Zungolo, Cinzia7 Novembre 2007 “Sotto questa cenere”Flaccovio, 2005, pagg. 416, euro 14,50 Quando apprendo di questa scrittrice, classe 1963, che è nata a Potenza, mi vengono in mente quelli che considero ormai miei amici, gli scrittori Giancarlo Tramutoli e Gaetano Cappelli. Quest’ultimo è l’autore dei due meravigliosi romanzi: “Parenti lontani” e “Il Primo”, che mi hanno completamente stregato. Dunque, mi dico, questa scrittrice (anche se ora vive a Verona, dove insegna spagnolo) ha respirato, pure lei, quell’aria buona che sta circolando da alcuni anni nella Lucania letteraria. Ha al suo attivo raccolte di poesia, racconti apparsi sulla rivista Fernandel e due romanzi “Porto della zingara”, del 2000, e “Radiolisa”, del 2003. Sembra che parta da lontano la storia raccontata in questo romanzo, il cui inizio pare richiamare più le caratteristiche di un preambolo che apra la strada agli avvenimenti che ci dovranno stupire; invece abbiamo già incominciato il viaggio, perché esso inizia proprio dalla particolare scrittura con la quale la Zungolo conficca i suoi paletti lungo il percorso che dovremo seguire. È una scrittura che ha il suono metallico di un lento martellare, appunto, di un tratteggio impegnato a circoscrivere il teatro degli accadimenti, sul cui proscenio compare “Il Gioia”, che “quella mattina di fine giugno”, “aveva certe questioni da risolvere.” A sua moglie Maria, ancora assonnata nel suo letto, “con calma le avrebbe confessato ogni cosa.” al suo ritorno. Ecco un esempio della scrittura della Zungolo, pungente e martellante, come rispettando un tempo, una scansione, un ritmo: “Finalmente, liberando la mano dalla morsa, carnivore e scivolose le sue dita, e prendendo rincorsa al fiato nei polmoni, rise tra gli alberi.” La sua espressività spesso si avvale di metafore e simboli, come in quest’altro esempio, quando uno dei protagonisti, l’io narrante, è incerto se tornare a prendere la busta contenente i risultati delle sue analisi che ha gettato nel bidone della spazzatura: “se torno indietro e ripesco la busta tra i bicchierini sporchi di caffè, si tratterà solo di chiamare gli artificieri per un’esercitazione, le carte dicono che è uno dei meccanismi più efficienti, impossibile disinnescarlo o anche solo intervenire sul timer che ticchetta, in due quarti e di corsa, i mesi che scendono a estuario.” Oppure in quest’altro, quando il marito pentito s’inginocchia davanti alla moglie Maria, la quale “Intanto pensava, stai zitto, perché ho fatto cemento dentro, adesso ho l’anima di ferro che mi chiedi, possiamo appendere carne. Ma stai zitto, però.” E anche, riguardo al pericolo del Gioia di cadere nelle mani di uno strozzino: “E aveva paura verde a pallini gialli di finire cravatta al collo.” La storia vive su tre innesti: due narrati in terza persona: quello composto di personaggi con tanto di nome e cognome (Olindo, Toro, Vito, Cosimo Damiano, Occhioblu e così via), ai quali è capitato un incidente d’auto e vanno alla ricerca del guidatore dell’altro veicolo coinvolto, il quale se l’è data a gambe; e quello che riguarda il Gioia, “zoppo fallito” che, allorché lo conosciamo, è in giro per concludere un affare; ha avuto una relazione con Lina, ma quando è il momento di sposarla le preferisce Maria; infine il terzo innesto, narrato in prima persona, in cui si racconta la disavventura del protagonista che, recatosi presso l’Asl per degli esami, riceve la risposta che lo dà spacciato a causa di un male incurabile. Una sua amante, Martina, sposata, con una figlia, vive lo stesso dramma. L’autrice sceglie di passare continuamente da un innesto all’altro, esigendo dal lettore un’attenzione e una concentrazione speciali. Anche perché la formazione di un’immagine ha sempre qualcosa di velocizzato, quasi che l’autrice voglia dare la sensazione di un tempo che fugge, intangibile e mai di qualcuno per intero. La storia che si forma è permeata, pertanto, da questo carattere di fugacità e imprendibilità . Non c’è mai possesso nel romanzo, ma aleatorietà e insolvenza. La scena di sesso che si svolge tra Incoronata e i suoi compagni, ad esempio, nel capitolo 26, è assai esplicativa di una scrittura tremula, che lascia l’immagine apparire e scomparire come collocata al di là di un fogliame smosso dal vento. È la particolare qualità di uno stile che vuole essere veloce, sfuggente, di un palmo al di sopra del piano di calpestio, così che si abbia attraverso di esso la percezione di un’apparenza caduca che, sfiorata la realtà , si protenda verso un altrove indefinibile. L’ulteriore violenza che viene esercitata su Incoronata (che ricorda i crudeli giochi dei ragazzini in “Dei bambini non si sa niente”, di Simona Vinci) riesce tuttavia a pungere quel tanto che basta a suggellare un’azione che si è compiuta sotto i nostri occhi. Nel senso, dunque, che questa scrittura ha in sé una specie di aculeo che ogni tanto esce dal suo nascondiglio per lasciare un segno graffiante su di noi. Il Gioia e l’io narrante, oltre ai loro problemi personali, devono prendersi cura anche di quelli delle donne della loro vita, il Gioia per quanto riguarda Maria, la moglie, ma soprattutto con Lina, la sua ex, che torna alla carica per riprenderselo; e l’io narrante con Martina, la quale, scontenta del marito in carriera, è diventata la sua amante. Il destino fa incontrare un giorno il Gioia con Martina. La figlia di quest’ultima, una bambina, sta mangiando un gelato seduta nel giardino di Casa Gioia, che il nostro aveva fatto costruire per ospitare persone disagiate, ed ecco che incontra la madre, Martina. Uno dei due innesti scritti in terza persona s’incontra, dunque, con l’innesto percorso dall’io narrante. Ogni tanto si fa notare nella scrittura della Zungolo qualche eco un po’ barocca. Uno degli esempi più significativi è il seguente, quando Maria vede partire la corriera dove è salito il Gioia, il marito che la fa soffrire e che vorrebbe abbandonare: “Invece giusto rimanere lì, in casa propria. E che le fossero almeno risparmiati gli occhi delle vicine di sua madre e l’apparizione dei loro grembiuli, sempre puliti e però anche un po’ sporchi, a testimonianza di un qualche primario e gastronomico affaccendarsi. Maria non avrebbe sopportato il petulante compatire, rassicurando, delle donne e dei loro giudizi, lievi all’apparenza ma nel fondo dotati di un potere censorio assoluto.” Si può portare anche quest’altro esempio, assai stringato ma ugualmente esplicativo: “L’orologio seguiva ipnotico il filo del proprio ragionamento circolare, il sonno della stanza gli offrì cuscini, questione di minuti.”, che troviamo nel capitolo 64 dove se ne possono rintracciare tanti altri. Oppure: “basta buchi di notte nel silenzio della città piccola, dove ogni tanto friggevano colpi lontanissimi, dove il piombo era uno sputo, e l’accensione del motore sfregava scintille d’asfalto”, del capitolo 78. Una tale scrittura veloce e insieme sospesa, unita ai brevi lacerti di una coloritura barocca che ogni tanto affiorano, ha l’effetto di comporre una qualità singolare di suoni che rimandano ad antiche usanze e antiche musicalità del sud. Il capitolo 40, che rievoca il giorno del matrimonio di Maria, presenta, in una sua bellezza ruvida e acre, l’esempio più efficace di un simile risultato. L’autrice potentina è continuamente alla ricerca di una sonorità quasi liturgica, che si compone su di una tastiera di suoni evocatori, come quelli che s’incontrano, ad esempio, nell’intero capitolo 44, che fanno pensare alla rievocazione di una qualche poesia perduta. Direi addirittura che tale ricerca è la più vistosa e interessante novità offerta dal romanzo. Il quale ha anche quest’altra particolarità , ovverosia che i personaggi principali che incontriamo nei tre innesti destinati a congiungersi su di uno stesso tronco hanno in comune una sorta di inseguimento verso qualcuno o qualcosa. Non fuggono, ma inseguono, non si isolano ma cercano un incontro. Ciò è particolarmente evidente nel rapporto tra Martina e l’io narrante che, ricordiamo, non ha nome, fino al punto che il romanzo si libra dentro un’atmosfera rarefatta in cui confluiscono per sciogliersi e divenire ormai non più identificabili i significati della storia. Pare che l’autrice ricerchi una specie di spersonalizzazione della realtà , in cui vanno ad agire uomini e avvenimenti ormai diventati aleatori e reversibili. Anche qui l’esempio più specifico viene dal capitolo 58, nella scena di sesso estremo che vede coinvolti Il Gioia (che ha bisogno di far soldi per pagare i suoi debiti), Maria (che ne è lo strumento), una Signora viziosa e il marito notaio che le obbedisce. Crudeltà e sadismo si compiono per cancellare una identità (non è un caso che tanto Il Gioia che Maria si domandano reciprocamente che razza di persona abbiano sposato). È dunque, questo, un proposito che mi pare emerga sempre più incisivamente e, a causa della stessa trama, influisca in qualche modo sull’esatta interpretazione dei fatti narrati. Una scelta originale ma che ha bisogno di un qualche perfezionamento che ne chiarifichi meglio l’obiettivo. Ad un certo punto l’autrice inserisce nella storia del Gioia un momento in cui egli avverte più forte del solito un dolore al capo, un’emicrania dalla intensità inusuale. Ma lui cerca di rassicurarsi: “Calmo. Si disse, il referto è chiaro, sei sano come un pesce.” È il momento in cui la storia dell’anonimo protagonista che narra in prima persona e quella del Gioia fanno un ulteriore passo avanti per congiungersi. Ma le avvisaglie di un incontro sono pure presenti nelle storie di Toro e compagni e del Gioia, attraverso soprattutto il notaio: donnaiolo e anche qualcosa di più. C’è un incontro tra Maria e il notaio, nel capitolo 70, che mette di fronte vittima e carnefice in un gioco di sottintesi e di misteri, che trasforma il notaio in una figura sempre più incombente e cupa, che si colloca tra perversione e coscienza, nelle cui mani si raccolgono molti dei fili di questa narrazione. Al suo contatto, la figura di Maria acquista una oscura e incerta personalità , che non è solo più quella della vittima, ma dell’unico essere che riesce a comunicare con lui e, come lui, aspira a trasformarsi in carnefice di tutti gli uomini: “Io parlo degli uomini. Di come mi guardano e m’incoperchiano. E di come io divento il loro corredo funerario, una donna monile. […] io sono schiava e il mio padrone sta per vendermi. […] Io penso a finirli. […] Sopprimerli è necessario.” Sono figure, quella del notaio (“l’uomo notaio”) e della Signora che lo domina, sua moglie, che sono entrate soltanto ad un certo punto nel romanzo, eppure ne hanno sconvolto le linee, modificando la natura di alcuni protagonisti, in primis Maria, la quale, a cascata, si trascina dietro molti degli altri, congiungendo tra loro definitivamente i tre innesti. Così che il romanzo s’invola verso metafore e simboli che, nel mentre distruggono la vita, aprono significati nuovi e allo stesso tempo oscuri all’orizzonte, espressioni di un’altra realtà che germina dalla morte. Si ha la sensazione che l’anonimo protagonista, alla fine, grazie ad un’opera violenta di distruzione, assuma in sé tutte le valenze degli altri personaggi, compresa la inesorabile malattia. La scrittura tra ermetica e simbolista contribuisce non poco a creare quell’alone esoterico dentro il quale il lettore si trova coinvolto e anche un po’ stordito, confortato unicamente dalla speranza che: “Intanto la nave cucirà a punti invisibili una strada.” Letto 2388 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||