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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Waugh, Evelyn Arthur

7 Novembre 2007

Ritorno a Brideshead    

“Ritorno a Brideshead”

Bompiani, pagg. 450. Euro 9. Trad. Giovanni Fletzer

Il romanzo, uscito nel 1945, rappresenta una svolta nella produzione di questo autore inglese, che si era costruita la fama di denigratore e demolitore di certi costumi che avevano permeato di sé l’Occidente, con opere quali: “Declino e caduta”, del 1928; “Corpi vili”, del 1930; “Misfatto negro”, del 1932; “Una manciata di polvere” del 1934, considerato il suo capolavoro.  Tornerà, questo suo stile caustico, ne “Il caro estinto”, del 1948 (che ebbe nel 1964 una fortunata riduzione cinematografica del regista Tony Richardson), e in un lavoro del 1952, “L’inviato speciale”. Scrittore anche di racconti, ve n’è uno, intitolato “Amore tra le rovine”, uscito nel 1953, che mi ha ricordato, oltre che il poemetto di Robert Browning dallo stesso titolo, pubblicato nel 1855, il delizioso film del 1975 di George Cukor, che ha anch’esso come titolo “Amore tra le rovine” e tra gli interpreti una coppia davvero superba: Laurence Oliver e Katharine Hepburn.

Anche “Ritorno a Brideshead” ha avuto l’onore di passare allo schermo con una riduzione televisiva del 1981, diretta da Charles Sturridge e Michael Lindsay-Hogg e girata a Castle Howard, nello Yorkshire, e l’interpretazione del bravo Jeremy Irons.

Siamo in piena guerra, la Seconda guerra mondiale, e il protagonista, Carlo Ryder, si trova in Scozia, ha trentanove anni e da circa tre e mezzo è arruolato come capitano di fanteria, quando si accorge di non amare più quella vita: “Avevo imparato a conoscere l’esercito come si può conoscere una donna con cui si è vissuti insieme, un giorno dopo l’altro, per tre anni e mezzo; avevo conosciuto le sue sudicerie, il segreto e l’artificio del suo fascino, le sue gelosie e i suoi egoismi, i suoi tranelli giocati con l’aria innocente. Non aveva più incanto per me, era un estraneo, con cui non avevo alcuna affinità e al quale m’ero legato indissolubilmente in un momento di aberrazione giovanile.” Tra i suoi ufficiali subalterni, c’è un giovane tenente, Hooper, che accetta la vita militare “come si accetta il morbillo”; ne è colpito per quello spirito di rassegnazione che dimostra, ma anche di indipendenza: “Per quanto avesse potuto cambiare, era meno militare ora che al suo arrivo dal corso allievi ufficiali.” È proprio mentre il suo sentimento si distacca dalla vita militare che il destino lo conduce, in occasione di un trasferimento del suo battaglione, in un luogo conosciuto e amato, che risveglia in lui il ricordo di una vita diversa. Waugh mantiene nel romanzo la sua caratteristica di narratore dotato di una chiarezza espositiva priva di orpelli e sempre lineare e limpida, e se nella scrittura manca la punta avvelenata dei suoi strali sbeffeggiatori e satirici, l’intento dissacratorio affiora nel contrasto tra la sua vita passata e ciò che si trova a vivere in tempo di guerra.

La memoria lo porta agli anni ’20, subito dopo l’altra Grande guerra, quando frequentava l’Università in un College di Oxford, che “a quei tempi era ancora una città da acquarellisti.” In quell’ambiente sofisticato fa la conoscenza con Lord Sebastiano Flyte, secondogenito di una ricca famiglia, “che si rivelò la personalità più spiccata del primo anno grazie alla sua straordinaria bellezza e le eccentricità della sua condotta che sembrava ignara di qualsiasi convenzionalità.” Personaggio anche un po’ misterioso (“Non pensavo che a Sebastiano e mi avvedevo già allora ch’egli era minacciato, benché non capissi la gravità della minaccia.”), Sebastiano lo conduce nel suo castello di Brideshead per una visita alla sua vecchia nutrice, Nuníº Hawkins, la quale gli rivela che sua sorella, Lady Giulia, “Il volto di un’impeccabile bellezza fiorentina del Quattrocento”, è anch’essa al castello, sebbene in quel momento si trovi fuori per partecipare ad una riunione delle “Donne conservatrici”.

Ma Sebastiano va di fretta e non intende aspettare il ritorno della sorella, che incrocia a bordo di una Rolls-Royce “chiusa, guidata da un autista in livrea”. Waugh circoscriverà il fuoco della memoria del protagonista intorno a questa famiglia tanto ricca quanto scombinata e affascinante, da cui Sebastiano vorrebbe tenerlo lontano, giacché “Se ti conquistano col loro fascino, sarai amico loro, non mio, e non glielo posso permettere.”

Il cugino Jasper lo mette in guardia dal frequentare un tipo come Sebastiano: “il tuo amico è un po’ troppo eccentrico, e fa parlare eccessivamente di sé. Non c’è che dire, la sua famiglia è un po’ tutta così.” Ma Carlo trova in Sebastiano “qualcosa della freschezza e della gioia dell’innocenza”. Un personaggio, quello di Sebastiano, che abbiamo già trovato in molte letterature: un “Narciso” attraente e misterioso, una razza che fa dell’innocenza apparente il veicolo più spiccio della trasgressione. Chi sa perché mi viene in mente quella veloce apparizione dell’ermafrodito nel film di Fellini, “Fellini Satyricon”, del 1969.

C’è un altro personaggio eccentrico nella vita di Carlo, ed è Antonio Blanche: “i suoi vizi eran dovuti più che alla sete di piacere, al suo desiderio di dare scandalo”. Anche lui di ricca ma strampalata famiglia, frequenta personaggi illustri, quali Cocteau, Gide, Proust.

Antonio non fa che parlargli di Sebastiano, della sua bellezza e del suo fascino, ma maliziosamente, al fine di sminuirlo ai suoi occhi, al punto che si lascia scappare a bella posta l’insinuazione che la sorella Giulia sia un’incestuosa. Gli fa scoprire l’eccentricità di Lord e Lady Marchmain, i genitori di Sebastiano, che vivono separati, e il suo pettegolezzo (“quando il nostro caro Sebastiano apre bocca, sembra d’aver a che fare con una bolla di sapone che esce da una vecchia pipa di gesso”) apre nel romanzo squarci di vita mondana alla maniera di Madame de La Fayette allorché ci descrive la vita di Corte nel suo “La principessa di Cléves”. Anche Edward Morgan Forster non manca di far capolino per quell’amore che entrambi gli autori nutrono per l’Italia, spesso presente nelle loro opere. Così come in Forster, “Camera con vista” del 1908, è tratteggiata amorevolmente la città di Firenze, qui Venezia è il suo correlativo. Senza dimenticare che la stanza di Lady Teresa Marchmain, che incontreremo presto, ha alle pareti “le vedute di Firenze”. Quando Waugh ci introduce nella vecchia magione di Carlo, dove vive il padre, eccentrico e allampanato studioso, o in quella di Brideshead, ecco che un altro più giovane autore viene richiamato alla memoria, Kazuo Ishiguro, con il suo bellissimo “Quel che resta del giorno”, del 1989, in cui la elegante dimora di Darlington Hall fa un po’ da protagonista.

La Oxford di quei primi anni del Novecento, in cui si muove il protagonista, è resa con tutta la sua fascinazione. Ho avuto, nel 1985, la fortuna di visitare la graziosa cittadina e la ricordo così come la descrive Waugh, con i suoi Colleges eleganti, tutti archi e pinnacoli, le sue strade attraversate dagli studenti, quella speciale atmosfera dovuta alla riservatezza e ai severi studi.

Il soggiorno di Carlo a Brideshead ci dà l’occasione, finalmente, di conoscere gli altri componenti della famiglia, ad eccezione degli eccentrici genitori, che si trovano all’estero lontani l’uno dall’altro. Brideshead è anche il nome del fratello maggiore di Sebastiano, il primogenito (“quella faccia dura di quarzo impediva ogni confidenza.”), che Sebastiano chiama con il diminutivo di Bridey, poi c’è Cordelia, la minore, mentre Giulia, nel momento che Carlo è giunto al castello ospite di Sebastiano, ha fatto le valigie e se n’è andata, lasciandoci ancora una volta avvolti nel mistero della sua personalità “enigmatica”. In quella casa, la conversazione ha quasi sempre per oggetto la religione (“chiacchiere di convento.”), essendo i Flyte una delle poche famiglie cattoliche residenti nel luogo: “la messa, il rosario, mattina e sera alla cappella”. Carlo, agnostico qual è, vi assiste in modo distaccato ma anche con una certa curiosità. La religione occupa, nel romanzo, e soprattutto nella sua parte conclusiva, un posto di prim’ordine, un po’ come ne “La via Lattea” di Luis Buí±uel, che è del 1968. Con questa differenza: che nel romanzo vi è una iniziale idiosincrasia nei confronti del cattolicesimo, che avrà, però, al termine il suo riscatto. Dirà più avanti il protagonista a Bridey, (“una specie di frate certosino”): “se mai mi venisse il ghiribizzo di convertirmi al cattolicesimo, mi basterebbe parlare con voi per cinque minuti per cambiare idea. Anche le cose più serie le rendete delle stupidi buffonate.” Ancora Carlo, verso il finale, dirà: “Vorrei che qualcuno mi spiegasse l’esatto significato di questi sacramenti. Volete dire che se muore solo va all’inferno, e se invece un prete gli mette dell’olio…”

Carlo non tarderà molto a fare la conoscenza anche con Lord Marchmain, il padre di Sebastiano, quando i due amici, che – ricordiamolo – hanno in quel momento diciannove anni – lo andranno a trovare a Venezia: “Il suo volto era pieno di dignità, il volto in cui ogni movimento era controllato e studiato secondo un piano preciso; un po’ annoiato, un po’ sarcastico, un po’ languidamente voluttuoso. Sembrava nel fiore della giovinezza; ed era buffo pensare che appena di qualche anno era più giovane di mio padre.” Non è difficile rintracciare, in questa descrizione, i segni del personaggio che Thomas Mann ha creato ne “La morte a Venezia”, del 1912: quel Gustav von Aschenbach che porta sul volto la stessa tragica maschera di Lord Alex Marchmain, quasi che una specie di morbo veneziano s’insinui in tutti coloro che hanno a che fare con la città sospesa da sempre tra la vita e la morte.

La scrittura disinvolta e piacevole di Waugh ci trasporta da un luogo all’altro e Oxford, Venezia e Londra si alternano davanti ai nostri occhi con una tale naturalezza che a noi pare di assistere ad una rappresentazione in cui amabilmente i personaggi si spostano, proprio come a teatro, da un luogo ad un altro con il semplice cambio della scena. Qualche mese dopo aver conosciuto Lord Marchmain, incontriamo per la prima volta Lady Marchmain in compagnia del professor Samgrass, un curiosone, più che uno studioso, che sa un po’ di tutto, molto generoso nell’offrire la sua disponibilità al prossimo. Siamo al secondo anno di frequenza del College e tante cose sono cambiate. In primo luogo gli amici, che sono stati allontanati da Sebastiano e da Carlo, i quali, divenuti smaniosi ed inquieti, frequentano ora ambienti volgari. È il momento anche di fare la conoscenza con Giulia, che finalmente fa la sua comparsa davanti a Carlo accompagnata da Rex Mottram, “un bell’uomo dai capelli scuri, bassi sulla fronte, e folte sopracciglie nere.”, di età avanzata, canadese ricco sfondato e amico del Principe di Galles. Waugh, attraverso i ricordi del suo protagonista, pare volerci tenere lontani dalla guerra; gli anni universitari di Carlo ci tuffano all’improvviso in una giovinezza dentro la quale è improponibile un solo pensiero che non sia quello della pienezza del vivere, e fatichiamo a ricordare che Carlo è ora un capitano di fanteria impegnato in una azione militare in piena Seconda guerra mondiale. Ma in realtà vi è una guerra anche in quei lontani anni di pace, ed è quella che si combatte nell’animo tribolato di Sebastiano, di cui Carlo è un perspicace osservatore: “non trovava più alcun godimento nella mia amicizia, non facendo io più parte della sua solitudine. Crescendo la mia intimità coi suoi, passavo man mano a far parte del mondo a cui tentava sottrarsi; ed io ero uno dei legami che lo trattenevano.” Ma una guerra si combatte anche nell’animo degli altri componenti della famiglia. Si intuisce che un male oscuro, una radicata irrequietezza li pervade, e che in Sebastiano un’aspra contrarietà alla compiacenza e alla ipocrisia lo sta consumando. Il suo è il desiderio di una nudità impossibile: “Sebastiano beveva per evadere.” Il personaggio sembra avere più di un punto di contatto, ora che il suo male oscuro comincia a manifestarsi esteriormente, con il “Ludwig” di Luchino Visconti, lo splendido e tragico film del 1973, laddove l’immagine simbolica della sofferenza e della follia tutte interiori è resa da quei denti gialli e marcescenti del protagonista, mentre in Sebastiano, a rappresentare la sua desolata (“mi odio a morte”) follia, sono quelle “mani che gli tremavano come a un vecchio.”

Carlo, dopo una conversazione riservata con Lady Marchmain, nel corso della quale parlano soprattutto di Sebastiano, si domanda “se non c’era forse anche in lei la stessa fiamma che condannava lei e i suoi a una distruzione che non aveva nulla a che fare con la guerra.”

Waugh sta cesellando il dramma di Sebastiano, ma non solo il suo. La sua vita, infatti, non sarà mai completamente disgiunta da quella dei familiari. Waugh ci fa passare gradualmente dal giovane bello e attraente che abbiamo conosciuto, ad un’altra persona uscita da quel guscio in qualche modo deturpata da una lunga degenza interiore. La malattia che sta rinchiusa in Sebastiano, ad un certo punto apre il suo varco e, mentre il guscio rotola a terra come un sacco vuoto, ne prende il posto in una somiglianza che ha già i segni corrosivi di un’alterità abituata non più ad amare, ma ad odiare e a respingere, addirittura a fare del male con la propria sofferenza: “le ombre stavano chiudendosi intorno a Sebastiano.” Vi appare come una idiosincrasia tra due mali che sono i due rovesci della stessa medaglia: quello della famiglia affetta da una specie di rachitismo sociale e quello di Sebastiano, che da questo rachitismo cerca di liberarsi, subendo tuttavia il risveglio di quella forza malevola e dissipatrice che scorre da sempre dentro di lui.

Per mettere in risalto questo avanzare degenerativo, Waugh, che dispone di una scrittura mai ossessiva, bada a non lasciare lungo il suo percorso narrativo descrizioni taglienti tanto dei personaggi quanto ambientali, che possano influenzare ed incidere sulla rappresentazione autonoma del profondo malessere interiore che corrode tutti coloro che ruotano intorno a Carlo. Addirittura, si resta dubbiosi e attoniti che questo suo avanzare e manifestarsi lento ma inesorabile non contamini in qualche modo definitivamente lo stesso Carlo, io narrante: “Ero risalito alla superficie nella luce del giorno e alla fresca brezza di mare, dopo una lunga cattività in ombrosi palazzi di corallo e ondeggianti foreste sottomarine.”

Ad un cero punto si legge: “mentre Sebastiano nel suo rapido declino si consumava e appassiva, tanto più Giulia andava maturando e fiorendo.” Poiché tra fratello e sorella c’è “una fisica rassomiglianza”, ci pare di essere di fronte a “Il ritratto di Dorian Gray”, l’inquietante capolavoro di Oscar Wilde, del 1891. Credo che una tale sensazione significhi assai più di un semplice punto di contatto tra questi autori. Vi è rappresentata, nei due lavori, la stessa morbosa filosofia disgregatrice della vita, che non è identificazione di poco conto, ove si tenga presente, tuttavia, il significato salvifico che la fede ha in Waugh.

Presa nella rete dell’amore per il ricco ma non nobile Rex Mottram – non accettato dalla famiglia (“Potrebbe avere del sangue nero”) -, Giulia si trova trascinata nel vortice della vita, quanto più Sebastiano se ne ritrae, deluso e consumato nello spirito. A raccontare questo periodo per lei molto travagliato, sarà la stessa Giulia dieci anni dopo, quando incontrerà Carlo a bordo di una nave “durante una tempesta nell’Atlantico.” Rispetto a “Il ritratto di Dorian Gray”, la consunzione di Sebastiano si mette in moto ancor prima che, nel romanzo di Wilde, Dorian Gray pugnali al cuore il ritratto. Nulla, sembra aggiungere Waugh, resta mai fermo nel tempo. La degradazione di Sebastiano è inarrestabile; per procurarsi da bere arriva perfino a rubare oggetti ad un amico. Carlo lo viene a sapere da Antonio Blanche che, con un altro dei vecchi compagni, Boy Mulcaster, sta tornando in Inghilterra per aiutare a sedare alcune sommosse di operai scoppiate un po’ dovunque nell’isola, e a Londra in particolare. Anche Carlo sta facendo il viaggio di ritorno allo stesso scopo, proveniente da Parigi. Sono i venti della rivoluzione sovietica che soffiano in quegli anni in tutta Europa. La tranquillità dei ricordi, la spensieratezza della memoria sembrano subire una svolta nel rincorrere la figura tragica di Sebastiano. Intorno a lui aleggiano, ora, ricordi di sommosse e di guerra. Sembra disegnarsi una relazione tra il degrado di Sebastiano e la realtà. Quando, su incarico di Giulia, la cui madre è morente e desidera rivedere il figlio lontano, Carlo si reca in Marocco, a Fez, il console britannico gli dice: “C’è la guerra ad una trentina di chilometri da dove abitiamo, si stenterebbe a crederlo.” Gli confida che Sebastiano è sempre in giro con “un tedesco congedato dalla Legione straniera. Una compagnia poco raccomandabile. Fatta apposta per procurargli delle grane.” Il nome del suo nuovo compagno è Kurt. Nel generale sfacelo che si sta configurando, anche parte della proprietà di Brideshead ha le ore contate; sarà venduta, infatti (dice Cordelia: “Sembra che il babbo fosse nei debiti fino al collo da un sacco di tempo.”) e al suo posto saranno costruiti “dei fabbricati d’abitazione.” Bridey, il primogenito, commissiona a Carlo, che ormai si dedica alla “pittura architettonica”, quattro quadri che il padre desidera conservare in ricordo dell’antico sfarzo. Saranno quei quattro quadri a far prendere a Carlo la decisione di diventare un pittore, “a perseverare in quello che da allora divenne il mio mestiere.” Quei dipinti, però, sono qualcosa di più di una riproduzione della realtà. Diventano il simbolo della esaltazione della memoria, non solo per Lord Marchmain, ma anche, e soprattutto, per lo stesso Carlo, che all’inizio della Parte Terza confiderà: “Il mio tema è la memoria, quest’ospite alata librantemisi intorno in una grigia mattina di guerra. Quei ricordi, la mia vera vita – poiché nulla è veramente nostro se non il passato – non mi lasciavano mai.” La memoria è il grande affresco, dunque, che occupa tutta intera l’anima dell’io narrante. Sebastiano è interpretato, attraverso il ricordo, sempre come colui che, consumando la sua vita, ne trasferisce le vibrazioni agli altri, a Giulia, a Cordelia, e a Carlo stesso: “mai, in tutto quel tempo, tranne qualche rara volta dipingendo – e ciò ad intervalli sempre più lunghi – m’ero sentito vivo come ero stato all’epoca della mia amicizia con Sebastiano.” Dal distacco con l’amico, segue un periodo di inquietudini e di incertezze, infatti. Si è sposato con Celia, la sorella dell’amico Boy Muscarter, ha un figlio (Johnjohn) e una figlia (Carolina), il lavoro va bene, i ricchi lo chiamano a dipingere le loro dimore, vicine ad essere demolite (non mancherà mai questo contatto tra Carlo e ciò che sta per morire); tuttavia il suo spirito è in cerca di un appagamento che il lavoro non può dare. Comincia il periodo dei viaggi verso terre lontane, Messico, America centrale, ma tutto è inutile. Ritorna da quell’esperienza “eguale a come ero partito.” La moglie che è andata ad attenderlo a New York, guardando i quadri che ha dipinto lungo il suo viaggio, li apprezza ma dice anche: “tuttavia non vedo te lì dentro.” Sulla nave che li conduce in Inghilterra, c’è anche Giulia, che si è sposata con Rex. Viaggia sola, delusa dal suo matrimonio. Quando Carlo la incontra, si accorge che è diventata ancora più bella, anche se più triste: “Sembrava dicesse: ‘Guardami. Ho fatto il mio dovere. Sono bella. È qualcosa di poco comune, questa mia bellezza. Sono fatta per piacere. Ma che cosa ne ricavo? Qual è la mia ricompensa?” È la conferma che la vitalità che da Sebastiano si è trasferita in loro, reca con sé un germe corruttivo, destinato a replicare lo stesso percorso di Sebastiano il quale – dichiara Carlo ad un certo punto – “Fu il precursore.” Le pagine dedicate al viaggio sulla nave sono tra le più belle del romanzo. Waugh ci descrive la vita che i passeggeri vi conducono, e grazie alle iniziative della onnipresente Celia, noi assistiamo a feste e a conversazioni pettegole di gran gusto. Non è difficile andare con la mente a film indimenticabili come “La nave dei folli” di Stanley Kramer, del 1965, ossia di appena vent’anni più tardi, e “E la nave va” di Federico Fellini, del 1983, che credo abbia un debito con il film di Kramer. È nel corso di questa traversata che Carlo, da sempre innamorato di Giulia, l’abbraccia e la bacia, mentre fuori imperversa ancora il fortunale che sballotta la nave e i suoi passeggeri. Ma Giulia gli dice: “Non so se voglio amare.” Sono trascorsi dieci anni da quando Carlo ha lasciato Brideshead e Giulia gli racconta della sua triste vita coniugale, ha avuto una figlia nata morta, è tradita da Rex che, rivelatosi inferiore alle sue attese, è stato da lei abbandonato (“Non chiederebbe di meglio ch’io tornassi.”). In lei quel germe corruttivo sta crescendo (“Stai facendo la guardia alla tua tristezza”, le dice Carlo), ma cresce pure in Carlo, ora, il quale – come se fosse stato alla fine pure lui contaminato – le confessa di essere tradito dalla moglie. Waugh, dunque, mentre distende piacevolmente la sua narrazione, non ha mai lasciato che la sua storia non fosse segnata da quel filo nero della malattia interiore, che affligge e divora i suoi personaggi, i quali sono “parte di un piano”, come dirà Giulia a Carlo.

Non è un caso che la relazione nata tra i due ci accompagni, come tenendoci per mano, verso il momento in cui prenderemo contatti con la guerra, con la deflagrazione, ossia, che trasferirà definitivamente la vita vera nella memoria e nell’affettuoso ricordo. Waugh da questo momento accelera i tempi della sua storia. La memoria corre veloce, non indugia più su “quei remoti giorni d’Arcadia.”, sembra che qualcosa la spinga a trapassare un tempo segnato dall’angoscia e dalla paura. Alle porte bussa un fragoroso presente, infatti, in cui le voci interiori sono destinate a sopirsi, e forse a confondersi ed annullarsi in una mutazione che, salvato in qualche modo Sebastiano, che ha raggiunto finalmente un compromesso con la vita, si accanirà ora con tutta la sua implacabile irruenza sulla disperazione e lo smarrimento dei sopravvissuti. Quando Lord Marchmain, vecchio e stremato (“è tornato a casa per morire.”), farà rientro a Brideshead, “lasciando il luminoso cielo italiano”, radunati i suoi familiari, dirà: “In Italia nessuno crede che ci sarà la guerra.” Il tempo della memoria, dunque, sta per finire. Il passato è ormai vicino a congiungersi con il presente. Ma sarà solo con la sofferta scelta di Giulia che il lungo viaggio del tormento e del dolore riuscirà a trovare, nel ritorno alla fede, la sua definitiva destinazione.


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Bart