Cinque articoli28 Marzo 2012 Tutto porta a un Monti bis È bastato l’altolà «andreottiano » di Monti per far capire a tutti, ma soprattutto ai partiti che lo sostengono in Parlamento, quanto fosse poco credibile la minaccia delle elezioni anticipate. Così Alfano, Bersani e Casini, consapevoli della debolezza e della scarsa credibilità delle forze politiche che guidano, hanno cercato di correre ai ripari, con l’annuncio di un accordo sulla nuova legge elettorale e sulla riforma della Costituzione. L’intenzione è chiara, ma contraddittoria: da una parte, si promette di restituire ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, condizione minima, ma indispensabile per avere il coraggio di chiedere ai cittadini il loro voto; dall’altra, si cerca di allargare la libertà di manovra dei partiti nella formazione del governo, mandando sostanzialmente in soffitta quel bipolarismo all’italiana durato quasi un ventennio. Ammaestrati dal passato, bisogna essere prudenti nei pronostici, perché gli annunci di accordi, le esibizioni di buona volontà non bastano a ritenere che in un anno, quanto manca alla fine della legislatura, si riesca a varare una nuova legge elettorale e ad approvare, quanto meno, uno schema di riforma costituzionale. Come sempre, il diavolo sta nei dettagli e non si nasconde dietro i grandi principi. Quando alle parole si sostituiranno i numeri, le convenienze dei partiti faranno premio sulle rette intenzioni e poiché, su queste materie, non si possono prevedere maggioranze striminzite, i troppi poteri di veto potrebbero far saltare qualsiasi bozza d’intesa. Bisogna ammettere, però, che le probabilità di realizzare un accordo, questa volta, sono maggiori, perché le circostanze politiche, del tutto inedite e abbastanza anomale per il nostro Paese, potrebbero aiutare. Innanzi tutto, i tre partiti della maggioranza governativa, constatata quanto sia scarica la pistola alla tempia di Monti, devono dare segnali di concreta capacità riformatrice. Diversamente, apparirebbe clamoroso e quasi umiliante il confronto con un presidente del Consiglio che, in pochi mesi e con l’elogio di tutte le autorità politiche del mondo e di tutte le istituzioni finanziarie internazionali, assume decisioni importanti e anche impopolari. Autoridurre il loro ruolo a portatori d’acqua, magari riottosi e litigiosi, di un professore bocconiano, a capo di un governo «strano », farebbe sospettare, nella capitale, un’epidemia di masochismo politico. Una sindrome finora sconosciuta, anche ai medici parlamentari più sperimentati. La materia elettorale e costituzionale costituisce, naturalmente, una riserva assoluta di competenza dei partiti e, quindi, libero da qualsiasi influenza governativa, il terzetto Alfano, Bersani, Casini potrebbe dimostrare che la politica esce dalle retrovie del palcoscenico italiano e ritrova il ruolo di protagonista. C’è, inoltre, una convenienza a cercare davvero un accordo, per un motivo meno legato all’immagine e alla credibilità dei partiti e più ai loro concreti interessi. L’aspetto più importante, dal punto di vista politico, dell’intesa di massima sbandierata ieri, alla fine del vertice, è quello che sancisce la fine del cosiddetto «obbligo di coalizione », preventivo rispetto al voto degli italiani. La norma che distingueva la seconda Repubblica dalla prima, quella cominciata dopo la riconquista della democrazia. La mano libera alle segreterie dei partiti per la formazione di una maggioranza che sostenga il governo, dopo le elezioni, apparentemente potrebbe far pensare a un ritorno al passato, quello del sistema proporzionale perfetto. In realtà, il margine di discrezionalità che si affiderebbe alle forze politiche è notevolmente maggiore di quello che era a disposizione nella cosiddetta prima Repubblica. Allora, si trattava solo di scegliere, fra gli alleati della Dc, quelli più adatti al segno che la segreteria di piazza del Gesù voleva dare al suo governo. Ora, il gioco si può fare a tutto campo e nessun partito è escluso, a priori, dalla possibilità di entrare nella maggioranza parlamentare. L’astuzia della storia, però, potrebbe giocare un brutto tiro a questa «volontà di potenza » dei partiti. Se gli attuali umori elettorali non cambieranno fino al prossimo anno, è probabile che nessuna forza politica possa ottenere una quota di consensi sufficiente non solo a comandare da sola o quasi, ma neanche tale da conquistare un premio di maggioranza, o di «governabilità » come si prefigura nella nuova ipotetica legge elettorale, capace di aggregare una solida alleanza politica. La soluzione, allora, potrebbe essere quella di essere costretti, anche nel 2013, a richiamare, dopo una breve vacanza, Monti a Palazzo Chigi. Così, una riforma del voto concepita per restituire lo scettro al re, finirebbe per affidarlo al solito professore. Riforme, il finto inciucio Fino a che non le vedo non ci credo, ma faccio un atto di fede. Parlo delle riforme elettorale e istituzionale annunciate ieri al termine del vertice tra Alfano, Casini e Bersani. Così provano a smarcarsi dallo scontro frontale classico tra il blocco di centrodestra e quello di centrosinistra. Un mix tra il vecchio proporzionale (ognuno corre da solo) e il maggioritario che obbliga a indicare il candidato premier (più uno sbarramento e una modifica ai criteri di scelta dei candidati). Chi vince le elezioni detta le condizioni e decide con chi allearsi, il che in teoria renderebbe possibile anche una grande coalizione Pdl-Pd-Udc come quella che oggi sostiene Monti. Tutto questo allungherà la vita a Monti? Forse sì, non fosse altro che per i tempi che un simile lavoro comporta. Ma su tutto incombe l’approvazione della riforma del lavoro che potrebbe spaccare la sinistra e il tranello può essere dietro l’angolo. Del resto, dopo tutto quel che abbiamo visto in questi anni, ci si può fidare di Casini e di Bersani? Io direi di no. Alfano e Casini legano Bersani Bersani fa le pentole, Monti i coperchi, Casini mette le posate e Alfano il tavolo. La notizia è che la Terza Repubblica si sta apparecchiando all’italiana: tutti si siedono a pranzo con il timore che ognuno sia intento a fregare l’altro (cosa verissima) e all’ammazzacaffè si alzano sempre con l’idea che ci sia un pacco e un contropacco da qualche parte, ma il risultato finale è che la gestione del restaurant «chez Montì » va avanti e lo chef di Palazzo Chigi ha giocato bene il suo menù asiatico. Il segretario del Pd è arrivato al vertice sulle riforme con l’alone sulfureo di quello pronto a bruciare Monti sull’altare delle elezioni anticipate. Alfano e Casini lo aspettavano al varco con un megaestintore. Da buoni eredi della tradizione democristiana, Angelino e Pier se lo sono cucinato a puntino. Lo hanno coccolato e – come nei mitici congressi dello Scudocrociato – l’hanno abbracciato, stringendosi affettuosamente intorno a lui. Per strangolarlo meglio. Il vertice dell’ABC (Alfano, Bersani, Casini) è un distillato di machiavellismo, un manualetto di sminamento. Come legare Bersani e farlo sentire libero. Preceduto da una serie di telefonate preoccupate da tutte le parti, osservato speciale dal quartier generale di Re Giorgio (Napolitano), annunciato dal botto di un missile terra-aria lanciato sulla rotta Seul-Roma che è esploso nel quartier generale del Partito democratico, il summit diventa decisivo quando tutti attendevano le dichiarazioni di guerra e il via alla campagna d’occupazione del Pd. Stretto tra il mandato della direzione del partito e la determinazione di Alfano e Casini a portare a casa l’impegno a (provare) a fare le riforme, anche Bersani ha dovuto piegarsi. Attenzione, il segretario del Pd non è un ingenuo, sa benissimo che questa non è la battaglia finale, ma solo una tappa di avvicinamento della sua portaerei verso l’area di lancio. Bersani ieri ha dato il via libera all’accordo su legge elettorale e riforme istituzionali, ma lasciandosi tutte le vie d’uscita libere. È il generale D’Alema-Yamamoto a guidare le operazioni. Egli si trova nella condizione dei giapponesi contro gli americani nel Pacifico: dieci portaerei contro tre, un sistema di crittografia degli ordini (quasi) impenetrabile e un avversario in difficoltà. D’Alema può decidere di sferrare un attacco in stile Pearl Harbour (le elezioni anticipate) quando vuole nei prossimi tre mesi. Monti rientra in patria dopo la campagna di Corea pieno di medaglie. Il presidente del Consiglio ha unconsenso internazionale senza pari: in pochi giorni ha incassato il sostegno della stampa della business community (Financial Times, The Economist e Wall Street Journal) sulla riforma del lavoro, mentre sul piano istituzionale ha il via libera dell’Ocse e un «Mario go! » di Barack Obama che mitiga un Pd baldanzoso e a tratti sbruffone. È dalla troppa sicurezza delPd che bisogna partire, seguendo le nuvolette di fumo del sigaro toscano di Casini. Quando Pier ha capito che l’attacco dalemiano si stava profilando all’orizzonte, ha sfoderato il meglio del suo repertorio: il blitz angloamericano per far saltare i ponti e impedire il passaggio della cavalleria corazzata. Casini ha inviato il suo miglior agente speciale: se stesso. Così ha ottenuto che il vertice fosse asciutto, maledettamente essenziale. Poche ore di “ragazzi, un due tre, chi non ci sta è un figlio di mignotta” e poi via con un comunicato di non italiana concretezza: c’è l’accordo, andiamo avanti, ci vediamo in aula. Stop. E Alfano? Gioca il suo ruolo con paziente intelligenza. Mentre Casini lavora come Penelope al telaio della scomposizione e ricomposizione dei moderati intorno a una nuova trama, Angelino mantiene in piedi l’esistente, rinforza le fondamenta, insomma, tiene in piedi la baracca postberlusconiana. Sa che le amministrative saranno un duro banco di prova, ma ha dalla sua i numeri di un partito che, in ogni caso, sarà un perno del sistema. Parlando ai senatori ieri sera ha messo davanti agli occhi di tutti lo scenario: «La sfida del Pdl è preservare il patrimonio di questi 18 anni e destinarlo ad un soggetto politico che non nasca da una gara di coalizione ma che chiede al primo partito che vince di mettere su una coalizione intorno ad un progetto. Questo è lo scopo di una nuova strategia che probabilmente saremo chiamati a gestire ». Se passa il sistema elettorale alla tedesca, questa è la sfida: essere il primo partito, incassare il premio e aggregare chi ci sta. Intorno a questa idea Alfano può costruire il futuro del centrodestra. Ammesso che il Pd voglia correre il rischio. Perché alla fine della fiera è intorno ai piani, ai dilemmi, alle lacerazioni interiori e ciclopiche aspirazioni dei «democrats de noantri » che ruota la politica del Belpaese. In mezzo a questa battaglia feroce ci sono Napolitano e Monti, due presidenti che vivono il paradosso di essere nel loro massimo momento di potenza e, nello stesso tempo, in bilico. Il Quirinale è già sotto Opa ostile. Re Giorgio ha indebolito involontariamente le sue difese annunciando l’intenzione di non ricandidarsi. Da quel momento si è aperto il Gioco del Colle. E Prodi sogna di installarsi al Quirinale con donna Flavia. SuperMario invece fa i conti con unPd in pole position nel Gran Premio del voto e – per la prima volta da quanto è iniziata l’era dei tecnici – intento ad affiggere sui muri i tazebao della rivolta contro Elsa Fornero, alfiere della riforma del lavoro «brussellese », Lady di ferro di un governo dove i maschi sembrano di coccio e le signore (osservare le mosse di Cancellieri per averne ulteriore prova) sono temprate come l’acciaio. Ieri è stata siglata una tregua, ma la guerra è appena iniziata. La conduce, ancora una volta, la gioiosa macchina del Pd. Nel 1994 la fermò Berlusconi. Oggi il Cavaliere guarda con i binocoli il campo di battaglia. Senza di lui, sta saltando il bipolarismo. Fu costruito intorno alla sua figura, dal centrodestra come dal centrosinistra. Berlusconismo e antiberlusconismo hanno segnato tutti i passaggi istituzionali della Seconda Repubblica. Si volta pagina e s’apre un capitolo in cui la stabilità dei governi non passa dalle coalizioni costruite prima del voto, ma dal semplice e aritmetico fatto che il partito che vince incassa un premio e non c’è possibilità di mandarlo all’opposizione. È una stabilità non costruita su un Supremo Comandante, un leader che ha il carisma, galvanizza e coalizza, ma sul partito che traina meglio e tiene insieme i suoi simili. Un ritorno, se si vuole, alla normalità, ma in un sistema fatto di contraddizioni, come quello italiano, è facile che l’ordinario diventi straordinario. Perché in alto mare ci sono le portaerei del Pd schierate e la tentazione di incassare il bottino subito con il porcellum è altissima. Bastava osservare la faccia di Pier Luigi Bersani ieri dopo il vertice con Alfano e Casini per rendersene conto: non sorrideva. Non ne aveva motivo. Un accordo simile, se realizzato, leva al Pd un formidabile argomento per la campagna elettorale, posticipa l’appuntamento pregustato dal giorno del passo indietro del Cav di altri trecento giorni e lascia con il fiato sospeso tutti perché nel frattempo il Nemico, «il Caimano », non si sa che cosa possa tirare fuori dal cilindro. Diciotto anni di ossessione producono ancora l’ossessione. A getto continuo. Dentro e fuori il Pd. Ecco perché la Repubblica battezza le frasi di Monti da Seul («se il Paese non è pronto, potremmo andarcene, non tiro a campare come Andreotti ») come un «editto », parola riservata con disprezzo all’universo berlusconiano, per cui ieri era «l’editto di Sofia » e oggi è «l’editto di Seul ». Fa niente se uno è Berlusconi e l’altro è Monti. È la metafora che conta, il paradigma culturale che viene presentato al pubblico: Monti non è uno di noi. Così tutto un mondo ha chiaro che il professore è transeunte, serve a uno scopo e – foss’anche «l’ultima occasione », come ben detto da Carlo De Benedetti – Monti resta in ogni caso il passaggio a livello di una stagione, non il mattone sul quale si edifica una nuova casa. È proprio leggendo Repubblica, delizioso sismografo dei desideri progressisti, che si sviluppa nella camera oscura la perfetta fotografia di quel che sta accadendo. L’Ingegnere sostiene Monti, il direttore Ezio Mauro lo attacca in prima pagina perché osa insinuare che il «Paese non è pronto » e dunque ripudia la democrazia dal basso, mentre il Fondatore, Eugenio Scalfari ne loda l’azione e sostiene la riforma del lavoro. Una varietà di opinioni, frutto certamente di personalità forti, ma indicativa dei pensamenti e ripensamenti in corso nell’area larga del progressismo. Finito il berlusconismo, si riaprono i giochi. E sono senza frontiere. L’accordo elettorale c’è, ma il gioco degli specchi non rassicura Casini “Il gioco di specchi si è attenuato. Ma la guardia resta alta”. I sorrisi, la stretta di mano con Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani a Montecitorio, e quel sigillo su un accordo di massima per la legge elettorale, lo hanno rassicurato un po’. Ma Pier Ferdinando Casini resta diffidente. L’accordo è molto impreciso, vago. Così meglio diffidare: “La guardia resta alta”, dice. A occhio lo schema che ha approvato ieri con i suoi colleghi segretari di Pdl e Pd è proprio ciò che il leader dell’Udc ha sempre desiderato: un proporzionale corretto che annacqua (eufemismo) il sistema della contrapposizione bipolare e restituisce di fatto ai partiti – scippandola agli elettori – la facoltà di scegliere il presidente del Consiglio. Non c’è infatti obbligo di coalizione. E dunque si voteranno i partiti, per ogni partito si indicherà un premier ma senza alcuna garanzia che il leader del partito che prende più voti diventi poi davvero presidente del Consiglio. I partiti costruiranno infatti le coalizioni in Aula: gli accordi politici, come ai tempi della Prima Repubblica, li faranno dopo il voto. La bozza, cui lavorano Gaetano Quagliariello, Luciano Violante e Ferdinando Adornato, sarà pronta entro due settimane e – Casini sempre festante – non prevede nemmeno il premio di maggioranza (malgrado Maurizio Gasparri ieri promettesse: “Ci batteremo per averlo”). Chissà. Ma il più teso è comprensibilmente Casini. Più di Letta e più di Fioroni. Casini è a un passo dal colpaccio di una vita, vede la mela a portata di mano: la riforma elettorale su misura neo democristiana, un nuovo schema di gioco in cui i partiti corrono da soli e si alleano dopo il voto, in Parlamento. E’ il meccanismo ideale per inaugurare la sospirata grande coalizione nel 2013 (ipotesi che fa inorridire Rosy Bindi, per esempio). Non si facesse questa riforma, che Pdl e Pd hanno legato a una ambiziosissima e lentissima riforma istituzionale, tutte le architetture vagheggiate dall’Udc nell’ultimo anno salterebbero all’improvviso e Casini rischierebbe di vedersi tristemente sospinto al rimorchio di un più cospicuo alleato (il Pdl?) o costretto a giocare suo malgrado ancora al Terzo polo con Gianfranco Fini. Come se non gli fosse già bastata l’esperienza degli ultimi mesi a fianco dei finiani di Fli. I sospetti che il leader dell’Udc coltiva sono alimentati dai colloqui informali e dalle tante voci che Casini ha raccolto negli ambienti del Partito democratico. Il suo tremendo dubbio, fino a ieri, suonava più o meno così: com’è che a questa riforma per il Pd ci lavora solo Violante? Perché, da liberale, non ho votato la fiducia a Monti Il momento presente suggerisce l’opportunità di fare alcune riflessioni di natura generale. So benissimo, co me liberale, che liberalismo e demo crazia non coincidono, che fonda mentali diritti e libertà individuali possono essere violati e calpestati an che da una democrazia, e, di fatto, lo sono: una sola generazione addietro si sarebbe rimasti sbalorditi dalla quantità e qualità di grossolane vio lazioni delle libertà personali intro dotte nel nostro Paese da un sistema di democrazia parlamentare. Tuttavia, mi guardo bene dal con cludere che liberalismo e democrazia siano incompatibili, non lo sono af fatto. Credo invece che un paese li berale sia anche necessariamente de mocratico ma che l’inverso non sia vero: i provvedimenti liberticidi adot tati dalle democrazie di quasi tutto il mondo sono orripilanti. Che cosa di re di un paese che considera un suo cittadino adulto e maturo abbastanza da guidare l’automobile, stipulare un contratto di lavoro, sposarsi, rischiare la vita per il suo paese indossando una divisa, pilotare aerei militari su personici, ma non abbastanza adulto o maturo da entrare in un bar a bere una birra? Questo accade nella più grande democrazia al mondo: gli Usa; tutte le cose prima elencate sono con sentite a chi ha meno di ventuno an ni, mentre per bere una birra bisogna averne di più, in quasi tutti gli Stati! Detto questo, pur consapevole dei rischi che anche una democrazia comporta per le mie libertà, non ho mai votato per i due governi “tecnici” nei quali mi sono imbattuto da quan do sono in Parlamento: Dini e Monti – due amici, specie il secondo – non hanno mai avuto il mio voto. Sono, infatti, d’accordo con chi espresse quest’opinione: «I governi cosiddetti amministrativi o tecnici sono sempre stati i governi più seriamente e peri colosamente politici che il Paese abbia avuto. Il loro preteso agnosticismo è servito sempre e soltanto a coprire, a consentire o a tentare le più perico lose manovre contrarie alle necessità e agli sviluppi di una corretta vita de mocratica. Governo di affari, dunque, e dopo di esso un mutamento non nel senso limpidamente indi cato dalla consultazione elettorale, ma nella direzione opposta ». Era Palmiro Togliatti alla Camera il 9 luglio 1963! Togliatti non era un democratico ma aveva un sacro rispetto per la sovranità popolare e riteneva che essa sia violata da governi nati non in conseguenza di elezioni. Personalmente sono da sempre favorevole a governi composti di non parlamentari scelti da un Presidente eletto dal popolo. La divi sione dei poteri esecutivo e legislativo, essen ziale alla democrazia, mi induce ad essere cri tico non solo della democrazia parlamentare ma anche del cosiddetto “modello Westmin ster”: i membri del governo di sua maestà britannica devono essere scelti fra i membri della Camera dei Comuni. Purtroppo la nostra osannata (a parole) Co stituzione non conferisce al Presidente la fa coltà di scegliersi il governo che più gli ag grada; a essere violata quindi non è soltanto la sovranità popolare ma anche la nostra Car ta Costituzionale: in una democrazia parla mentare escludere i membri del Parlamento dal governo costituisce, a mio parere, un au tentico oltraggio all’istituzione parlamentare. Per questo Dini non ebbe mai il mio voto e il mio amico Mario Monti, come gli dissi fin dal primo momento, non lo avrà mai. La maledizione della “seconda Repubblica” è stata la scelta del presidente della Camera: nel 1994 Irene Pivetti, il cui partito ci fece su bire il ribaltone e perdere le elezioni del 1996; nel 2001 Pierferdinando Casini, che ci fece perdere le elezioni del 2006; nel 2008 Gian franco Fini, il cui gruppetto ha contribuito alla fine della nostra maggioranza, spianando le porte a Mario Monti. Non è per niente ca suale che i più acriticamente entusiasti del governo Monti siano l’Udc di Casini e il Fli di Fini. Che fare? Berlusconi non ha mai, dal1994 aoggi, cambiato la sua strategia elettorale: ha sempre promesso di ridurre l’invadenza della politica nella vita dei cittadini, ridurre drasticamente le spese pubbliche attuando coraggiose riforme, abbassare le aliquote d’imposta e il carico tributario complessivo gravante su famiglie ed imprese. Con questa prospettiva di “rivoluzione liberale” ha vinto nel 1994, 2001 e 2008, e quasi vinto nel 1996 e nel 2006. Evidentemente gli italiani voglio no proprio ciò che egli aveva promesso loro e, se qualcuno promettesse loro di realizzare â— finalmente! â— quel programma e avesse un minimo di credibilità, secondo me vincerebbe le elezioni. L’eredità, di questo quasi ventennio è chiarissima: le sinistre sono una minoranza dell’elettorato, non sono per niente omogenee, e non è per nulla scontato che vinceranno le prossime elezioni. Se recuperato, lo “spirito del 1994” può farci uscire dallo squallido pantano in cui siamo precipitati. E’ questa la speranza di un liberale al tempo di Monti. Letto 1246 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||