italiano-garfagnino e ci potemmo scambiare tante notizie sul nostro parentado.”; “Sicuramente dobbiamo essere grati all’esercito americano che curò molti di noi e fornì un’alimentazione adeguata per fare recuperare in fretta peso e forma fisica a noi giovanotti poco più che ventenni. In pratica, a giugno-luglio 1945 ero ritornato quel ragazzo, pieno di vigore, che era partito da Vergnano per il servizio militare, addirittura con qualche chilo in più. Per diversi mesi svolsi vari servizi all’interno della caserma del campo militare americano. In pratica eravamo diventati dei soldati yankee, a cominciare dalla divisa e qualche frase biascicata in italo-anglo-francese-tedesco.”.
Arriva il 3 settembre 1945, e Corinno è rientrato a Vergnano, a casa sua. Si sposa il 23 settembre 1950 con Giuditta, “una brava sarta” che vive a poche decine di metri da lui, e l’autore ci fa sapere che “Papà Corinno è deceduto il 13 marzo 2012 mentre mamma Giuditta è scomparsa il 18 ottobre 2018. Il loro matrimonio è durato 61 anni, 5 mesi, 19 giorni.”.
Il bel libro è arricchito da foto e documenti.
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