LETTERATURA: Francesco Mastriani: “La sepolta viva”
9 Settembre 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Il romanzo è del 1877.
Siamo nel marzo del 1861.
La seguente frase che troviamo all’inizio non mi piace e la segnalo per indicare alcuni scivoloni in cui talvolta cade il Mastriani, giustificabili con la fretta con cui manda avanti il suo lavoro per necessità economiche. Nello scrivere del suo “La cieca di Sorrento”, se n’è già parlato. Questa è la frase incriminata, che avrebbe dovuto essere meglio costruita per toglierle la patina di un dilettantesco romanticismo: “Nessuna nube velava la malinconica luce dell’antica lampada sospesa da Dio nel mezzo della gemmata galleria del cielo.”. Ma, come abbiamo visto scrivendo dei precedenti romanzi, Mastriani ha di meglio da offrirci e i suoi meriti superano di gran lunga alcune sue distratte manchevolezze.
Il romanzo è condotto in prima persona e chi racconta era in quell’anno 1861 un caporale dell’esercito. Ci fa sapere, in sovrappiù, d’essere di natura nervosa e che “Tra un uomo nervoso e un matto non vi è altra differenza che il primo non sta chiuso in manicomio.”.
Una sera incontra quello che crede il fantasma di una donna: “Per me non vi era dubbio che una tomba si era aperta per metter fuori quell’abitatrice degli eterni dormitorii.”.
La fanciulla, dopo aver camminato con lui per qualche tratto, senza mai rispondere alle sue domande (si saprà che era muta), si mette improvvisamente a correre e si rifugia in un “vecchio palazzo dagli ampi balconi.”; “Prima che la misera fosse giunta a toccare l’ultimo di quei gradini, un uomo e una donna, che a me parve stessero fermati presso lo sportello del portone, si lanciarono su di lei, e ghermitala pei capelli, la trascinarono dentro, chiudendosi subito alle spalle lo sportello.”. Sapremo poi che l’uomo e la donna sono suoi fratellastri.
A questo punto, ci viene narrata la storia della fanciulla, che il narratore, il quale è lo stesso Mastriani, apprende da “una vecchierella che abitava in un ‘basso’ di fronte al portone e che mi sembrò un’annosa abitatrice di quel rione.”. Si tratta di Mariantonia che ritroveremo nel finale.
Nel palazzo vive una famiglia che l’autore si limita a nominare con la lettera K, “composta d’un vecchio vedovo ottuagenario confinato in una poltrona da numerosi acciacchi e di quattro suoi figli avuti da una prima moglie, un maschio e tre femmine, i quali erano già tutti in età avanzata.”.
Anche l’anziana donna aveva vista quella fanciulla l’anno prima, l’8 settembre del 1860, festa della Madonna di Piedigrotta, e Teresa, una delle figlie dell’ottuagenario, di nome Epifanio, le aveva svelato che “quell’apparizione non era stato altro che l’anima della buona e devota Filomena, morta per l’appunto la sera dell’8 settembre, due anni fa.”.
L’autore ha innestato la marcia della nostra curiosità. È o non è un fantasma? Si tratta di Filomena o di un’altra?
Si sa, al momento, che di lì a poco la famiglia K si trasferisce altrove e la vecchierella non sa dire al nostro protagonista il nuovo indirizzo, che le è sconosciuto.
Dunque?: “Io avevo perduto ogni traccia della strana fanciulla.”.
Faccio notare che la lettura di questo romanzo è interessante poiché ci permette un confronto con l’omonimo lavoro scritto nel 1896 da Carolina Invernizio, l’altra autrice di cui ci occuperemo in questa limitata rassegna che riguarda i due maggiori interpreti della letteratura gotica in Italia.
Il protagonista narrante, ossia Mastriani, viene a sapere l’anno successivo “che una giovinetta di civile famiglia era stata trasportata come morta al camposanto di Poggioreale, e che era stata esposta nella sala di osservazione per alcuni segni che avesse dati di non essere veramente morta come si credeva. La mattina appresso, i monaci addetti allora al servizio del nostro cimitero entrarono nella sala di osservazione col custode del luogo, e non trovarono più la morta al suo posto.”.
Scopre che il suo nome è Eva K., ed ha 20 anni.
Ci si domanda: Ci troviamo di fronte ad un caso di morte apparente o di un fantasma?
Una sconosciuta, Matilde, ci dà una mano. Si presenta in casa di Mastriani e gli mostra una lettera, ancora rimasta segreta; trovata in casa di un suicida, Isidoro Baldini, abitante vicino al palazzo della famiglia K. Nella lettera sta scritto: “Uccisi l’anima della mia Eva, ed oggi uccido il mio corpo!”. Il suicidio dello scrivente era avvenuto un anno dopo, il 24 settembre 1862. Sul suicidio in genere, Mastriani farà dire a uno dei suoi personaggi, verso la fine del romanzo: “Il suicidio, secondo me, non è un atto di follia, ma è un delitto capitalissimo quando uno lascia dietro di sé un dolore inconsolabile.”.
Non ci sono più dubbi, dunque? Quell’Eva è la stessa fanciulla apparsa all’autore?
E che cosa significa: “Uccisi l’anima della mia Eva”? Che non è stata uccisa nel corpo, ma solo con la mortificazione dello spirito? Solo così si potrebbe spiegare la diceria secondo la quale la giovane era scomparsa dalla camera mortuaria in cui era stata trattenuta in osservazione. Dunque, non morta nel corpo.
Ma il nodo non è ancora sciolto.
Ci aiuta Padre A., il superiore dei cappuccini, presente il giorno dell’inumazione della salma di Eva: “Prima di chiudere per sempre nelle viscere della terra quel caro visino di fanciulla, di cui ogni traccia si sarebbe perduta per sempre, io volli contemplare per l’ultima volta quel giglio reciso innanzi tempo.
Avvicinai al volto della morta il mio lanternino e… Altissimo Dio!… gli occhi di quella fanciulla si aprirono in tutta la loro larghezza.”.
Poiché gli occhi tornano a chiudersi, la salma viene posta in osservazione, e già sappiamo che, quando andranno a controllare, la fanciulla è sparita.
L’io narrante ne fa un caso personale e si mette a cercarla.
Si sa, intanto, che Eva, rimasta incinta (di ciò, però, i familiari non sapevano), era stata sottoposta ai più terribili maltrattamenti dalla famiglia, e a causa di tante cotali torture aveva perduto il figlio e perduta anche la parola. Era dunque muta.
Qualche anno dopo, l’autore si trova a Capri per scrivere un libro sull’imperatore Tiberio, che di Capri aveva fatta la sua abituale dimora. Fino ad allora le sue ricerche erano state vane, e era quasi per rinunciare alla ricerca. Segnaliamo una osservazione che ci è piaciuta. Nella traversata da Napoli a Capri, che occupò nove ore dato che, non essendoci vento, la barca a vela fu spinta dai soli remi dei due marinai, si era messo a leggere un libro che, dopo una ventina di pagine, getta in mare. Il motivo?: “Quel libro aveva il più grave difetto che possa avere un libro: era noioso.” Lo tenga a mente, perciò, quel lettore che, sollecitato dalla bravura del Mastriani, si desse alla scrittura. Cadere nella noia, si ha soprattutto quando si vuole scrivere e non si hanno le idee necessarie.
Nell’albergo dove si ferma per i suoi studi, dà una scorsa al registro dei clienti e trova un nome che lo incuriosisce, Ceniza, che in italiano significa Cenere (il romanzo uscì, con il titolo “Cenere o la sepolta viva”. Più avanti troveremo anche un accenno alla celebre Cenerentola). Un nome o un soprannome che gli desta curiosità, avendo a che fare con la morte.
Si tratta di una bella donna, accompagnata da un signore che gli dicono essere molto ricco. Quando la vede è preso da meraviglia; quella donna è la sua Eva, la fanciulla che gli era apparsa in quel lontano marzo del 1861. Coglie con ciò l’occasione per fare una confidenza al lettore: “La prima cosa che guardo nella donna sono le mani; quindi avrei dovuto cominciare da queste.
Difatti, lasciatemi vedere la mano di una donna ed io vi dirò che donna è.
Nella mano della donna è il suo cuore.
L’occhio della donna è la tentazione; ma la mano è il peccato.
Nell’occhio della donna può essere l’angelo, ma nella mano è sempre il demonio.”.
La lettura di questo romanzo ci fa capire anche che l’autore ha una particolare sensibilità per la donna, che arricchisce di ogni umore: “Così sono fatte queste care costolette dell’uomo.
Prendete una libbra di vanità, mezza libbra di curiosità, quattro o cinque once di gelosia, un pizzico di furberia, sei grammi di simulazione, e una buona dose di amore più o meno lambiccato; ed avrete chimicamente analizzata la donna. Con tutto ciò, essa è sempre la più bella delle cose create.”.
A quell’incontro, si aggiunge un forte indizio. Allorché la donna lo guarda: “Io non so che impressione le dovetti fare perché ella mutò in un attimo colore, e la rosea tinta che l’animava sparì del tutto. Si fece bianca come il tovagliolo che teneva in mano in quel momento.
Durante tutto il resto del desinare, i suoi occhi furono sempre inchiodati su di me.”.
Ceniza, contrariamente alla donna di quell’incontro lontano, non è però muta, tanto è vero che lo prega di incontrarla l’indomani mattina per un colloquio, che l’autore accetta con somma gioia.
Nella notte non riesce a dormire e pensa a lei, che ha tutta un’aria spagnolesca, e gli sovviene che anni prima aveva conosciuto una prostituta spagnola che le rassomigliava (e anche su questo scoprirete nel finale la consonanza).
Forse, dunque, non è Eva, che è muta, mentre Ceniza ha il dono della parola?
Viene in mente il celebre film di Alfred Hitchock, “Vertigo. La donna che visse due volte”, del 1958, con una straordinaria Kim Novak: “Dormii un’oretta, e sognai Eva, Ceniza, la spagnola dell’ufficio sanitario; e questa strana triade si confondeva nella mia mente in una sola persona.”.
Ceniza gli si rivela: è proprio lei, Eva, e gli confida che a lui, all’incontro di quella notte, deve la vita: “Il vostro volto mi restò così saldamente impresso nell’animo, che io vi avrei riconosciuto anche se fossero trascorsi cinquant’anni. A voi debbo la vita.”.
Ce ne sarebbero di domande da fare a questo punto!
Ma ci pensa la donna a spianarci la strada, la quale si meraviglia che l’autore sappia così tante cose di lei. Ma non le altre che qui importano e che si accinge a raccontare (ricordiamo che siamo a Capri e il racconto è narrato su quella bella isola), dopo aver presentato a Mastriani il suo compagno, Giorgio Parral y Prado, un ricco costaricano.
Il quale, il 21 dicembre 1862, viene attratto da un quadro raffigurante una fanciulla. Lo acquista e si mette in testa di cercare il soggetto del ritratto, verso il quale prova un forte sentimento di attrazione.
Una sera, il 7 febbraio 1863 avviene l’incontro. A narrarlo è Eva-Ceniza.
Questo incontro, però, abilmente il Mastriani ce lo fa sospirare, mettendolo in attesa e offrendoci, nell’intervallo, altre notizie minori. È una tecnica cara al noir, e già abbiamo espresso le qualità di questo scrittore dimostrate pel genere. Così termina la breve sospensione: “Passo rapidamente sui nostri discorsi poco importanti, poiché mi immagino che i miei lettori siano impazienti di ascoltare la storia di Ceniza, come lo ero anch’io.”.
Nata nel 1842, subisce continuamente, sotto gli occhi impotenti e disperati della mamma Elisa, la violenza delle sorellastre (Teresa, Alfonsina e Giuditta, tanto più avanti negli anni rispetto a Eva – la quale ne farà efficaci e crudeli ritratti) e del fratellastro (Federico, un carattere violento), avuti dal padre Epifanio col primo matrimonio con Giuliana: “Ricordo che io aveva sempre paura di tutto e di tutti, tranne della mamma. Erano così frequenti in quella casa le scene di violenza, ch’io tremavo ad ogni voce che si alzava, ad ogni rumore che si faceva, ad ogni passo concitato che udivo alle spalle; sicché le febbri, che assai spesso mi mettevano il freddo nelle ossa e l’arsura del petto, erano la conseguenza di quelle perpetue paure che investivano la povera anima mia.”.
L’autore dedicherà a queste violenze domestiche varie pagine, talché il lettore ne uscirà con una desolata compassione verso la povera Eva: “Per parecchi giorni io non uscii dalla stanza dei miei genitori entrambi ammalati, il babbo per il malore che per poco non lo aveva ucciso e la mamma per le crudeli battiture che l’avevano tutta pesta e malconcia.”.
Il lettore troverà incisive le descrizioni delle cattive sorelle, brutte nel corpo come nell’anima, che inducono Mastriani a questa pietosa considerazione: “La donna è nata per amare; e, quando a questo destino essa viene sottratta o di per sé si sottrae, la natura si vendica gettando una prematura vecchiaia là dove il sangue ribollirebbe per fresca stagione di vita. La donna a cui è interdetto l’amore per colpa di matrigna natura, per tirannia domestica, o per volontario suicidio del cuore, è pianta che si dissecca ben presto e che più non dà fiori se non di sepolcro. Levate l’amore dal cuore della donna, e di quella rosa divina non restano che le spine.”.
Il ritratto della famiglia continua con la descrizione delle figure del padre Epifanio e delle sue due mogli, Giuliana e Elisa.
Sappiamo che Epifanio era un uomo istruito e di fiducia presso la corte di Gioacchino Murat, nuovo re di Napoli: “che lo ebbe a cuore per la sua grande onestà e perché parlava e scriveva correttamente oltre all’italiano e al francese, il tedesco e l’inglese.”.
Sposa Giuliana, “ch’era stata sua cameriera.”, la quale si rileva una despota: “Poco buona massaia, se non vogliamo dire dissipatrice, la moglie di mio padre gittò presto costui nei debiti, facile sorgente di rovina per le famiglie.”.
Dà alla luce i pessimi figli che abbiamo conosciuto, che il padre non riuscì a domare per il suo debole carattere né riuscì alla madre tanta era la loro naturale perversione, e muore nel 1836 a causa del colera. Il padre, pur indebolito e malato, amante dei piaceri e massimamente delle donne, fu convinto dal medico e dal prete, a rimaritarsi, ma incontra la decisa contrarietà dei figli scellerati, che non volevano in casa un’estranea ad ostacolare i loro intrallazzi. Nonostante ciò, a 57 anni si sposa addirittura con una giovane di Salerno, molto bella e con una ricca dote di ventimila ducati, di cui Eva mostra il ritratto: “Era davvero una bella e gentile donnina”. Così commenta la fanciulla: “Povera donna, che destino fu il suo! che misera vita trasse in quella scellerata famiglia! Povera madre! Ed io non so neanche dove riposano le sue ossa! Quando morì, i perfidi figliastri rinchiusero il vecchio babbo in una stanza e me in un’altra; e come venisse mandata al sepolcro quella loro vittima e dove gettato a marcire il misero corpo mai non mi fu dato sapere.”.
Tutto cambia, infatti, quando Elisa, entrata come matrigna in casa, resta incinta e scombina i piani dei quattro scellerati, i quali avevano fatto conto di ereditarne la dote, che la nascita di Eva avrebbe compromesso. Cercarono perfino, ma invano, di convincerla ad abortire, e allora: “Più non si studiarono di dissimulare il feroce loro odio, e per ogni verso cercarono di abbeverarla di tanto fiele che potesse la sua salute esserne danneggiata in guisa da attraversare o sconvolgere l’opera di natura e distruggere l’odiato frutto che ella recava nel grembo.”.
Quando nasce Eva, “in una fredda notte del gennaio 1842”, si moltiplicano i soprusi sulla madre e sulla figlia, con acida e stizzosa cattiveria.
Il romanzo ora è in mano ad Eva che racconta la sua storia e quella della sua famiglia giorno dopo giorno, con puntate che costituiscono ogni volta un capitolo, ciascuno dei quali si annoda al successivo, così che la lettura resta massimamente attrattiva, grazie a questa tecnica non nuova ma che richiede in chi l’adotta abilità ed intelligenza di scrittura.
Di Giorgio Parral sappiamo poco, se non che è ricco ed assicura a Eva-Ceniza una vita agiata e soprattutto serena. Di lui è interessante mettere in rilievo questa osservazione significativa del suo carattere che confida a Mastriani: “La vita è troppo calunniata, mio carissimo Mastriani. Non voglio dire con ciò che non vi siano su questa terra profonde miserie; ma non le ha fatte Iddio queste miserie Siamo noi che vogliamo cacciare la nostra mano nel meccanismo divino, e guastiamo tutto nella presunzione di accomodar tutto. Sciocchi e superbi! Il male è opera nostra, e noi ce la pigliamo con Domeneddio.”.
Leggete cosa scrive Mastriani sullo champagne, dopo aver detto che considera gli astemi che bevono solo acqua dei guastatori dell’allegria a tavola, dove deve primeggiare il vino: “Lo sciampagna è il vino che rappresenta a capello la Francia che lo produce: romore, schiuma, bei colori, grazioso sapore, ma zero sostanze.”.
Dal prosieguo del racconto, sappiamo da Eva degli insulti che giornalmente erano lanciati contro la madre, ormai consumata da tali perfidie, tanto che la si faceva perfino passare per l’amante di padre Anselmo, che frequentava la casa per amoreggiare con Alfonsina, una delle tre sorellastre, che rimarrà incinta e di nascosto affideranno il neonato ad un orfanotrofio: “… una notte… un involto partì per la santa casa dell’Annunziata…”.
Ecco qui un esempio d’insulto: “Lascia, lascia pure i tuoi ducatoni a quella brutta scimmia che uscì dal tuo ventre. Ma sappi ch’essa non li godrà i tuoi ducatoni perché quando tu sarai crepata, come speriamo tra poco, noi seppelliremo viva cotesta tua cagna, aspettando il giorno in cui la manderemo a ritrovare le tue fetide ossa nel cimitero delle Fontanelle, dove si gettano ogni anno i carri di ossa fradicie. Sappi che noi tormenteremo fino a morte cotesta tua Eva che chiameremo Cenere, perché la condanneremo a star sempre con la faccia nella cenere.”.
La madre non potrà resistere alle violenze e alle ingiurie rivolte a lei e alla figlia, e muore, dopo aver fatto pervenire a Eva un pezzo di carta nascosto in una calza in cui sta scritto di un testamento segreto in cui la nomina erede della sua dote maritale di ventimila ducati. Questo testamento, una volta rinvenuto da Eva, cadrà nelle mani dei fratellastri che lo distruggeranno e, grazie ad una meschina collaborazione di padre Anselmo, ne sarà presentato uno falso a svantaggio della ragazza.
Esclama Eva tra le lacrime: “Oh quanto è cieca la giustizia umana! E non sapete voi, signori magistrati, che nel seno delle famiglie si commettono ogni giorno esecrabili omicidi senza che una goccia di sangue si sparga, e avvelenamenti che rodono il cuore senza un milligrammo di arsenico o di stricnina? Non sapete, o fingete di non sapere che un numero infinito di vittime innocenti sono tratte alla tomba dalle domestiche tirannidi?”.
Sono numerosi questi interventi che vogliono collegare il romanzesco alla realtà.
È ancora Eva: “Ma questi ribaldi che uccidono con la certezza della impunita non sperino di sfuggire all’occhio di quella giustizia che legge nel pensiero del malvagio e registra nel libro eterno tutti i drammi della umana vita. E Dio non ha bisogno di testimoni e di prove. La sua mano raggiunge il malfattore ovunque mova il passo e ovunque nelle mille distrazioni egli cerchi di scansare l’incontro e la voce di quel testimone che gli ha messo nella coscienza.”.
Morta la madre, Eva viene rinchiusa in una buia cantina (dirà: “Per oltre venti ore era immersa nelle tenebre.”) e lì tenuta come una sepolta viva: “La conigliera non era più larga di due metri e non più lunga di quattro, e la sua altezza era tale che il mio capo toccava il soffitto; sicché, come io andavo crescendo di statura nei sei anni di agonia che trascorsi in quella tomba, mi si rendeva sempre più difficile e dolorosa la posizione verticale, e negli ultimi tempi me ne stavo quasi sempre in letto.”; “Rabbrividisco ancora pensando che la notte, quando vinta dalla stanchezza mi gettavo sul letto per dormire, mi sentiva correre per la faccia e per tutta la persona scarafaggi e topi, i quali avevano acquistato tale dimestichezza che non li spaventava nessun mio movimento.”.
Per non dire dei terribili incubi che le prendevano nel sonno: “Il mio covile si popolò di orridi mostri dalle strane forme, ciascuno dei quali era, per così dire, l’esecutore d’un supplizio diverso. Ma tutti questi mostri avevano più o meno le sembianze di Teresa, di Alfonsina, di padre Anselmo. E gli uni mi abbruciavano le carni con tizi ardenti; gli altri mi fendevano il seno con unghie adunche; alcuni stretti alla mia bocca mi succhiavano il sangue; altri mi battevano sul capo con fieri colpi di mazza.”.
Scopre che una povera giovane, malata di tisi, Filomena Esposito (l’abbiamo già incontrata come oggetto di dicerie popolari che vedevano ogni tanto il suo fantasma), sale e scende ogni giorno le scale, a segno che abitava al piano di sopra; così un giorno riesce a parlarle e le racconta la sua storia. Filomena si commuove e promette di aiutarla in qualche modo. Filomena è una giovane trovatella, rimasta vedova, che si guadagna il pane “cucendo biancheria, o guanti, e guadagnava con quel mestiere appena tanto da potere con grandissimo stento e molte privazioni pagare la pigione e sostentarsi e vestirsi.”. Morirà l’8 settembre del 1858.
La commovente figura di Filomena ha, nelle mani di questo autore, il valore di una resurrezione, che segue sempre ad una vita di sofferenza. La serenità di questa sfortunata e il grande amore che si annida nella sua anima, sono come la fiamma che arde perenne a sostegno del divino che è in noi.
Morta Filomena, riprendono gli sconforti, le paure e le sofferenze di Eva. Fate conto che queste parole messe in bocca a Eva siano state profferite dal Mastriani, che in questo modo ha voluto implicitamente rappresentarci il suo pensiero: “Vi sono senza dubbio grandi, belle, nobili eccezioni della schiatta di Adamo; ma la razza è pessima, e Domeneddio non ebbe torto pentendosi due volte di aver creato l’uomo, che una ironica espressione della Genesi dice creato ad immagine e similitudine di Lui. L’uomo è l’Attila della creazione, è il flagello delle opere di Dio; egli guasta il mirabile congegno dell’ordine morale di questo mondo; si arroga diritti che non ha; il più forte scavalca il più debole; mette il cervello a tortura per inventare nuove armi omicide e perfezionare di più quelle che ha già messo in uso; chiama civiltà la ripulitura dei vizi antichi e l’arte sopraffina di canzonarsi a vicenda; spoglia legalmente il suo simile col codice civile, e lo impicca giuridicamente col codice penale: ludibrio di se stesso nella scala degli esseri organizzati. Occupa un posto distinto e privilegiato: è un animale che ride.”.
Succede che la minore delle sorelle, Giuditta, un giorno va a trovarla di nascosto e le confida la sua amarezza per la sorte che è toccata alla sorellastra e vuole aiutarla a fuggire: “Piglia il volo, via povera sorella, e, quando sarai felice, ricordati che Giuditta non ti odiò come ti odiano Federico e le altre due. Dammi un bacio.”.
Anche questa svolta di Giuditta ha un significato, e pare voler apparecchiarci proprio una delle eccezioni che possono aversi nella generale cattiveria del genere umano.
Però Eva rifiuta. Il motivo? Si è innamorata di un giovane con cui di notte, quando esce dalla sua prigione, conversa. Si tratta di Isidoro Baldini che già abbiamo incontrato e che lascerà scritto, prima di suicidarsi, di aver ucciso l’anima di Eva.
Eva non è propriamente sicura (ma sbaglia; lo vedremo verso la fine) che Giuditta voglia compiere un gesto di amore nei suoi confronti e dubita di un tranello: “Benché molte ragioni abbia avuto in seguito per supporre che un tradimento si nascondesse in quella falsa pietà, purtuttavia l’animo mio rifugge ancora dall’ammettere tanta scelleraggine; ed ho sempre voluto ritenere la Giuditta meno perfida delle altre mie sorelle.”.
Come vedete, gli elementi di un noir permangono, e dobbiamo anche dire che in questo romanzo la rotondità e la leggerezza della scrittura, lo sono in maniera prepotente.
Isidoro è nativo di Lecco, ma, essendo un pittore, è stato attratto dalle bellezze di Napoli: “Dacché ti ho veduta, mia Eva, io mi sento meno infelice; ma se tu sapessi quanto è scuro il mio cuore! Mi ero slanciato nella vita col più confidente abbandono e con la fede in Dio e nella virtù. Ma non tardai a comprendere che Dio è un mito inventato dai preti e dai re della terra per imporre il loro dispotismo alle mandre umane, e la virtù è un parolone inventato dai poeti per eludere la fame.”.
Malinconia e scetticismo paiono dominarlo.
Si vogliono bene: “Se il mondo fosse crollato e precipitato, noi non ce ne saremmo accorti.”.
Una sera Isidoro le mostra un ritratto in cui la raffigura; è bello ed estremamente somigliante. Ma subito le confida che vuol tenerlo per sé, per averla sempre vicina. È il ritratto che vedrà Giorgio Parral y Prado, e che lo affascinerà al punto che si metterà in cerca di Eva, trovandola infine.
Isidoro, però, dopo circa due anni, pare stancarsi di lei, che nel frattempo è rimasta incinta e teme il trascorrere del tempo, che svelerà la sua colpa ai fratellastri: “Prima che il termine da natura assegnato fosse giunto, era forza o che io portassi altrove la mia vergogna o che io morissi.”.
Non solo sepolta viva ma anche fustigata dal destino nella ricchezza più doviziosa che possa trovarsi sulla terra: l’amore: “Oh gli uomini! Essi non sanno l’inferno in cui lasciano il cuore di una povera fanciulla, alla quale con le arti della più scellerata seduzione hanno carpito la estrema prova di amore. Quando essi hanno soddisfatto i loro sensi, quando hanno vinta la debole resistenza della donna, si distraggono in altre cure e in altri piaceri, vanno alteri del loro trionfo e tutta la società li assolve, anzi li applaude; e tutt’i dolori, tutta la vergogna, tutti gli anatemi ricadono sulla vittima e un’esistenza di donna è stritolata per sempre.”.
Eva riceve una lettera da Isidoro, dai toni freddi, e si mette in allarme e pensa alla sua probabile e imminente sventura. Infatti, la notte, uscendo dalla sua prigione, vede la luce accesa nella camera di Isidoro. Dunque, egli, andato a Salerno, era tornato a Napoli senza dirle niente e la lettera, non affrancata, quasi certamente era stata messa sotto la sua porta da lui stesso. Ma succede che, una volta sul terrazzo, è vista da Mariantonia, la vecchia che era andata a vivere nell’appartamento che era stato di Filomena, la giovane morta di tisi. L’indomani la donna domanda a Teresa chi sia quella fanciulla intravista nella notte. Teresa, immaginando tutto e per non scoprirsi, inventa a Mariantonia la storia del fantasma di Filomena, alla quale la vecchia crede.
Nessun fantasma, dunque. Filomena è morta per sempre.
È invece Eva che deve fare i conti con la vita. E infatti pochi giorni dopo, Federico e le sorelle irrompono nella tana in cui sta rinchiusa e la riempiono di botte allo scopo di sapere come ha fatto a uscire di là. La percuotono con pugni e con uno spillone la feriscono più volte alla pancia ed ella perde tanto sangue e sviene. Non sapendo della gravidanza, e vedendo tutto quel sangue e la fanciulla che non dà segni di vita, la credono morta. Eva, per le violenze subite perde anche la parola, oltre al figlio: “Più tardi mi accorsi che sotto la convulsione avevo perduto l’uso della favella.”; “Divenni muta, e così voi mi trovaste la sera del 21 marzo 1861 sul corso Vittorio Emanuele.”.
Dopo questo lungo racconto, svoltosi in più giornate sotto il bel cielo di Capri, abbiamo in parte colmato il vuoto che ricopriva il passato di Eva.
Ma ancora ci resta di conoscere come Eva riacquistò la parola.
Mastriani dedica altre giornate all’ascolto della donna e si giunge dunque al giorno (“fui creduta morta verso gli ultimi giorni dell’anno 1862, tre mesi dopo il suicidio di Baldini.”) in cui si risveglia dalla morte apparente, ormai vicina alla sepoltura: “Quando apersi gli occhi e riacquistai il sentimento, mi vidi coricata in una bara, in un lungo stanzone rischiarato appena da una fiochissima lampada sepolcrale.”; “… mi levai vacillando dalla bara e, uscita da quello stanzone mortuario, tentai la via tra i cipressi e le tombe.”; “Ero stata cancellata dal numero dei viventi e iscritta nel registro della morte: ero dunque una evasa dal sepolcro, una intrusa tra i vivi.”.
Incontrata una certa Luisa, la poveretta si ritrova in una casa di tolleranza e sottoposta a quel lavoro. Eva, a questo punto, non ha la forza di continuare il racconto e lascia che a proseguire sia Giorgio.
È il momento in cui anche la figura di questo personaggio, che, in silenzio, è stato presente alla narrazione condotta sino ad allora da Eva, viene più compiutamente descritto. È molto ricco, e amante delle donne. Giunge in Europa con lo scopo di godersi la vita nelle migliori e più eleganti capitali. Uno dei suoi principali desideri è visitare Napoli, nota nel mondo per il suo clima e la sua bellezza. Vi giunge e vi si trova a suo agio.
La descrizione che Giorgio fa della città è una delle più efficaci mai lette. Un’autentica Napoli ottocentesca: “Trovai che Napoli non è inferiore alla sua fama; è una città unica al mondo per la dolcezza del clima e per la bellezza del suo paesaggio. Sulle prime fui stordito dal baccano che vi si fa nelle strade: si direbbe la città dei sordi; tutti gridano; si vende gridando, si parla gridando, in modo che dall’ultimo piano si sente quel che si dice in istrada. La popolazione di questa città fa spavento; e nessuno dei suoi cinquecentomila abitanti se ne sta in casa, tranne che non sia gravemente infermo. Tutti sono in istrada; dove si fa tutto quello che si farebbe in casa. Nella pubblica via si mangia, si beve, si curano i bambini, si pregano i Santi, si scrivono lettere, si dorme, si fa all’amore, si canta, si suona, si giuoca, si balla, si vende e si compra, si ottempera a tutti i bisogni della natura; e vi si gode insomma di tanta libertà che l’eguale non esiste in tutto il mondo. È una città ammirevole pel suo brio.”.
Giorgio ricorda del quadro che Isidoro aveva dipinto in cui raffigurava Eva. Di questo ritratto si era innamorato e lo acquista, mettendosi subito in cerca del soggetto, convinto che sia una donna reale: “S’ella è una sventurata, quanto sarei ancora più felice di tergere le sue lacrime e schiuderle un avvenire cosparso di rose!… In quale paese si trova? È libera ancora o maritata? A che famiglia appartiene? Quali sono le condizioni di sua vita?”.
Accade che un amico gli parla di una giovane muta incontrata nella casa di tolleranza e, incuriosito, Giorgio vi si reca, e quale è la sua meraviglia nel constatare che quella fanciulla è la donna del ritratto: “Che destino! Dopo tanti anni, dopo aver corso il mondo, io trovava finalmente il mio ideale in quelle condizioni!”.
Il personaggio appare ormai definitivamente come simbolo ed espressione della Provvidenza che interviene nei confronti di una vita sfortunata e miserabile, che ha colpito una fanciulla che ben altro avrebbe meritato. Spesso non v’è rimedio alla caduta, ma Mastriani è troppo immerso nella fede cristiana per non salvare un’anima. Dirà Giorgio, quando ricorda il suicidio di Isidoro Baldini: “D’altra parte non si direbbe che il ritratto di Cenere egli lo facesse per me?”. E ancora Giorgio, riferendosi a Cenere: “… le cui sventure han trovato nel mio amore quel compenso, che Dio sa concedere a quelli che molto soffrirono e molto amarono.”.
Giorgio la ritira da quella casa e le dà un nuovo nome: “La chiamai Ceniza, cioè Cenere, come la chiamavano le sue carnefici nella casa paterna. Era sempre un nuovo battesimo, una rigenerazione: non era più né Eva né Cenere.”; “Bisognava ch’ella non fosse neanche più la Muta. La feci visitare dai più abili medici di Milano: uno di questi mi promise che avrebbe ridonata la favella alla mia cara Ceniza, e mantenne la parola.”.
Resta ancora una domanda, poiché l’autore ha risposto ai tanti interrogativi disseminati in questa storia, che è riuscita a dipanarsi piacevolmente mantenendo inalterate la nostra curiosità e la piacevolezza della lettura: Giorgio e Ceniza sono sposi? No, poiché Ceniza non è ancora pronta, mentre lo è lui, bramoso di offrirle una nuova vita La risposta è messa in bocca a Giorgio: “È necessario che il tempo cancelli interamente il ricordo della Muta. Ma io affretterò questo tempo, e forse più di quanto ella possa immaginare.”; “… una curiosa difficoltà al mio matrimonio sarà quella che io dovrò sposare una morta. Eva K… è registrata come morta; ma il danaro schiude anche le tombe, ed un mezzo milionario può sposare, se gliene salta il ticchio anche una morta.”. Si sposeranno.
Alcune altre curiosità contenute nella Conclusione, il lettore le scoprirà da sé.
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