di Panfilo Gentile
[dal “Corriere della Sera”, sabato 13 settembre 1969]
E’ opinione generalmente accettata che le antiche popo lazioni italiche, stabilitesi in un territorio presso a poco corrispondente alla regione appenninica, appartenessero tutte linguisticamente alla fa miglia indo-europea. Questa sostanziale unità linguistica non esclude la varietà e molteplicità degli idiomi, perché ogni gruppo ha subito parti colari influenze. Gli indo-eu ropei vennero infatti a con tatto con l’ambiente mediter raneo e con diverse regioni linguistiche: libica, iberica, li gure, tirrenica, picena. E nella tirrenica bisogna fermarsi so prattutto sulle lingue etrusca e greca, per l’influenza prepon derante che esercitarono sulla lingua latina. Oltre le influen ze esterne, sembra accertato un processo spontaneo di frammentazione interno non riconducibile a recezioni les sicali o grammaticali esterne. Questo è il fenomeno più difficile a comprendere, per ché mentre ancora oggi abbia mo presenti nella nostra epoca i mutamenti linguistici per adozione dall’esterno (quante parole inglesi o meglio americane e dello slang americano sono entrate dopo l’ultima guerra nell’uso nostro lingui stico!), invece, il fenomeno della frantumazione sponta nea non ha riscontri apprez zabili nella nostra epoca. Noi per spiegarci come ciò sia in vece potuto avvenire nel pas sato siamo costretti a rivol gerci alla filosofia del linguag gio; ma anche questa non ci ha dato risposte soddisfacenti. Essa insegna che il linguaggio è il prodotto di una creazione spontanea, soggettiva, lirica e nel tempo stesso di un magi stero autoritario esterno, con venzionale. Parlare non significa altro che coniare suoni con un certo significato. E collaborano qua l’istinto e la regola, le scelte del soggetto e l’inse gnamento delle generazioni. Nell’infanzia dei popoli è mas sima la parte creatrice del sog getto e minimo il patrimonio accumulato dei segni fonetici stabiliti. Nelle età adulte o ci vili lo spazio creativo lasciato al singolo si restringe e domi na quello dei segni codificati. Le lingue hanno un lessico, una grammatica, una sintassi che fanno legge. Tuttavia an che in questo momento, in cui la lingua è imposta, ogni indi viduo potrà trovare e trova il suo stile, fare le sue scelte, avrà la sua pronuncia, darà al discorso il suo ritmo e la sua musica e il suo linguaggio, ma , sempre nel quadro di un sistema codificato.
Quando nelle epoche infan tili prevale il fatto creativo per indigenza di patrimonio linguistico, si verifica una estrema frantumazione di lin gue che non superano il grup po tribale. Ancora oggi alcune tribù negre dell’Africa centra le non possiedono che dialetti, incomprensibili fuori della tribù e per questa assenza di lingua hanno fatto propria la lingua dei paesi civili coi quali sono venuti in contatto. Non vi è stata una sostituzione di lingua, ma una acquisizione di lingua su un vuoto linguistico. La eccessiva frantu mazione perciò dovrebbe esse re una caratteristica propria di una società assai arretrata. Invece gli indo-europei stabilitisi nell’Italia centro-meridionale erano in possesso di una civiltà relativamente avanzata. Nasce quindi un interrogativo che giro ai filologi e paleontologi più qualificati di me.
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Che cosa erano i Latini, quale area occupavano tra queste popolazioni di fondo indo-europeo ma un po’ imbastarditi con i mediterranei e tirrenici e frantumatisi internamente? Ebbene i Latini appena appena si riducevano all’area di Roma. Il protolatino era solo il dialetto di Roma. Sarebbe incredibile se non ce lo assi curasse Giacomo Devoto, uno dei maggiori filologi europei, che prende le mosse proprio da questo inizio per raccon tarci in un dottissimo e sugge stivo volume La Storia della lingua di Roma, una delle sue opere fondamentali oggi ri stampate dal Cappelli di Bo logna. Nell’epoca arcaica la area della lingua latina era segnata a Nord dal Tevere. Al di là del fiume stavano gli Etruschi, la cui lingua soprav viveva indisturbata dalle mi grazioni indo-europee. I Sabi ni ad est apparivano penetrati addirittura nel suolo stesso della città. Numa ed Anco Marzio furono entrambi re sa bini. Verso sud-est i Romani arrivavano fino a Preneste, esclusa la città. Risalendo lo Aniene non si oltrepassava Tivoli, dove cominciava il terri torio di lingua osco-umbra degli Equi e dei Marsi. A sud i Latini avevano trovato la maggiore espansione, perché erano arrivati fino a Terracina, sebbene i nomi di Velletri (Veliter) e Terracina (Tarracina) accusano origine etrusca e ricordano le città etrusche di Volterra e Tarquinia. Possessi per altro contestati, quando i Volsci scesero dalle montagne nella regione pontina. Velletri da questo momento parlò la lingua volsca. Insomma al principio del V Secolo il la tino pareva chiuso tra lingue delle quali nessuna si trovava in condizione di decadenza e tutte sembravano dotate di forza d’espansione commercia le o militare. Le guerre con gli Equi e coi Volsci furono vit torie importanti ma di natura esclusivamente difensiva.
Solo le lunghe e terribili guerre sannitiche decisero dei destini di Roma nel quadro delle popolazioni centro-meri dionali e dettero alla lingua latina lo spazio e il prestigio sufficienti per diventare la lingua modello, la lingua co dificata di quel mondo.
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L’analisi filologica apre il luminanti spiragli sulla socie tà arcaica romana. Maroueau ha raccolto molte prove in fa vore della ruralità del latino. Devoto accetta questa tesi, con qualche riserva. E’ esat to: il lessico prova che il la tino, in una determinata fase, è stato una lingua di persone, per le quali la campagna era il pensiero più importante. Ma, osserva acutamente Devoto, il lessico che ci richia ma alla campagna sopravvive in forma di metafora, il che permette di sostenere che già in questo periodo arcaico l’e poca rurale era stata oltre passata. Spieghiamo con un esempio. La parola « pecu nia » deriva da « pecus » e cioè il bestiame, ma sta a si gnificare il denaro. Quindi la sua presenza prova che in passato gli scambi avveniva no in natura attraverso il be stiame e che la società aveva dietro di sé una civiltà roz zamente rurale; è altrettanto vero che quando la parola ha perso il suo significato origi nario e viene usata solo in senso metaforico, che siamo già in un grado più avanzato di civiltà. Del resto l’archeo logia viene in soccorso della filologia e il guerriero di Capestrano, nonché le cerami che e le oreficerie repertate ad esempio nell’Abruzzo aqui lano, con sicuro riferimento al V secolo A.C., confermano che la società di quest’epoca aveva già industrie o commer ci che si erano allontanati da un pezzo dal livello agricolo-pastorale.
Da questo punto di vista, per quanto concerne i Latini, le recezioni etrusche sono de cisive. La « grande Roma dei Tarquini » fu indubbiamente un’epoca di grande sviluppo economico e politico. E l’ap porto degli Etruschi richiama subito quello greco. Prima e dopo i Tarquini, gli Etruschi fecero un po’ da passamani, da intermediari, riesportando quello che importavano dai Greci. Ma dal momento che Roma si fece spazio, come abbiamo visto, soprattutto verso il Sud e quando dalla Pontina si spinse, come era inevitabile, fino alla Campa nia, le importazioni greche non dovettero passare più dall’Etruria.
Le colonie greche della Ma gna Grecia e della Sicilia e in particolare la colonia sta bilitasi a Cuma nell’VIII Se colo A.C. fanno da aralde al l’espansione della civiltà gre ca. Già all’VIII secolo la pre senza di vasi corinzi attesta la penetrazione commerciale ellenica. Nella seconda metà del secolo VI e nei primi del V si trovano a Roma nume rosi rivestimenti di terracotta che richiamano modelli greci. Nello stesso periodo sono stati accolti culti greci: i Dioscuri nel 484, Demetra, Dioniso e Core nel 493, Hermes nel 494, Apollo nel 495. Più avanti i contatti con la cultura greca si fanno più intimi. Nel 330, sembra, Capua ricevette la cittadinanza romana senza suffragio. Nel 304 è console P. Sempronio, che porta il cognome greco di Sophus. Nel 293 è introdotto il culto dì Asclepiade, alias Esculapio. Con la vittoria sui Sanniti i Romani hanno via libera ver so il Sud e per comunicare con le città greche, finché nel 272 conquistano la stessa Taranto. E quali influenze linguistiche esercitarono tali contatti si vedrà quando la lingua latina sarà diventata anche una lingua letteraria con Plauto, Ennio, Livio Andronico, Nevio e Terenzio.
La filologia è una scienza affascinante e Giacomo Devo to è un grande maestro. Io mi sono permesso una dilet tantesca incursione in questo regno, che non è il mio, per ché ho avuto sempre la debo lezza di correre dietro la sto ria misteriosa delle parole. Ricordo, poiché siamo in te ma di lingua latina, che non mi davo pace per scoprire l’origine della parola « quatrano » e « quatrana », che nel mio dialetto natìo significa ragazzetto o ragazzotta. Non sapevo spiegarmi come il mio dialetto non avesse adottato la parola « guaglione » come tutti gli altri dialetti meridio nali. La spiegazione mi fu da ta dall’insigne prof. De Mar co, attualmente professore di epigrafia greca all’Università di Milano. « Quatrani », mi disse De Marco, erano chia mati dai Romani gli scolari, perché dovevano andare in fila per quattro. Confesso che mi sentii orgoglioso che il mio dialetto conservasse così no bili ed antiche locuzioni.
Commenti
3 risposte a “LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: La lingua di Roma #4/10”
Dopo aver letto questo interessantissimo saggio, mi son tornate alla mente le parole che scrisse Ferdinand de Saussure e che mi sembrano particolarmente significative: “Nulla entra nella lingua senza essere stato provato nella parola; e tutti i fenomeni evolutivi hanno radice nella sfera dell’individuo”
Gian Gabriele Benedetti
All’Aquila si dice che il termine “quatrano” derivi dallo spagnolo “quatro anos” e dovrebbe indicare l’uscita dal periodo piu’ critico (durante la dominazione) della mortalita’ infantile.
Sarebbe interessante capire se questo termine fosse usato anche nel periodo precedente la dominazione Spagnola. Saluti
Potresti porre il quesito all’Accademia della Crusca. Sono molto gentili e rispondono.
Bart