TEATRO: I MAESTRI: Ruzante. Signore o contadino?26 Maggio 2016 di Giorgio Zampa Era una sera, dell’inverno ’56-’57, all’Olimpia davano la Moscheta nel l’edizione presentata al Festival di Venezia in autunno con Cesco Baseg gio, Elsa Vazzoler, Antonio Battistella, regista Gianfranco De Bosio. Sare mo stati, in platea, due dozzine di spet tatori; l’impegno degli attori, tutta via, non era ridotto. L’emozione che provai nel momento in cui Baseggio arrivò sull’orlo della scena per reci tare il prologo, è ancora viva dentro di me; era la prima volta che ascol tavo le parole grevi, torpide, rallenta te di Ruzante, il farneticare apparen te: la dizione di Baseggio guizzava attraverso gli spessori del linguaggio, dissaldava gli strati compatti, induce va corrente in zone inerti, in recessi impossibili, fondeva, coloriva, dise gnava. La Vazzoler era una Betia pe tulante, lasciva, infida che prendeva dove poteva, proiezione di una miso ginia tanto più risoluta quanto più salato il tributo da pagare alle esi genze del sesso; Battistella altissimo, membra slogate, voce cavernosa, impersonava un soldataccio bergamasco esilarante. All’uscita incontrai Orio Vergani, desolato per l’insuccesso del pubblico: come far capire che quello era grande teatro, una delle migliori rappresentazioni date in Italia negli ultimi anni? Letterato di solida educazione Ricordavo questo l’altra sera nel Lirico gremito, in attesa che il si pario di ferro si sollevasse sulla sce na preparata da De Bosio per i Dia loghi di Ruzante; in un decennio la situazione era molto cambiata. Dopo la Moscheta il regista aveva presen tato, con la Compagnia dello « Stabi le » di Torino, l’Anconitana e, nel ’65, per la prima volta, i Dialoghi; l’ope razione Ruzante, una delle più impor tanti compiute dal nostro teatro nel dopoguerra, entra ora in una fase for se decisiva. Se le cose andranno come ci si au gura, Ruzante conoscerà la fortuna che per secoli gli fu negata. Diffuse, apprezzate, celebrate nei luoghi di origine fino al tardo Cinquecento, le sue commedie conobbero un’eclisse da cui cominciarono a farle uscire, per singolare che sia, i francesi tra la fine dello scorso e i primi decenni del no stro secolo. Le premesse per un rico noscimento nazionale oggi non man cherebbero; va però ricordato che il destino di un’opera teatrale non è quello di un’opera letteraria. Esso non si alimenta solo del favore di una cerchia di intellettuali, ha bisogno di un pubblico eterogeneo, che le con senta di dilatarsi, di maturare, sarei quasi per dire di corrompersi. Se in questi anni sono stati accolti con favo re testi letterari regionali, rivelatori di situazioni sociali particolari, di mo di nuovi di considerare tali situazio ni, il teatro ha beneficiato di questa apertura solo di riflesso. L’elemento dialettale, al contrario di quanto si potrebbe pensare a tutta prima, re ca sulla scena caratteri non popolari ma aristocratici, quasi sempre al lontana più che non inviti: nonostan te radio, televisione, caserma, svilup po industriale, le divisioni regionali persistono fortissime. Una rappresentazione in pavano del ‘500 va incontro a difficoltà costituite in buona parte da pregiudizi, perché non è vero che offra ostacoli insor montabili; ma di tali difficoltà biso gna prendere atto, senza illudersi che possano essere eliminate da una cam pagna condotta in sede culturale, da un’operazione di professori. E’ questo, soprattutto, il pericolo insito nel fa vore che sta incontrando Ruzante: non si vorrebbe sapere scambiato l’in teresse di specialisti, peraltro alta mente benemeriti, con il favore del la platea, fondato su una intelligenza elementare, istintiva, causa e conse guenza del successo. Goldoni è quello che è anche perché oggetto di interpre tazioni infami, di equivoci paurosi, di arbìtri di ogni genere. E’ questa spe cie di degenerazione, in definitiva, a costituire la humus che alimenta la fama dell’autore del Ventaglio. Così considerata, l’attuale messa in scena dei Dialoghi mi sembra segni un li mite estremo di tensione: ancora un istante, e lo scrupolo filologico fini rebbe per agire negativamente, per raffreddare, per dare l’impressione che il fatto teatrale, rispetto a quello letterario, sia accessorio. Dall’immagine di un popolano che scrive farse e sproloqui in dialetto, perché incapace di esprimersi in lin gua, al ritratto, tratteggiato dal Mortier in avanti, di un letterato di soli da educazione, vissuto in un ambiente raffinato come quello di Alvise Cor nare, in una Padova che sulla sua grande tradizione umanistica innesta va fermenti nuovi e vari, tra Urbi no, Ferrara, Venezia, la Germania pro testante: il passo compiuto dagli stu di recenti sul Ruzante, dal Lovarini al Zorzo è decisivo, il progresso irre versibile. Allo stato attuale della co noscenza dei testi (di molte opere non s’è trovato fino a oggi traccia), si è ormai d’accordo sullo sviluppo dell’opera, dalla Pastoral alla Vaccària, collocando al centro di essa, prodotti in cui l’abilità acquisita dall’attore Beolco si equilibra con una maturità umana, una consapevolezza del mo mento storico mirabili, Il Parlamento e il Bilora (un terzo dialogo, il Me nego, non arriva alla compattezza e alla tensione degli altri). Come cornice e commento dei due atti, De Bosio ha posto la Prima e la Seconda Orazione, composizioni let te a distanza di sette anni una dall’al tra nella villa del Barco, nell’asolano, davanti ai cardinali Marco e France sco Cornaro, nipoti di Alvise. Non c’è dubbio che le orazioni, specie la pri ma, introducono in maniera perfetta nell’ambiente in cui Angelo Beolco vi veva e operava, in veste di uomo di fiducia di casa Cornaro, addetto all’am ministrazione della campagna, e di attore, autore e organizzatore di spet tacoli. Esse consentono di scorgere l’ambiguità dell’atteggiamento di Ru zante nei confronti del contado, la sua partecipazione e il suo distacco, espres so soprattutto dall’uso del dialetto; ma non direi che sul piano della re gìa la realizzazione sia all’altezza del le intenzioni. La scena del Lirico, va stissima, si presta poco per spettacoli da camera, soprattutto per la reci tazione di lunghi monologhi. A parte le composizioni « contaminate » di Sergio Liberovici, che innestando mu sica beat a motivi del ‘500 mi lascia no perplesso, e le coreografie troppo incerte di Marta Egri, l’insieme ri chiederebbe una profilatura più accu rata, nervosa, sicura, perché non si pensi a un bal paré modesto, organiz zato per colorare discorsi di circo stanza. Sono rilievi che si impongo no, considerata la qualità degli atti al centro della rappresentazione, il lo ro vigore che rende superfluo ogni elemento decorativo. Soldato coperto di stracci Glauco Mauri, nella parte di Ru zante (nel Parlamento) e di Bilora, offre interpretazioni fuori dell’ordina rio, profondamente diverse, sfumate nei particolari più minuti; se a fon damento dei Dialoghi sono elementi comuni, l’arrivo a Venezia, dal con tado pavano, di due tangheri famelici di cibo e di sesso per riprendersi le loro donne, attirate dagli agi della vi ta cittadina, lontane una dall’altra so no le motivazioni, diversi gli esiti. Ruzante soldato, coperto di stracci e di pidocchi, approdato nelle Vinegie per ritrovare Gnua (Didi Perego), porta con sé non tanto il ricordo e l’orrore della miseria, di un’indigen za che sembra eterna, quanto lo spa vento fisico della guerra, la paura del « nemico ». e la decisione di sal vare a ogni costo la pelle. Il suo essere vivo fa tutt’uno con un’abiezione illimitata, che ha il suo rovescio in una jattanza, in un esibizionismo al trettanto sconfinati. La prontezza con cui cede senza difendersi al « bravo » che gli ha tolto la moglie, esponen dosi ai suoi colpi, giustifica il rac conto fatto al compare Menato, pure presente, di essere stato aggredito da cento pèrsone, la versione dell’incan tesimo, del tradimento, la visione del la moglie e del suo ganzo legati in sieme, sconciati. Mauri rende in ma niera persuasiva lo stato di coscienza crepuscolare del personaggio, i suoi trasalimenti brevissimi a un livello umano, il procedere vacillante nel buio dell’inconscio, sino alla risata de menziale che segue un presunto trion fo. Altrettanto aderente allo spirito del testo, alla disposizione criminale, al la violenza degli appetiti, alla fragilità o assenza di autocontrollo, è l’in terpretazione di Bilora, un umiliato e offeso di campagna, incapace di ra ziocinio e di giudizio, torbido, poltro ne, ottuso, vivo soltanto nell’attrazio ne per la sua donna. L’omicidio che commette non è dovuto a senso istintivo di giustizia, ma a un ingor do di odio, a un movimento ani male. Accurata la caratterizzazione che Alessandro Esposito fa del ricco Andronico, mentre Alvise Battain, il Menato di Parlamento, appoggia vali damente il Mauri nelle vesti di Pitaro. Letto 1268 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. 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