Se il carisma non basta10 Giugno 2013 di Ernesto Galli della Loggia Ci sono alcune cose interessanti in comune tra la nascita del Movimento 5 Stelle e la nascita della Lega Nord (a parte l’assai maggiore velocità con cui si sta consumando la parabola del primo). Così come è interessante un aspetto della situazione italiana che le loro comuni difficoltà ci dicono. Un ritorno per il quale la Lega è comunque in un certo senso attrezzata. L’elemento territoriale della sua utopia di partenza le ha consentito in modo abbastanza naturale, infatti, di trasformarsi in un partito degli interessi locali, in un partito di sindaci e assessori, accettando a livello nazionale un ruolo puramente gregario: importante ma pur sempre gregario. È sul Movimento 5 Stelle, invece, che le contraddizioni mordono con maggiore furia. Quella certamente più evidente è la contraddizione tra carisma e leadership. Agitare una folla ed emozionare nei comizi è una cosa, guidare un gruppo di eletti al Parlamento in base a qualche strategia un’altra. Grillo ha mostrato di avere il carisma, ma sta mostrando di non sapere come trasformarlo in una leadership. Cioè in qualcosa che ha bisogno di almeno tre elementi: un’idea di fondo sufficientemente realistica delle cose da fare, riuscire a inventarsi una struttura organizzativa, e infine la capacità non già di farsi obbedire ma di convincere. Il passo dal carisma alla leadership non gli riesce probabilmente per un’insicurezza personale di fondo. Infatti, mentre egli ha assoluta padronanza del primo, per quanto riguarda la seconda, invece, è consapevole di non sapere neppure da dove si comincia. Nella difficoltà – oggi per il Movimento 5 Stelle e il suo capo, ieri per la Lega di Bossi – di trasformare un successo elettorale in una leadership in grado di animare una vera presenza politica capace di ulteriori sviluppi si scorge in realtà un dato rilevante della situazione italiana. E cioè che da decenni ciò che nasce dal basso come genuino movimento di protesta e di rinnovamento della politica non riesce in alcun modo a liberarsi del connotato intellettualmente elementare e ingenuamente protestatario, antropologicamente plebeo-piccolo borghese, con cui vede ogni volta la luce. Non a caso elegge rappresentanti (vedi i parlamentari grillini attuali o tanti della Lega) i quali brillano quasi tutti per pochezza concettuale mista a insulsa prosopopea, sicché alla fine ciò che nasce dal basso come qualcosa di «nuovo » e «contro », e magari ha un iniziale successo, è però fatalmente condannato a un tramonto più o meno rapido nelle mani di un padre-padrone carismatico desideroso di restare tale per sempre, anche se ormai inutile. Si sconta così il fatto che da questo «nuovo » le élites socio-culturali della Penisola sono ogni volta assenti. Ma non già solo perché tenute lontano dalla volontà del padre-padrone di cui sopra o dai meccanismi di consenso che egli produce. Sono assenti anche perché le élites italiane, pur se critiche, criticissime, delle condizioni del Paese e della qualità della sua classe politica accreditata – come da esse si ascolta sempre quando si sentono libere di esprimersi – tuttavia preferiscono l’immobilità. Hanno ereditato una sorta di timore atavico a schierarsi davvero all’opposizione del «sistema » nel suo complesso, a diventare fautrici di un vero rinnovamento. Hanno sempre timore di «esporsi », di mettersi in gioco senza paracadute, senza avere qualche forma di garanzia, come minimo un posto assicurato in Parlamento. Anche per questo in Italia è sempre così difficile mettere termine a ciò che non ha più ragione d’essere, spalancare le finestre, tentare strade diverse, inventare procedure inedite, chiamare gente nuova. Perché le élites del Paese, pure se a parole lo negano, in realtà sono come ostriche attaccate al passato, e le uniche novità che gradiscono sono quelle che vengono dall’alto: che però, come si sa, almeno qui da noi troppo spesso sono quelle famose novità che non cambiano nulla. Mentre ciò che ha in sé qualcosa davvero di nuovo finisce per avvizzire nella sua solitaria autoreferenzialità. Lite fra i guru (rossi) della Costituzione L’attuale dibattito sulla Costituzione – se riformarla, e come – è innegabilmente uno dei più necessari nell’attuale momento politico, e quindi uno dei più intellettualmente feroci. Il sito della prestigiosa e progressista rivista il Mulino, dall’altro ieri, nell’indifferenza generale, apre con un articolo – sottile per ironia, devastante per gli effetti – del professor Pasquino (che negli anni ’80 diresse la pubblicazione del Mulino) dal titolo tranchant: La Costituzione imbalsamata. Dove ovviamente, per il riformatore Pasquino, l’imbalsamatore è Zagrebelsky, il quale considera la nostra Costituzione intoccabile (dimenticando che i costituenti stessi, saggiamente, scrissero un articolo apposito per regolamentare le eventuali riforme, considerate quindi possibili), insomma la vede come “la più bella del mondo ”, tanto che «vorrebbe esibirla a un concorso di bellezza fra tutte le Costituzioni esistenti ». Partendo dall’intervista rilasciata giorni fa dal presidente emerito della Corte Costituzionale al Corriere delle sera, Pasquino rileva che «Disponendo forse di informazioni riservate, Zagrebelsky ci ha dato, non contrastato dall’ossequioso intervistatore (Aldo Cazzullo, ndr), un sacco di notizie democratiche e istituzionali. La prima, è che grazie al presidenzialismo o semipresidenzialismo, i colonnelli, come in Sudamerica, sono diventati capi di Stato… I dati storici, però, dicono inconfutabilmente che sono i generali a diventare capi di Stato nelle Repubbliche presidenziali e semipresidenziali, come Eisenhower (1952-60) e de Gaulle (1958-69). Poco sembra importare al giurista che entrambi abbiano vinto e rivinto elezioni democratiche e competitive e che nessuno all’Occidente considera né competitive né democratiche le elezioni russe. Peccato che l’intervistato non riesca a spingersi più in là con la sua memoria. Diciamolo: il vizio del presidenzialismo è d’origine. Addirittura il primo presidente degli Stati Uniti fu un generale: George Washington ». E, come surplus, Pasquino aggiunge l’esempio della Repubblica di Weimar (1919-33), dove si ebbe un generale, Paul von Hindenburg, «democraticamente eletto e rieletto, anche con il voto dei socialdemocratici tedeschi già in preda alla sindrome di Stoccolma, vale a dire, per seguire l’analogia zagrebelskyana, innamoratisi del loro nemico ». E anche la Costituzione di Weimar, scritta da alcuni dei più brillanti giuristi del tempo, fu un caso di semipresidenzialismo. Ma questi «sono tutti particolari marginali per gli imbalsamatori della Costituzione italiana pronti a sparare a zero sul presidenzialismo e, quando si ricordano che non è la stessa formula istituzionale, anche sul semipresidenzialismo ». Del resto, conclude amareggiato e sarcastico Pasquino (che con tale ironica puntualizzazione rischia ora di essere arruolato d’ufficio tra i “quattro gatti liberali ”) «La Costituzione italiana, dichiarano solennemente gli “imbalsamatori ”, “non è cosa vostra ”, cioè di noi cittadini riformatori. Quindi malvagi ». Il fisco saprà per chi voti Avevano già i nostri redditi. E anche i nostri conti bancari, le carte di credito. Tutte le assicurazioni stipulate. I dati sanitari. I lavori. Avevano i nostri scontrini. Le targhe delle nostre auto. Le nostre case. I quadri che avevamo comprato o ereditato. Ogni grammo d’oro acquistato o ricevuto da papà, mamma e perfino dalla bisnonna. Hanno il nostro stato civile, la fedina penale, conoscono i nostri figli, i computer, la televisione, gli iPad, i numeri di telefono della nostra famiglia, gli indirizzi di casa e ufficio, tutte le bollette: acqua, luce, gas, comunicazioni. Non sfugge un nostro viaggio, una vacanza, un biglietto aereo, una crociera in nave. Grazie a scontrini, bollette del telefono e talvolta intercettazioni il Grande fratello dello Stato italiano è in grado di conoscere perfino il cuore dei suoi cittadini: amicizie, amori, passioni, doppie vite. C’era una sola cosa in cui lo Stato non poteva mettere becco, perché protetta dalla carta fondamentale della Repubblica italiana: il voto. Dice l’articolo 48 della Costituzione che «il voto è personale ed eguale, libero e segreto ». E invece sarà segreto per l’ultima volta in questo 2013. Perché l’articolo 48 della Costituzione è stato di fatto abolito da Enrico Letta. Dice la nuova legge sul finanziamento ai partiti che dal 2014 i cittadini potranno sostituire l’attuale sistema di rimborso delle spese sostenute in campagna elettorale devolvendo ai partiti il 2 per mille dell’Irpef nella loro dichiarazione dei redditi. Spiega lo stesso Letta nella relazione che accompagna il suo disegno di legge che «le scelte saranno effettuate in sede di dichiarazione annuale dei redditi mediante la compilazione di una scheda recante l’elenco dei partiti aventi diritto, sulla quale il contribuente può indicare un unico soggetto cui destinare il due per mille della propria imposta sul reddito ». Dal 2014 dunque gli italiani daranno al fisco insieme alla propria dichiarazione dei redditi una scheda dove sarà indicato il partito che vorranno finanziare. Come le dichiarazioni dei redditi dunque il voto degli italiani, o di quella parte di italiani che vorrà finanziare il partito del cuore, finirà insieme alla dichiarazione dei redditi nelle mani dell’Agenzia delle Entrate di Attilio Befera. E rischia di finire in quel grande frullatore della privacy degli italiani che è il Sid (Sistema di interscambio dati), quella banca dati, il Grande fratello che il fisco italiano ha costruito per scovare gli evasori. La preferenza politica del singolo cittadino verrà dunque frullata insieme al redditometro, ai propri dati bancari, assicurativi, sanitari e familiari. Un’arma micidiale nelle mani di qualsiasi regime autoritario, ma rischiosa anche in una democrazia come quella italiana. Se il fisco avrà in mano anche il dato della preferenza politica dei propri contribuenti, potrà venire la tentazione (fosse anche a funzionari infedeli) di usare impropriamente quell’arma nei confronti dei propri avversari politici. Decidendo ad esempio di compiere verifiche fiscali selezionando “politicamente” i primi campioni, le vittime predestinate. Pensate ad esempio con un governissimo Pd-Pdl-Scelta civica in carica che cosa potrebbero rischiare gli elettori del Movimento 5 Stelle che volessero finanziare direttamente Beppe Grillo e i suoi. Ma naturalmente le vittime “politiche” del fisco italiano potrebbero essere altre con il mutare della situazione politica. Quale sarebbe stata con un’arma così in mano in questi anni la guerra pro o contro Silvio Berlusconi? E chi l’avrebbe vinta mettendo con il fisco in ginocchio tutti i sostenitori dell’uno o dell’altro fronte? La scelta operata nel disegno di legge Letta sul finanziamento ai partiti è dunque clamorosa e mina le basi stesse della democrazia. Non a caso quando tre lustri fa – era il 1997 – fu scelto per finanziare i partiti politici un sistema quasi identico, che devolveva il 4 per mille dell’Irpef, fu esplicitamente esclusa la possibilità di dichiarare il partito a cui fare andare quei soldi. Anche all’epoca i partiti esistenti si resero conto del rischio che correvano: restare con le casse all’asciutto. Perché era evidente a loro che ben pochi avrebbero dato il proprio 4 per mille Irpef al sistema dei partiti nel suo complesso: complicato chiedere a un berlusconiano di finanziare Massimo D’Alema e Valter Veltroni, e viceversa. E in effetti andò malissimo: solo lo 0,5% dei contribuenti versò il proprio 4 per mille, e non si andò oltre i 2 milioni di euro attuali. Ma fu esplicitamente esclusa ogni ipotesi di meccanismo che avrebbe consegnato al fisco le preferenze politiche degli italiani, perché venne ritenuta incostituzionale violando la segretezza del voto. Letta invece ha voluto dare al fisco questo strumento micidiale, in grado di minare alle radici il nostro sistema democratico. Lo ha fatto forse perché ha voluto correre troppo in fretta, tanto è che la presidenza del consiglio dei ministri ha motivato con l’urgenza la richiesta di non sottoporre il testo alla necessaria Analisi di impatto sulla regolamentazione esistente (che avrebbe segnalato i rischi). Formalmente i tecnici che hanno scritto il disegno di legge sostengono che la Costituzione sarebbe rispettata perché qui il partito su cui il contribuente mette la “x” è quello da “finanziare”, e potrebbe essere diverso da quello che segretamente si vota. Ma la spiegazione è da arrampicata sui muri: è già difficile scegliere un voto, figurarsi se un contribuente è disposto a versare propri soldi a un partito che nemmeno vota. C’è quindi un solo antidoto: fare saltare subito in Parlamento quel 2 per mille ideato in modo così diabolico. Mina la convivenza civile assai più della vecchia generosità dei rimborsi elettorali. Tanto più che con il nuovo sistema ai partiti finirebbe comunque più o meno la stessa somma pubblica che veniva data prima… Il governo e la corsa di Matteo Da lle parti del centrosinistra – e del Pd, più in particolare – va ormai radicandosi (fino ad esser giunta ad un passo dall’ufficialità) una incontrollabile novità. Infatti, c’è un giovane amministratore, Matteo Renzi, che potrebbe presto porre la propria candidatura alla guida del partito sull’onda di una linea che prevede il no all’ineleggibilità di Berlusconi, è critica con le «toghe rosse », ha da ridire sul ruolo svolto dal sindacato, ritiene perfettamente normale andare a pranzo con Briatore e a cena con finanzieri più o meno discussi, è scettica verso un governo guidato da un esponente del suo stesso partito e reclama – infine – «una sinistra finalmente non decoubertiniana »: che se ne frega, cioè, delle vecchie compatibilità e delle buone maniere, perché l’importante è vincere. Punto e basta. La prima reazione, di fronte a un elenco così (ma si potrebbe continuare…) è ovvia: o il potenziale candidato ha sbagliato partito oppure sono in molti nel partito (perché gli aficionados aumentano) ad aver sbagliato candidato. In realtà, è possibile una terza ipotesi: e che cioè – pur con tutte le approssimazioni e le cose da meglio definire – la sinistra italiana stavolta si trovi davvero di fronte a quel rischio-possibilità di radicale rinnovamento che da più parti (e perfino dal suo stesso interno) è ormai da tempo invocato. È una ipotesi – quest’ultima – naturalmente più difficile da liquidare con un semplice «tanto si sa che Renzi è di destra »: e certamente più impegnativa circa la valutazione degli approdi cui potrebbe portare. Ieri, incalzato dalle domande dei colleghi de «la Repubblica », il sindaco di Firenze ha chiesto a Guglielmo Epifani di fissare data e regole del Congresso Pd. E ha aggiunto: «Stavolta non mi faccio fregare: prima le regole e poi dico se mi candido ». Ma che si decida a farlo oppure no, è chiaro fin da ora che il pacchetto di «provocazioni » immesso da Renzi nel dibattito precongressuale dei democratici, segnerà – e non poco – l’intera discussione: a maggior ragione per la contemporanea presenza sulla scena di un governo che ha seminato depressione e insoddisfazione nelle file Pd. Ecco, il governo: che sembra essere il più esposto di fronte al possibile tsunami della candidatura (e poi dell’elezione) di Renzi alla guida del Pd. E infatti non è certo per caso che, da quando presiede il suo esecutivo di «larghe intese », Enrico Letta cerchi di curare il più possibile i rapporti con l’«amico Matteo ». L’altro giorno i due sono rimasti faccia a faccia a Firenze per un paio d’ore, cercando di capire se sia possibile una qualche intesa tra un leader che è a Palazzo Chigi e ci vuole restare, ed un altro che ne è fuori e ci vuole entrare. Non è semplice: e infatti, per quanto i riflessi di una antica e comune «democristianità » abbiano aiutato a smussare gli angoli, è proprio questo quel che è emerso dall’incontro. Per tanti motivi – a cominciare dalle dichiarate ambizioni di Renzi – bisogna dunque cominciare ad abituarsi all’idea che una eventuale ascesa del sindaco di Firenze alla guida del Pd porterebbe con sé (anche solo oggettivamente) rischi serissimi per la tenuta del governo. Letta lo sa, e Renzi non lo nasconde: «Questo governo – ha ripetuto ancora ieri – non aiuta il bipolarismo ». Il problema è che, pur di fronte a questa eventualità, è estremamente difficile che i due possano raggiungere un’intesa capace di evitare un quasi certo scontro frontale. Enrico Letta, infatti, si trova nella posizione di non poter spingersi troppo oltre nelle rassicurazioni sul futuro, essendo legato ad alleanze interne al Pd (da Bersani a Franceschini) fatta anche di leader che non intendono stender tappeti rossi per l’arrivo dell’«amico Matteo »; e Renzi, d’altra parte, non si fida: e soprattutto, è poco incline a stringer patti quando non è lui ad esser il più forte. D’altra parte, è vero che è giovane, ma ha visto e letto di troppi accordi politici stretti e poi traditi: dal patto «della staffetta » tra De Mita e Craxi (Anni 80) a quello «della crostata » tra D’Alema e Gianni Letta (Anni 90) ce ne fosse uno andato in porto… Dunque, meglio le mani libere. Che è precisamente la rotta che Matteo Renzi terrà da qui fino al momento in cui saranno fissate le regole per il Congresso. E se alla fine decidesse di candidarsi, una cosa può esser certa: nel bene o nel male, nulla sarebbe più come prima. Per il Pd, certo: ma anche per lo strano governo delle «larghe intese »… Lupi, il Peter Pan del governo che corre con le grandi opere Quanto a idee, Maurizio Lupi, le ha chiare. Non ci piove. Il neo ministro Pdl per le Infrastrutture sguazza nei Lavori pubblici da lustri. Se ne occupava già da assessore nella giunta milanese di Gabriele Albertini nel 1997, poi come capogruppo del Pdl nella commissione Lavori pubblici della Camera e infine da responsabile del partito nello stesso settore. Maurizio è un milanese, laureato alla Cattolica in Scienze politiche, aderente a Comunione e liberazione, amico di Angelo Scola, l’arcivescovo di Milano, vicino a Cl. Quasi in fasce, ha mostrato una spiccata attitudine per l’accumulo delle cariche. All’università, per conto di Cl, fondò una coop di servizi agli studenti di cui divenne amministratore. Poi, è entrato al Sabato, il settimanale di Cl, come assistente personale dell’ad, per poi passare alla direzione del marketing. Presto, si è buttato anche in politica. Esordì in Consiglio comunale nei primi anni ’90, come dc. Fu uno degli ultimi di quella stirpe, a ridosso del crollo tangentopolista. Dopo il patatrac, si salvò salendo sulla zattera del Cdu, una dependance di Cl, guidata da Rocco Buttiglione, segretario, e Roberto Formigoni, presidente. Viste le peripezie, Maurizio capì che, accanto alla politica, ballerina per natura, doveva crearsi un lavoro suo. Fondò, così, Fiera Milano Congressi, società leader nella organizzazione di eventi, in grado di fornire a chiunque voglia parlarsi addosso, vaste sale sparse per l’Italia per un totale di ventimila posti a sedere. Di questo gigante del raduno, Lupi è stato amministratore delegato fino alla nomina a ministro. L’incompatibilità lo ha costretto a dimettersi. Comunque, la poltrona è lì che lo aspetta. Questo entusiasmo, venato di infantilismo, gli attira benevolenza. Quando, all’ultimo conclave, vide in tv la fumata bianca corse in Piazza San Pietro senza aspettare la proclamazione, convinto che il nuovo papa fosse l’amico Scola, dato per favorito. Tornato in via dell’Umiltà con le pive nel sacco fu accolto dai «buuu » ironici che si riservano ai tifosi delusi. Che sia baciapile, l’avrete capito. «Cerco di portare il messaggio di Cristo in ogni aspetto della mia vita, compreso il Parlamento », dice. Scovati negli archivi di Harvard i compiti di matematica di Abraham Lincoln La storia ce l’ha tramandato come un maestro d’eloquenza che nel corso degli anni da autodidatta e con estremi sacrifici riuscì a scalare i vertici della società americana fino a diventare il sedicesimo presidente degli Stati Uniti. Tuttavia il ritrovamento negli archivi dell’Università di Harvard di alcuni compiti di matematica di Abraham Lincoln smentisce la leggenda secondo cui uno dei più importanti Capi di Stato statunitense abbia frequentato la scuola solo per pochi mesi. Nerida Ellerton e Ken Clements, i ricercatori dell’Illinois State University che hanno ripescato queste preziose reliquie, sostengono che i documenti dimostrano chiaramente come il futuro padre della battaglia per l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti non solo abbia studiato per diversi anni in una scuola dell’Indiana, ma che sia stato anche un valente studente. SCUOLA – I compiti di matematica ritrovati risalgono agli anni 1824-1826 e sono trascritti su un paio di pagine di un quaderno che sarebbe appartenuto al giovane Lincoln. I fogli sono stati scovati negli archivi della Houghton Library e rappresentano il più antico manoscritto del futuro Capo di Stato americano. La tradizione narra che il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti, figlio di due contadini del Kentucky privi di una formale educazione, avesse frequentato al massimo per 5 mesi le scuole del suo paese, ma gli studiosi dell’Illinois State University, carte alla mano, attestano invece che per diverse stagioni Lincoln, da alunno modello, svolse diligentemente a casa i compiti di matematica assegnati dai suoi professori. POCHI ERRORI – Secondo lo studioso Ken Clements i documenti parlano chiaro: «Crediamo che Lincoln frequentò la scuola almeno per due anni – dichiara lo studioso ai media americani – Abbiamo studiato migliaia di questi libri cifrati e sebbene non si abbia sempre la sensazione che questo ragazzo sappia quello che sta facendo, c’è da dire che nei compiti ci sono pochi errori e che il giovane si dimostra all’altezza dei problemi di matematica che sta affrontando ». I documenti ritrovati erano negli archivi della biblioteca dal 1954 e saranno uniti agli altri manoscritti appartenuti al futuro Presidente già in possesso dell’istituto di Harvard. Letto 2678 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||