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Rivista d'arte Parliamone
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Due articoli

30 Maggio 2012

SuperMario, finto grigio all’ombra dei potenti
di Tommy Cappellini
(dal “Giornale”, 30 maggio 2012)

«Il grigiocrate » s’intitola il recentissimo saggio di Augusto Grandi, Daniele Lazzeri e Andrea Marcigliano per le edizioni Fuori Onda. Verrà presentato oggi a Roma al Circolo della Stampa Estera alle 17.30.

Ancora più allarmante il sottotitolo: «Nell’era dei mediocri ».
Si tratta di una biografia politica di Mario Monti. La casa editrice che lo pubblica è dichiaratamente di sinistra, gli autori pressoché di destra, il prefatore, Piero Sansonetti, è stato direttore di Liberazione, quotidiano comunista. Tutti sono d’accordo – bipartisan – su un fatto: «the man in gray », l’«uomo in grigio » come chiamavano Monti a Bruxelles quand’era commissario europeo, ha un certo numero di conflitti di interesse all’attivo. Dunque non è scontata – anzi, ha un che di civile – la domanda: «Per chi sta lavorando davvero l’attuale presidente del Consiglio? ».

L’interrogativo è nell’aria da novembre scorso. Il saggio prova a dare una risposta chiara fin dai titoli dei capitoli: «Monti nella Torino di Valletta », «Alla corte degli Agnelli », «Il grigiocrate non è un lone wolf », «Al servizio dei petrolieri? », «L’Unto di Re Giorgio » (Napolitano), «Il vassallo di Angela e Nicholas » (Merkel e Sarkozy). Sono questi i veri «referenti » di SuperMario? Esagerazioni complottistiche? Parrebbe di no. Il curriculum di Monti è su Wikipedia: gli autori hanno solo unito i trattini, ottenendo la fotografia, più che di un tecnico, di un abilissimo tessitore di relazioni all’interno della «classe dominante », per dirla con il saggista americano Angelo Codevilla.

Si parte dall’arrivo di Monti a Torino dove il ventisettenne professore conosce i coniugi Mario Deaglio e Elsa Fornero (quest’ultima mal sopportava, ironia della sorte, «l’abitudine dei torinesi di piangersi addosso »). Una coppia «a distanza siderale » dall’Ivrea di Olivetti. Particolare non da poco: se Adriano Olivetti si preoccupava della vita spirituale della classe operaia, la futura ministra maturava in direzione opposta, diciamo tatcheriana: verrà infatti recuperata decenni dopo da Monti per il dicastero del Lavoro.
Feeling montiano anche con gli Agnelli: il Nostro entra nel Cda Fiat nel 1988 per la sua natura «grigia » che non mette in ombra l’Avvocato e la sua squadra. Animo poco industriale e molto finanziario, resterà nel Cda fino al 1993, attraversando l’epoca delle tangenti pagate dalla Fiat ai politici. Sapeva? Non sapeva? «L’uomo della Trilateral e della Bilderberg, della Goldman Sachs e di Brueghel era distratto ». Rimane che da commissario europeo alla Concorrenza (1999-2004) Monti esaminò otto richieste Fiat di aiuti pubblici: ne accolse cinque (per 500 miliardi di lire) e ne respinse tre (131 miliardi). E dal rapporto con la Fiat il suo «equilibrio bipartisan » trovò presto nuovi sbocchi strategici.
Prendiamo la Bocconi. Monti diventò rettore perché Grande Stevens, vicepresidente Fiat, e il Dc Beniamino Andreatta desideravano «una sponda amica » nell’ateneo. Insediatosi, portò a Milano numerosi professori bolognesi della compagnia di giro della casa editrice Il Mulino, che è come dire prodiani doc: non è difficile capire perché Banca San Paolo, vicina a Prodi, diventò uno dei finanziatori dell’università.

Allo stesso modo si respira troppa aria di chiuso nella recente nomina a consulente del governo di Giuliano Amato (curatore, tra l’altro, di uno studio su una nuova governance europea, studio che Monti stava seguendo prima di dimettersi dalla Trilateral a favore di Jean-Claude Trichet, predecessore di Mario Draghi alla Bce, e qui il cerchio degli interessi dell’euro-élite si chiude) e in quella di Enrico Bondi a commissario per la spending review: quel Bondi che in Parmalat fu datore di lavoro del figlio di SuperMario.
Che per essere un grigiocrate, questa volta ha brillato un po’ troppo di savoir faire.


Nel corso delle mie ricerche ho scovato questo articolo di Manlio Cancogni che pubblicherò su Parliamone l’1 giugno, ma che desidero anticipare qui, sul mio Blog, per i suoi contenuti politici attualissimi. (bdm)

Occasioni perdute
di Carpendras (Manlio Cancogni)
[da “La fiera letteraria”, numero 38, giovedì, 19 settembre 1968]

Il venticinquesimo anniversario dell’8 settembre è stato celebrato nei consueti e antichi modi. I rappresentanti del governo e dei partiti, deputati e senatori, non hanno dimen ­ticato di ricordarci che quella data è all’origine dell’attuale ordinamento dello Stato, della nostra convivenza civile. Un impegno a promuovere una società più giusta, più libera, più moderna eccetera. Tutte cose risapute e che si ascolta ­no ormai con rassegnazione se non con ironia.

Con questo non voglio dire che l’8 settembre, con quel che segue (due anni di guerra civile) non segni una svolta decisiva nella nostra storia. Mi sembra, però, che la sua ce ­lebrazione quest’anno, dopo eventi tanto drammatici, si sa ­rebbe prestata a riflessioni più mature e meno convenziona ­li di quelle che ci hanno propinato i nostri rappresentanti ufficiali, la stampa, la radio e la televisione.

Venticinque anni fa, quando cominciòla Resistenza, l’o ­biettivo immediato era. non c’è dubbio, la liberazione del Paese dai tedeschi e dai loro servi. Questo obiettivo però non sarebbe stato sufficiente a suscitare tanto fervore, se non l’avesse accompagnato un’idea, un sentimento ben più profondo. Il sentimento cioè che, dopo, si avrebbe avuto un’Italia diversa, una nuova società, un nuovo modo di vi ­vere e di intendere i rapporti fra i cittadini e il potere.

Solo pochi anziani pensavano a una restaurazione, sia pure riveduta, della democrazia parlamentare prefascista. Non ricordo che una simile eventualità fosse presa seria ­mente in considerazione dai partigiani di montagna e di città, anche da quelli appartenenti ai gruppi più moderati, eccettuati forse i monarchici. L’idea che alcuni partiti, una votazione ogni quattro o cinque anni, un’assemblea con qualche centinaio di deputati, fossero sufficienti a soddisfa ­re le esigenze politiche di un Paese che pretendeva rinno ­varsi, faceva sorridere quei giovani che stavano mettendo a repentaglio la vita.

Neanche la prospettiva di una rivoluzione economica, con un mutamento nei rapporti di proprietà, sembrava suf ­ficiente. Più importante di tutto pareva il problema del ­la democrazia. Si voleva che non fosse apparente, sim ­bolica, ma reale. Si pensava ai modi in cui avrebbe po ­tuto esercitarsi, fuori degli schemi abituali e logori. E’ allora che divennero per la prima volta attuali termini come autogoverno, autogestione, autonomia, democrazia di ­retta, federalismo. Si prospettava, sia pure ingenuamente, l’immagine di un’Italia non più centralizzata, di una fede ­razione di cellule autonome in cui, come nell’antica « po ­lis », tutti i cittadini avrebbero partecipato direttamente, non per delega, alla gestione del potere.

Finitala Resistenza, questa attesa di novità, questo fervo ­re, si spensero. Dopo pochi mesi, un’estate, la piena rientrò nell’alveo. Furono i partiti a dare l’esempio, compresi quel ­li rivoluzionari. L’Italia, più che desiderosa di accogliere una nuova democrazia, sembrava appena adatta a restaura ­re quella antica, la democrazia prefascista, articolata sui partiti, il Parlamento, la votazione periodica.

E i giovani? Non facevano eccezione. Per chi scrive è tri ­ste ricordare come essi accettarono passivamente l’ingres ­so dei tradizionali partiti e delle loro procedure nell’Università, proprio in quel mondo cioè che pareva più di ogni altro adatto a sperimentare le nuove concezioni di autogo ­verno. Una volta che in una riunione nella Facoltà di Ar ­chitettura a Firenze un oratore improvvisato accennò al problema (con un po’ di demagogia disse esplicitamente agli studenti: « L’Università è vostra, governatela voi senza la mediazione dei partiti ») fu accolto più che con freddez ­za, con diffidenza. Gli studenti pareva avessero fretta di imitare la società politica degli adulti, dominata dal gioco dei partiti intorno al potere.

Ed ecco che venticinque anni dopo l’8 settembre, sono lo ­ro a riproporre il problema, facendo proprie, con aggiorna ­menti culturali (più che altro di linguaggio) quelle esigen ­ze che alimentarono vanamentela Resistenza. C’è una stra ­na coincidenza in queste date. L’8 settembre del ’43, l’ordi ­namento militare, amministrativo dell’Italia monarchica fece naufragio davanti alla realtà; oggi appare evidente a tutti come non solo le istituzioni ottocentesche della demo ­crazia parlamentare siano in ritardo davanti allo svilup ­po industriale e tecnologico del Paese, ma anche le propo ­ste rivoluzionarie dei giovani.

Così la storia si ripete: come sempre l’Italia arriva in ri ­tardo agli appuntamenti. In questi venticinque anni la sfasatura fra mondo politico e mondo economico è diventa ­ta enorme, quasi incolmabile. L’Italia economicamente, tec ­nologicamente è un Paese moderno, proiettato in avanti, con tutto il bene e il male. Ma politicamente? Ci vogliono altri rimedi che l’autogestione, oggi!

Oggi la cosiddetta società affluente ci sta proponendo l’i ­potesi di un governo tecnocratico, concentrato in pochissi ­me mani, in cui non ci sarà nemmeno più la delega della democrazia parlamentare. La scienza, infatti, bisogna con ­venirne, non è elettiva. In questo caso la democrazia, già problematica venticinque anni or sono, minaccia di diven ­tare una pura formula. E’ su questa prospettiva che si do ­vrebbe riflettere e agire, se non si vuole, come l’8 settem ­bre del ’43, perdere di nuovo l’occasione.


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Bart