Renzi: «Ora patto con il Pdl oppure alle urne Bersani si è fatto umiliare dagli arroganti M5S »4 Aprile 2013 Aldo Cazzullo intervista Matteo Renzi «Pensiamo a cos’è successo nel mondo dal 25 febbraio a oggi. In Vaticano c’era ancora Ratzinger; in un mese è stata scritta una pagina di storia. Il pianeta corre. E l’Italia è totalmente ferma. Le aziende chiudono. La disoccupazione aumenta. E la politica perde tempo. La tempistica prevista dalla Costituzione va rispettata. Ma qui si sta facendo melina. Si rinvia tutto alla scelta di un presidente della Repubblica più sensibile a dare l’incarico a Tizio o a Caio. Ma questo alimenta l’antipolitica. La vera moralità non è solo tagliare i costi; è rendere efficiente quel che fai ». Matteo Renzi, cosa dovrebbe fare il Pd? Un governo con il Pdl, o no? Se si torna a votare subito con Bersani candidato premier, lei che fa? Quindi il Pd secondo lei dovrebbe fare un accordo con Berlusconi. Lei chi vedrebbe al Quirinale? Ma il Pd deve scegliere il capo dello Stato con Grillo o con Berlusconi? Quali cose? Sono leggi costituzionali. Ci vuole tempo. Comunque il patto costituzionale passa attraverso un accordo di governo con il Pdl. Proprio quello che Bersani esclude. Che impressione le ha fatto quella diretta? Grillo è il vero vincitore delle elezioni, con lui si dovrà pur parlare. Ci sono i dieci saggi al lavoro. Ce l’ha con Monti? E Berlusconi? Come sono in realtà i vostri rapporti? E’ vero che le ha proposto di fare un partito insieme? E intanto va da Maria De Filippi. Ma perché andarci proprio con il “chiodo”? Se si torna a votare, lei chiederà al Pd nuove primarie? Lei vorrebbe una politica finanziata solo da privati. Ma così, dice Bersani, la faranno soltanto i ricchi. Gli imprenditori che la finanziano non le hanno mai chiesto qualcosa in cambio? La rimozione del Caimano L’altra sera ad Arcore, circondato dai suoi uomini, il Cavaliere ha invertito l’ordine dei fattori e ha reimpostato, ancora una volta, la tattica dei timidi negoziati con il Pd e con Pier Luigi Bersani. “E’ dal governo che si deve partire”, ha detto Berlusconi preoccupato, “il presidente della Repubblica viene dopo”. E dietro questa novità improvvisa, che ribalta la pur debole strategia adottata fino a ieri, s’indovina un sentimento di inquietudine o forse un’epifania, una rivelazione, la terribile certezza di avere sbagliato a insistere perché prima di tutto si discutesse di chi debba andare a fare il capo dello stato. Insomma il Cavaliere e la sua corte ora hanno l’impressione fondata di essere intrappolati in una meccanica perversa che comunque vada esclude Berlusconi dalla scelta del prossimo presidente della Repubblica per consegnarlo inerme a quella tenaglia politico-giudiziaria che secondo l’avvocato Niccolò Ghedini si stringe “nel giro di qualche mese”. Tra il 20 e il 21 aprile si conclude il processo Ruby con la possibile condanna per prostituzione minorile, poi arriva il turno del processo d’Appello per frode fiscale a Milano e infine, tra settembre e dicembre, la sentenza di Cassazione a Roma sul caso Mediaset. “Vogliono stapparlo come una bottiglia di champagne”, dice Fabrizio Cicchitto, che da vecchio socialista craxiano ha una certa esperienza in tema di martirio politico e giudiziario. “Tuttavia – dice l’ex capogruppo del Pdl alla Camera – perché lo schema sanguinolento si chiuda, perché sia conclamato il caso psichiatrico di questa sinistra fuori controllo, ci vuole prima un nuovo presidente della Repubblica incline alla pulizia etnica, alla rimozione fisica del puzzone di Arcore”. Così Antonio Polito, l’editorialista del Corriere della Sera, vede una specie di “progetto di ingegneria istituzionale” per la decapitazione del centrodestra “che, eliminato Berlusconi, potrà anche sopravvivere, avere una sua dignità, essere riconosciuto e accettato. Ma prima bisogna fare fuori Berlusconi”. E il Pd – spiega Polito – “è come se si fosse messo in trappola, perché le sue azioni, anche involontarie, portano a questo esito cruento. Bersani ha interpretato le ultime elezioni come un enorme spostamento a sinistra del suo elettorato, per lui è stato come se il Pd fosse stato punito nelle urne per essersi mostrato tiepido con Berlusconi, per aver governato nella strana maggioranza che sosteneva Monti. Nel Pd adesso pensano che il loro elettorato voglia soprattutto chiudere i conti per sempre con Berlusconi, che Beppe Grillo sia un fenomeno di sinistra, una roba loro, ma non è così, gli italiani vogliono soprattutto stabilità al governo e riforme”. Martedì sera, a “Porta a Porta”, l’ex capogruppo del Pd Dario Franceschini lo ha praticamente ammesso, lui che al Quirinale vorrebbe un democristiano selvatico e morbido come Franco Marini: “Abbiamo sbagliato, abbiamo coltivato la presunzione di poterci scegliere l’avversario”. Come dire: un peccato ideologico che oggi stiamo perpetuando. La meccanica che descrive Polito è quella scivolosa del grillage giudiziario del Cavaliere, quella che porta all’inseguimento maldestro del Movimento cinque stelle, all’abbraccio non ricambiato con Grillo, e infine, dunque, all’individuazione di una larga, larghissima, maggioranza per portare al Quirinale l’esecutore, o meglio, come si usa dire in questi giorni, il “facilitatore” della sentenza berlusconicida: Romano Prodi, o forse i professori Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà o comunque un profilo simile, un presidente della Repubblica, e capo del Csm, “incline al massacro”, come dice la ruvida e appassionata Daniela Santanchè, o come dice invece Alessandro Gilioli, la firma dell’Espresso, giornalista integralmente antiberlusconiano: “Una figura diversa da D’Alema, da Violante o da Napolitano stesso. Un presidente che non coltivi più rapporti ambigui con il Caimano”. Dunque se adesso Grillo non sbaglia tutto – cosa possibile, visto che i candidati del Movimento 5 stelle al Quirinale sono Imposimato, Boccassini e Settis cioè persone che persino il Pd potrebbe non votare – la strada è spianata. E Gilioli spiega cosa significa avere Zagrebelsky o Rodotà al Quirinale: “E’ l’occasione storica per mettere fine a un vulnus ventennale della democrazia, a Berlusconi. A quella che proprio Zagrebelsky chiamò profeticamente nel 1994 – nel libro ‘I misteri di Forza Italia’ – ‘la formula del potere perpetuo, aggiungendo queste parole: ‘Se questo progetto andrà in porto sarà per l’acquiescenza e la cecità degli altri’”. Insomma per sconfiggere Berlusconi “non c’è bisogno della Boccassini. Basta Zagrebelsky. A scrutinio segreto è molto probabile che trenta o quaranta deputati di Grillo lo votino”. La resa pilatesca di Napolitano Si congela qualcosa per conservarla e poterla utilizzare in un secondo momento, non per gettarla via. In questo senso è appropriato sostenere che la decisione del presidente Napolitano di nominare i dieci saggi ha soltanto “congelato” Bersani, senza sancire il suo fallimento. Certo, il segretario del Pd avrebbe di gran lunga preferito ricevere un incarico pieno, per formare il suo governo e farsi eventualmente sfiduciare in aula, entrando comunque a Palazzo Chigi, oppure le dimissioni anticipate del presidente, ma ha “assorbito” con lungimiranza la mossa del Colle, cogliendone la debolezza, persino l’impotenza. Napolitano, infatti, gli ha sì sbarrato la strada verso Palazzo Chigi, ma di fatto, pur non dimettendosi, perché sconsigliato da Draghi, sta passando nelle mani del suo successore la spinosa questione del nuovo esecutivo. Il favore a Bersani è doppio: perché il presidente non ha attribuito a nessun altro l’incarico di formare un governo, come invece avrebbe voluto la prassi costituzionale alla luce dell’esito negativo della sua esplorazione; e perché ribaltando l’ordine dei fattori dell’ingorgo istituzionale – l’elezione del nuovo presidente della Repubblica è ormai temporalmente prioritaria rispetto alla formazione del nuovo governo (il 18 aprile la prima seduta utile) – aiuta il segretario del Pd a tenere il partito unito sulla prima delle due scadenze. L’inerzia è di nuovo a vantaggio di Bersani: basta aspettare l’elezione del nuovo inquilino del Colle, che sarà più propenso a conferirgli l’incarico anche senza numeri certi al Senato. Esplicativo il titolo dell’editoriale di Stefano Menichini, direttore di “Europa”: «Si va al governo passando dal Quirinale ». Così come sperava che l’elezione dei presidenti di Camera e Senato potesse favorire le condizioni per ottenere almeno il “non impedimento” alla nascita del suo governo, ora Bersani spera di utilizzare l’elezione del nuovo capo dello Stato per continuare la sua rincorsa a Grillo, per un nuovo tentativo di agganciare i senatori del M5S. Se il nuovo presidente venisse eletto senza i voti del Pdl, ma con qualche voto dei montiani e dei grillini, come avvenuto per Grasso, tramonterebbe definitivamente qualsiasi ipotesi di “larghe intese” tra Pd e Pdl e verrebbe rilanciata, invece, l’idea del governo del “cambiamento” in grado di ottenere almeno la “non sfiducia” dei grillini. O, al peggio, ci sarebbe il voto. Peccato che il presidente abbia deciso di chiudere il suo settennato con una mossa così dilatoria e pilatesca. Questa volta il compagno Napolitano ha anteposto l’interesse del suo partito alla tutela delle prerogative costituzionali della presidenza della Repubblica, che aveva voluto difendere con forza, invece, chiamando in causa la Corte costituzionale sulle intercettazioni che lo riguardavano in possesso della Procura di Palermo. Dei due poteri che la Costituzione attribuisce al capo dello Stato per risolvere crisi politiche come quella attuale – il potere di nomina del presidente del Consiglio e il potere di scioglimento anticipato delle Camere – gli restava solo il primo, poiché il presidente in scadenza di mandato non può sciogliere anticipatamente le Camere. Ebbene, Napolitano ha rinunciato anche a quello. Ha rinunciato al potere di nominare un presidente del Consiglio, quindi a provare a sciogliere con il potere che la Costituzione gli attribuisce l’intricato nodo del governo, inventandosi invece una formula dilatoria – le due commissioni di saggi – che nelle sue intenzioni dovrebbe servire a «spezzare, o magari soltanto allentare, la spirale di incomunicabilità fra partiti che si sentono e si comportano ancora come se fossero in piena campagna elettorale ». Ha inteso creare una sorta di camera di decompressione, illudendosi di far emergere in questo modo elementi programmatici condivisi di un eventuale governo di corresponsabilità, più o meno esplicita, tra le forze politiche. Di fatto però, più o meno consapevolmente ha regalato al Pd una cospicua rendita di posizione. Mentre prima avrebbe dovuto accettare un nome di garanzia per il Quirinale affinché non fosse preclusa la nascita di un governo Bersani, adesso è nella posizione di pretendere che il centrodestra si pieghi a votare il candidato espresso dalla sinistra, pena l’elezione della personalità più antiberlusconiana possibile. E in ogni caso il nuovo presidente consentirebbe finalmente a Bersani di varare il suo esecutivo “di minoranza” e di insediarsi a Palazzo Chigi. Se una simile manovra presidenziale avesse in tal modo favorito Berlusconi, si sarebbe gridato al golpe per settimane. La linea di Bersani, di totale chiusura nei confronti del centrodestra, non poteva, e non può, essere messa in discussione all’interno del Pd, se non in modo lacerante. Se davvero c’è chi non la condivide, di sicuro stenta a manifestarsi. E stenterà ancor di più, dal momento che la mossa del Colle aiuta Bersani a compattare il partito dietro di sé, essendo l’elezione del nuovo presidente l’obiettivo condiviso su cui ora non ci si può proprio dividere. Al rifiuto del segretario del Pd di rinunciare all’incarico nonostante non fosse riuscito a ottenere le condizioni poste da Napolitano (una maggioranza certa anche al Senato), il presidente avrebbe potuto, e dovuto reagire facendo saltare il tappo, dichiarando formalmente fallito il tentativo di Bersani e nominando un premier incaricato di formare un governo. Era questo l’unico atto di forza che avrebbe potuto dare una scossa al Pd: a quel punto, chi non fosse stato convinto della linea Bersani, avrebbe potuto sfidarla sotto la copertura autorevole del Quirinale, con gli argomenti pressanti di un governo del presidente che sarebbe arrivato di lì a poco a chiedere la fiducia alle Camere. Napolitano non se l’è sentita di mettere il proprio partito di fronte ad un bivio così lacerante, ma così è uscito dalla sua traiettoria istituzionale proprio all’ultima curva del suo settennato. Il golpe emiliano di Pier Luigi Bersani Il modello emiliano. È quello che ha in testa e che persegue con testarda determinazione il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Un modello che prevede la presenza assoluta ed esclusiva degli ex comunisti in tutti i settori e gli snodi istituzionali della società e che chiude le opposizioni nel ghetto degli impresentabili. È sulla base di questo modello che Bersani, dopo aver conquistato le presidenze di Camera e Senato, ora si accinge ad occupare quella della Presidenza della Repubblica e, di seguito, quella della Presidenza del Consiglio. Il segretario del Pd non ha condiviso la decisione di Giorgio Napolitano di nominare i dieci saggi con il compito di indicare i punti programmatici su cui i maggiori partiti (ovviamente Pd e Pdl) potrebbero accordarsi per dare vita ad un nuovo governo. Il suo obbiettivo è esattamente opposto. Ma pur non condividendo la mossa del Capo dello Stato ha lucidamente capito di poterla sfruttare a proprio vantaggio. Perché nel dare dieci giorni di tempo ai saggi Napolitano si è di fatto tirato fuori dalla questione del nuovo governo ed ha passato la patata bollente al suo successore al Quirinale. E su questa debolezza (o ragionato ultimo servigio al proprio partito d’appartenenza) del Presidente della Repubblica uscente, il segretario del Pd ha rilanciato la propria azione tesa alla piena e intransigente realizzazione del modello emiliano. La proposta lanciata al Pdl di una intesa sul nome del nuovo Capo dello Stato in cambio di un via libera del centrodestra ad un governo Bersani di minoranza è la mossa iniziale dell’operazione tesa a conquistare tutto ed a fare piazza pulita degli avversari (esterni ma anche interni). La proposta , infatti, è una trappola. Bersani esclude un accordo su un nome che sia al di sopra delle partiti e possa rappresentare l’intero paese. Il segretario del Pd chiede che il Pdl voti per il meno peggio dei candidati espressi dalla sinistra. Cioè che accetti di mandare un altro esponente dichiaratamente della parte avversa al Quirinale. E per convincere il centrodestra a piegarsi a questa pretesa Bersani fa circolare a scopo intimidatorio i nomi di Proti, Rodotà, Zagrebelsky, cioè i campioni del giustizialismo e dell’antiberlusconismo viscerale, che in caso di mancato accordo potrebbe votare d’intesa con qualche pezzo del Movimento Cinque Stelle secondo lo schema Grasso. Per non avere uno di questi nemici dichiarati ed irriducibili al Quirinale, quindi, il Pdl dovrebbe piegarsi ad accettare comunque un nome comunque espresso dal Pd ed accettare la prassi secondo cui il Colle è riserva di caccia esclusiva della sinistra. Ma, soprattutto, dovrebbe consentire a Bersani, di nuovo incaricato di formare il governo dal nuovo inquilino “amico” del Quirinale, di varare senza condizionamenti di sorta ed intese di alcun genere un esecutivo di minoranza. Un esecutivo caratterizzato da un programma, fatto apposta per conquistare i voti di volta in volta dei grillini, avente come unico obbiettivo quello di espellere una volta per tutte Silvio Berlusconi dalla scena politica italiana. Il disegno di Bersani è fin troppo esplicito, chiaro, dichiarato. Il segretario del Pd è convinto che per recuperare l’elettorato di sinistra passato a Beppe Grillo non abbia altra strada che quella di decapitare metaforicamente il Cavaliere espellendolo con ignominia dal Parlamento e condannando il centrodestra senza più leader alla emarginazione ed alla scomparsa dalla vita pubblica nazionale. Berlusconi dice che il piano escogitato da Bersani sia un golpe. Dal suo punto di vista non ha torto. Perché occupare tutte le istituzioni e mandare il principale leader dell’opposizione in galera è tipico delle operazioni golpiste. Ma è di scarsa importanza definire golpista o meno questa operazione. Più importante è capire che pensare ad eliminare gli avversari mentre il paese precipita nel baratro è da irresponsabili. Tanto più che la maggioranza degli italiani rimane comunque contraria alla sinistra forcaiola e che un Berlusconi fuori dal Parlamento e perfino in carcere può avere lo stesso effetto elettorale e di consenso di un Cavaliere a piede libero. Il «saggio » Onida beffato da La Zanzara. Alla finta Hack: «Sì , i “saggi” sono inutili » «I saggi? Inutili, servono a coprire questo periodo di stallo. Andremo a votare presto ». A dirlo è proprio un «saggio »: Valerio Onida, uno dei dieci «facilitatori » nominati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Intercettato da una finta Margherita Hack per il programma «La zanzara » su Radio 24, l’ex presidente della Consulta parla liberamente: «Berlusconi vuole solo protezione, è anziano e speriamo decida di godersi la vecchiaia lasciando in pace gli italiani ». Poi, sul Quirinale: «Fosse per me metterei Giuliano Amato ». «COPERTURA DELLO STALLO » – «Questa cosa dei saggi, a me sembra sinceramente una cosa inutile », esordisce l’imitatore dell’astrofisica toscana, come riporta un comunicato dell’emittente. «Ma guardi, sì – conviene Onida – è probabilmente inutile… Serve a coprire questo periodo di stallo, dovuto al fatto che dal Parlamento non è venuta fuori una soluzione mentre l’elezione del nuovo Presidente è tra quindici giorni… allora il nuovo presidente potrà fare nuovi tentativi o al limite sciogliere le Camere, cosa che Napolitano non può fare. Dunque questo periodo di stallo è un po’ coperto, diciamo così, da questo tentativo (ride)..questa cosa…sono d’accordo che non servirà nella sostanza… ». «Non ho ancora capito a che servono », chiede ancora la finta Hack: «…È un lavoro di copertura del momento di stallo… dovremmo mettere giù proposte di programma che possano essere condivise, ma nella sostanza i partiti devono mettersi d’accordo… », risponde Onida. LA LEGGE ELETTORALE – «C’è possibilità di cambiare legge elettorale? », chiede sempre la finta Hack e Onida risponde così: «Cercheremo di fare una proposta, quello sarebbe un bel risultato. Penso che andremo a votare ancora, presto o prestissimo. È un Parlamento bloccato, Grillo non ne vuol sapere, il Pdl vuole solo garantirsi di essere in campo, Berlusconi naturalmente spera sempre di avere qualche vantaggio o protezione, il Pd ha fatto questo tentativo di buttarsi con Grillo e non ce l’ha fatta. E c’è il blocco ». E per il Quirinale che succede? «Si fanno tanti nomi, ma non c’è accordo – risponde il costituzionalista – personalmente dico che Amato sarebbe un ottimo presidente della Repubblica, fosse per me lo farei subito ». Quindi ancora una critica a Berlusconi: «È anziano, speriamo si decida a godersi la sua vecchiaia, è un mio coetaneo. Potrebbe andare a godersi la sua vecchiaia e lasciare in pace gli italiani ». (Qui, l’audio.) Se si arrabbia Di Matteo… Diciamoci la verità: erano convinti, “gli amici romani di Matteo“, che partito Ingroia per il Guatemala prima e per la Rivoluzione Civile poi, il processo sulla Trattativa Stato-mafia si sarebbe afflosciato come un soufflé sbagliato. Erano convinti, loro e gli altri amici degli amici, che quel processo “fondato su teoremi” si sarebbe schiantato contro un muro di cemento armato chiamato udienza preliminare. Erano convinti, insomma, che Ingroia se ne fosse andato proprio per evitare di partecipare al bagno di sangue mediatico (dopo quello, prospettato, giudiziario). Purtroppo i “noti amici” non conoscevano bene gli altri. Avevano sottovalutato Vittorio Teresi, Francesco Del Bene, Lia Sava e il giovane Roberto Tartaglia. Ma soprattutto lui. Il “buono”, il “temperato”, il “timido”. Pensavano che Nino Di Matteo non potesse sopportare mediaticamente (e psicologicamente) il ruolo di punta di diamante dell’accusa palermitana. Questo perché, molto probabilmente, ahi loro, non lo hanno mai visto nel suo habitat naturale, in Aula. Perché il Di Matteo magistrato che esercita la funzione della pubblica accusa fa paura. E tanta. Credo, dunque, che lo scopo delle missive anonime che annunciano il ritorno allo stragismo, partendo proprio dal pm che indossò la toga nell’anno nero della Repubblica Italiana, sia tastare il polso al magistrato per “vedere di nascosto l’effetto che fa”. Pensavano, gli amici romani di Messina Denaro, che Nino Di Matteo il “buono” non avrebbe potuto continuare a lavorare serenamente sapendo che, così dicono, sarebbe già arrivato a Palermo il tritolo anche per lui. Che qualcuno conosce i suoi spostamenti meglio di lui. Dicono quelli che lo hanno sentito al telefono, aspettandosi ingenuamente un uomo teso e messo all’angolo, di aver sentito Di Matteo carico e determinato come nei giorni migliori. Dicono che sia sereno perché “anche questo fa parte del lavoro che ha scelto di fare”. O meglio, della missione che ha voluto intraprendere ormai vent’anni fa. Dicono che non ha paura perché l’affetto della gente sovrasta gli spifferi di qualcuno che, indipendentemente dalle motivazioni, tenta di creare paura e tensione, ben sapendo che le analogie con il 1992, in questo momento, sono parecchie. Occhio però. Dicono che Di Matteo sia un buon marito, un buon padre. Che sia una persona con il cuore grande. Ed è vero. Ma Di Matteo non è un don Abbondio, manco un po’. Io l’ho visto mentre rappresentava lo Stato in un’Aula di giustizia. Ho visto un uomo con la toga che ha come unici vincoli le leggi italiane e la Costituzione. Un uomo che non si fermerebbe e non si fermerà mai perché “arrendersi” non è contemplato nel suo vocabolario e in quello dei suoi maestri; tantomeno “trattare”. Quindi, agli “amici romani di Matteo” e ai grafomani anonimi, un consiglio spassionato: lasciate perdere, andate al mare. Di Matteo non è un Mannino qualunque. P.s. Do per scontato che procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, abbia già iniziato le pratiche per l’archiviazione del fumettistico procedimento disciplinare nei confronti di Di Matteo, accusato di avere violato i “doveri di diligenza e di riserbo”, e il “diritto alla riservatezza” del Capo dello Stato, confermando in un’intervista l’esistenza delle conversazioni intercettate tra Mancino e Napolitano, svelate il giorno prima non da uno, ma da due giornali. Severino, la ministra che dice bugie Qualche ingenuo si aspettava forse una parola di solidarietà del governo al pm Nino Di Matteo finito nel mirino di Cosa Nostra. Chissà, magari, se non è chiedere troppo, anche un mezzo monito di Napolitano. O un paio di monosillabi del Csm e dell’Anm. Invece niente, silenzio di tomba. Anzi, peggio. La ministra della Giustizia Paola Severino ha parlato, ma per elogiare il Pg della Cassazione Gianfranco Ciani che ha appena promosso l’azione disciplinare contro Di Matteo. L’elogio, reso noto dallo stesso Ciani dinanzi al Csm che l’ha molto applaudito, è contenuto nella risposta scritta della Guardasigilli a una vecchia interrogazione della fu-Idv sulle pressioni esercitate un anno fa da Ciani sull’allora Pna Piero Grasso, affinché intervenisse sulle indagini della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, come gli avevano chiesto l’indagato Mancino e il presidente Napolitano. Il 19 aprile 2012 il Pg convocò Grasso in Cassazione e gli chiese di avocare le indagini oppure di “coordinarle” con quelle della Procura di Caltanissetta (che indaga su tutt’altro). Grasso, correttamente, respinse le due proposte indecenti, spiegando di non avere poteri di avocazione né di indirizzo e, quanto al coordinamento, esso era già assicurato dal Csm con un protocollo del 28 aprile 2011 sempre rispettato dalle due Procure. L’Idv chiedeva se non fosse il caso di promuovere l’azione disciplinare contro il Pg, ma la Severino ha risposto picche sperticandosi in peana a Ciani. Purtroppo, nell’empito elogiativo, è incorsa in alcune bugie davvero gravi per un ministro, per giunta della Giustizia. Forse perché si è bevuta la versione dell’alto magistrato, purtroppo contraddetta dalle carte. Ciani assicura di non aver mai chiesto a Grasso né di avocare né di indirizzare l’indagine di Palermo, limitandosi a svolgere la sua normale funzione di sorveglianza. Il che, scrive la Severino, risulterebbe “dal tenore della relazione redatta da Grasso su richiesta esplicita del Pg”. Prima bugia: fu Grasso, come ha raccontato lui stesso in varie interviste, a pretendere che il Pg gli mettesse per iscritto le sue richieste, così da potergli rispondere a sua volta nero su bianco e lasciare traccia dell’accaduto. Seconda bugia: nel verbale della riunione si legge che il Pna Grasso “precisa di non avere registrato violazioni del protocollo del 28.4.2011 tali da poter fondare un intervento di avocazione a norma dell’art. 371-bis Cpp. Il Pna rimetterà al Pg un’informativa scritta”. L’esatto contrario di quel che affermano Ciani e Severino. Del resto, se il Pg non avesse chiesto a Grasso di avocare l’indagine, perché mai Grasso avrebbe risposto di non poterla avocare? Terza bugia: Grasso ha ricostruito i fatti in un’intervista del 22 giugno 2012 alla nostra Sandra Amurri. E ha raccontato di avere respinto le richieste del Pg non solo di avocare, ma anche di indirizzare e influenzare i pm di Palermo: “Mi è stata richiesta (da Ciani, ndr) una relazione sul coordinamento tra le procure. Ho espresso la volontà che mi venisse messo per iscritto. Mi è stato fatto presente che era nei suoi poteri chiederlo verbalmente. Il 22 maggio ho risposto per iscritto specificando che nessun potere di coordinamento può consentire al Pna di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulla valutazione degli elementi di accusa acquisiti dai singoli uffici giudiziari”. Peccato che Ciani e Severino dicano l’opposto. Si spera che Grasso, divenuto nel frattempo presidente del Senato, li smentisca (non foss’altro che per non dover smentire se stesso). E soprattutto che, risolta la questione, qualcuno si decida a dire due parole su Di Matteo che rischia la pelle a Palermo proprio per quelle indagini così popolari nel Palazzo. Ma forse l’elogio del ministro al Pg che ha trascinato Di Matteo dinanzi al Csm basta e avanza a farci capire da che parte sta lo Stato: dalla solita. Ruby protesta davanti al tribunale: “Usata per colpire Berlusconi” Davanti al Palazzo di Giustiaia per protestare duramente contro l’assalto giudiziario messo in atto dai magistrati e contro il circo mediatico ordito dalla stampa. L’obiettivo era far male a Ruby per colpire Silvio Berlusconi. Questa mattina Karima El Marough, la ragazza marocchina al centro dell’inchiesta sulle cene nella residenza del Cavaliere ad Arcore, ha manifestato sui gradini del tribunale di Milano per chiedere di esser ascoltata dai magistrati. “Non sono una prostituta, devono ascoltarmi – ha spiegato Ruby ai cronisti – per colpire Berlusconi la stampa ha fatto del male a me”. Una richiesta lecita e ovvia. Ruby chiede solo di essere ascoltata dai magistrati per “dire la verità”. Dopo aver ricordato di essere la “parte lesa in questa vicenda”, la ragazza marocchina ha duramente criticato l’operato dei giudici che non hanno mai voluto sentire la sua versione. “Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta”, ha accusato Karima leggendo un testo scritto e spiegando di aver subito una “violenza psicologica” da parte dei magistrati. La ragazza ha, infatti, detto chiaramente di non aver mai avuto rapporti sessuali a pagamento (“Non li ho mai avuti con Berlusconi”) e di saver fatto una cavolata dicendo che ero parente dell’ex presidente Hosni Mubarak, uno dei capitoli più importanti del processo che prende il suo nome. “Mi dispiace per avere mentito – ha affermato – anche sulla parentela con Mubarak e di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso”. E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. “Presentarmi come la nipote di Mubarak – ha aggiunto Ruby – mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia”. Durante la protesta davanti al Palazzo di giustizia di Milano, Karima si è commossa. Sul suo viso è spuntata qualche lacrima quando ha spiegato di essere stata insultata durante la Santa Messa di Pasqua. “Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza – ha chiarito la ragazza davanti a una ressa di telecamere e fotografi, leggendo un testo scritto ma senza rispondere alle domande dei cronisti – quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto: ‘Spero che non diventi come sua madre'”. Qui il testo integrale del discorso di Ruby. Letto 1704 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||