LETTERATURA GOTICA: Francesco Mastriani: “La Medea di Porta Medina”
14 Settembre 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Il romanzo è del 1881.
L’incipit merita la citazione: “Verso i principii di questo secolo, alle mura di Castel Capuano o della Vicaria, come più comunemente dicesi dal nostro popolino, dalla parte che risponde alla cappella in cui venivano rinchiusi i condannati a morte, si vedevano esposte sei teste di afforcati.”.
Sono le teste di sei terribili assassini, tre donne e tre uomini.
Il romanzo si interessa di una di queste donne, Coletta Esposito. Trovatella (“era stata gittata nella famosa Buca la sera del 5 marzo 1774”), viene presa in moglie da “un certo Nunzio Pagliarella”, rigattiere “in fama di pessimo arnese”, “un ometto col viso tutto brizzolato di bollicole e pustole e col naso mangiato nelle amorose campagne, con un fulvo parrucchino in capo con l’appendice del codino, con due grosse gambe storte e marciose e con una indecente ventraia.”. Guarito dalla lue, mantiene la promessa fatta alla Madonna di sposare una delle trovatelle (“figlie della Madonna”) rinchiuse nella Santa Casa dell’Annunziata, ed esposte ogni anno, il 25 marzo, giorno dell’Annunziazione, al fine delle nozze.
Il cognome Esposito era comune a tutti i trovatelli.
Coletta aveva cercato di respingere il pretendente Nunzio.
Da subito capiamo che dovremo tenere d’occhio una certa dama che fa la sua comparsa all’improvviso, di cui ancora non si sa il nome, che cerca di evitare il matrimonio con il malaticcio e storpio Nunzio, e offre a Coletta di fare la domestica a casa sua, o in alternativa accettare una dote di mille ducati in caso di scelta delle sciagurate nozze: “Non mi sento di fare la serva. Accetto la dote, e sposerò il vecchio, purché questa dote sia a titolo di donazione a me fatta e della quale io possa liberamente disporre a mio piacimento.”.
Alla vista dei mille ducati, ecco che Mastriani ci dà un segnale e un più che esplicito avviso con questa descrizione: “Gli occhi di Coletta brillarono di fosca luce alla vista di quell’oro; e uno strano sorriso le balenò sul labbro.”.
Alcuni giorni dopo la Pasqua del 1792, si celebrano le nozze: “La sposa avea diciotto anni; lo sposo, sessantaquattro.”.
Volete sapere come trascorse la prima notte di matrimonio? Male, malissimo, e si può dire che non ci fu. L’avvertimento di Coletta fu più che esplicito e definitivo: “Senti, brutto vecchio infistolito, carogna fradicia di orangotango, se tu ardisci di mettermi addosso le tue mani schifose o di toccarmi un’altra volta il viso con quel tuo muso di porco ti giuro per la Madonna dell’Annunziata che io ti strozzo con le mie mani e ti caccio fuori cotesti tuoi occhi ripieni di caccole. Ah! tu ti pensi che io ti abbia sposato veramente, e che tu possa fare di me il tuo piacimento! Puh! per la faccia tua fetente, ti voglio far pagare ben caro la vergogna che tu mi fosti cagione nel mezzo delle mie compagne quando ti colse il prurito di lanciarmi addosso il tuo fazzoletto [era il segnale della scelta]. Io non so chi mi tenesse allora che io non ti mettessi le mani al collo e ti strangolassi, od almeno che io non ti sciupassi cotesto sucido parrucchino che ti copre la zucca. Sappilo una volta per sempre, che io ti ho sposato per i mille ducati che mi dette quella signora, che certamente dovette essere la Madonna che ebbe di me compassione; ma non darti a credere che tu possa rappresentar mai a quattr’occhi con me la parte di marito, perché se ciò tu ti attenti di fare, ti sgraffio con le mie unghie tutte coteste bollicine che hai sul viso, e ti fo piovere sangue come un santo Lazzaro. Hai capito, buffone? Ora vatti a digerire il vino, e lasciami tranquilla, che io passerò qui il resto della notte; e domattina vedremo come si hanno da acconciare queste partite.”.
Una originale dichiarazione d’amore, che ci fa intendere l’indirizzo di questa storia, che sarà permeata di odio e di desiderio di vendetta.
E Nunzio?: “Nonostante la grande nebbia di vapori che il vino gli aveva offuscato la mente, ei capì di aver fatto una solenne bestialità, e che quella donna sarebbe stata il suo supplizio per tutto il resto dei suoi giorni.”.
Eccoci dunque apparecchiati alla lettura di una delle tante avventure disastrose che la vita riserva all’uomo.
Il fatto che sappiamo già che Coletta fu condannata a morte e la sua testa afforcata tra le sei esposte, non toglie l’interesse per questa sfida che quell’uomo, già definito “pessimo arnese”, si appresta a sostenere con una femmina in vena di dare battaglia, e battaglia grossa.
Quando Nunzio si rivolge al giudice di polizia per lamentarsi del rifiuto di sua moglie di adempiere agli obblighi matrimoniali, questi convoca la donna che risponde non solo a tono, ma subito dopo si reca presso la bottega del marito e: “Neh, brutto micco, tu sei ricorso alla polizia per dirle che io ti batto e mando a malora la casa, e che non voglio giacermi teco, come se una donna, che non sia la più putrida troia del ‘Cavalcatoio’, possa avere lo stomaco di giacersi con un fetente sbonzolato come te. E tu sei andato a sbrodettare li fatti nostri al giudice; e ti pensavi che io mi rammollissi per paura della polizia. Ora io voglio che tu ci torni con la faccia grattugiata a sangue e faccelo sapere al signor giudice. To’, piglia qua.”.
Notiamo subito una scrittura adoperata al meglio e i dialoghi intrisi di una efficacia popolana, pari alla realtà.
È evidente la perfetta conoscenza di Mastriani dell’ambiente che si accinge a narrare.
Coletta viene rinchiusa nel carcere di Santa Maria Agnone, ma la ignota signora che le aveva donato i mille ducati (sapremo che si chiama Cesarina) interviene e la fa scarcerare, accogliendola in casa sua, a Caserta, dopo che le ha strappato la promessa ch’ella non dica nulla a suo marito, “un ricco .proprietario della provincia di Terra di Lavoro”, e che assuma di essere la figlia di una sua amica, Albertina di Giovanni.
Così avviene.
È introdotto un nuovo personaggio, il giovane Cipriano Barca, il quale frequenta una bettola, il Giardinetto di Montesanto, condotta da un certo Si-Pasquale, prossima alle Carceri di Montesanto, a lato di Porta Medina, costruita dal viceré Medina nel 1640.
Essa è largamente frequentata: “Ne’ giorni festivi, col permesso del parrocchiano di Montesanto si ballava e si suonava nel ‘giardinetto’, beninteso donne con donne e uomini con uomini; e le comarelle vi danzavano la tarantella al suono di tamburi e di nacchere; e poi di là partivano compagnie di sfaccendati fanciulloni che formavano una orchestra di tofe, caccavelle, triccabballacche ed altri strumenti di questa fatta, di cui ci duole che la Crusca non abbia registrato i nomi.”.
Qui (è il 21aprile 1792), a seguito di una rissa, Cipriano viene ferito da due malviventi (addirittura i suoi amici più cari, Aniello e Tommaso, cognati tra loro) e ricoverato presso l’antico ospedale de’ Pellegrini, edificato nel 1589.
Si-Maddalena è la madre di Cipriano; tutte le sere aspetta il suo ritorno a casa. Anche quella volta. Leggete questa bella descrizione che esemplifica una scrittura ottocentesca di gran pregio, per nitidezza e quieta rotondità: “Raramente incontrava che questi ritornasse a casa dopo la mezzanotte; e tutte le volte che ciò avveniva, la vecchia era in un’agitazione grandissima; e, aperto il balconcino che rispondea su la strada, non si muovea più di là, aspettando con viva impazienza il figliuolo. e ad ogni minuto che passava mille sinistri pensieri le si affacciavano alla mente, comeché ella sapesse che Cipriano veniva quasi sempre accompagnato a casa da due suoi amicissimi. Ciò non ostante, la vecchia biasciava paternostri e avemmarie per che la Madonna volesse scansare il caro figlio da ogni malo passo. E ad ogni pedata ch’ella sentiva venir su le rimbalzava il cuore; e prestava attento l’orecchio, perciocché ella non si sbagliava giammai nel riconoscere le pedate del figlio.”.
Ne approfitta per tracciare un elogio alla figura della madre, di cui si dà uno stralcio: “Se fosse lecito il prestare un culto a creatura mortale, soltanto alla madre, dopo Dio, si dovrebbe adorazione più che obbedienza e rispetto. E Domineddio perdonerebbe facilmente una così fatta latria, perocché adorare la mamma significa adorare Lui nella più sublime manifestazione del suo amore verso le creature.”.
Perché i due amici hanno aggredito Cipriano, e lo hanno abbandonato svenuto a terra? Perché questi si era lasciato sfuggire che teneva in casa mille ducati (gli erano stati consegnati da Coletta perché li facesse fruttare), e siccome il denaro corrompe ogni cosa, perfino l’amicizia, eccoli entrare con inganno in casa dell’amico, aggredire la povera e spaventata Si-Maddalena, la madre, e rovistare dappertutto onde appropriarsi del gruzzoletto. Lo trovano e, affinché non li denunciasse, strangolano la vecchia: “Il volto della misera era orribile a vedere: erasi fatto tutto nero; e gli occhi spalancati e iniettati di sangue erano pressoché usciti dalle orbite loro.”.
Dopo di che i falsi amici vanno a trovarlo in ospedale, fingendo di lagrimare sulla sua disavventura. Lui, che non nutre alcun sospetto, li prega di andarsi ad assicurare della madre e portarle la notizia che egli è vivo e ricoverato in ospedale, sì che gli rechi assistenza.
Entra in scena Lucietta, la sorella di Aniello, che va a trovare in ospedale Cipriano di cui è innamorata: “Lucietta era bellissima. Una chioma d’oro le coronava la fronte candida e pura, sotto la quale brillavano due occhi turchini sempre umidi per soverchia tenerezza di cuore. Avea forme di una perfezione artistica e una carnagione che vincea l’alabastro.”. Naturalmente non sospetta nulla del fratello e del cognato Tommaso, che è marito di Filomena, sua sorella e sorella di Aniello.
La signora che ha condotto Coletta nel suo palazzo di Caserta, si chiama Cesarina, figliola di “un Esente Proprietario delle Reali Guardie del Corpo. Ci si consenta il tacere il cognome paterno della Cesarina.”.
A 25 anni è andata in sposa a Rodolfo Molisi, un cinquantenne “ex militare ricco proprietario di quella provincia.”, Caserta: “Non era bella la Cesarina, ma avea uno di que’ corpi che sono impastati appositamente pel terzo peccato mortale. Alta, ben formata, con ricca chioma del più fulgido nero, con occhi languidi e appassionati, la signora avea quel bruno pallido, che accusa quasi sempre violente passioni”; “Se si fosse dovuto prestare ascolto a certe voci, forse un po’ troppo malediche, ci era da credere niente di meno che la pallida Cesarina figliuola dello ‘Esente’ delle Guardie del Corpo, fosse stata fatta segno all’attenzione di sua maestà o almeno di qualche altro altissimo personaggio.”. Il re di Napoli nell’arco di tempo del romanzo è Ferdinando IV, conosciuto anche come re Nasone.
Nel palazzo di Caserta si sta svolgendo la nuova vita di Coletta (ricordiamo, è importante, che è una trovatella) la quale, come si sa, ha cambiato nome di famiglia, ma non il nome di battesimo, che resta quello di Coletta per volontà di Cesarina ed ora risulta essere la figlia di certa Albertina di Giovanni. Ma non è mutato il carattere e, pur con il lusso che ha attorno, si sente prigioniera e pensa ad una vita diversa, da condurre insieme con Cipriano che ella sente di amare. Sa che il giovane a cui ha affidato i suoi mille ducati è amato da un’altra giovane, Lucietta appunto, e già pensa a come liberarsene.
Una protagonista egoista votata al male e a procurare la sofferenza al prossimo? Parrebbe di sì, e la sua terribile fine ci fa già presumere che assisteremo a fatti di rifinita crudeltà: “Ci era in questa donna, che doveva in giovane età esser condotta al supplizio delle forche per uno di quei delitti che fanno fremere la natura, ci era, diciamo, qualche cosa di straordinario, di non comune.
Un amatore di studii antropologici, di nazione inglese, comperò dal governo napolitano il teschio di Coletta Esposito, che era stato sospeso come accennammo, alle mura della Vicaria. Di fatti, il teschio di quella nuova Medea valea la spesa.
Ci era dello strano, dell’originale, del terribile in quel carattere. Coletta era un tipo di donna alla Shakespeare, alla Victor Hugo: ci era nel suo sangue la figlia di re e la prostituta: ci era qualche cosa della grandezza e della ferocia romana.” (ricordatevi nel finale queste parole).
Ce n’è già abbastanza perché la bravura di Mastriani ci irretisca.
Chi può mai essere questa giovane sventurata? Quali i suoi genitori? Forse Cesarina, donna dalle forti e incontenibili passioni, era sua madre? Forse il re era suo padre?
Del resto il ricco marito, Rodolfo Morisi, era da gran tempo immobilizzato nel suo letto: “Il signor Rodolfo aveva aspetto cachetico: le spalle erano coperte da uno scialle e il capo da un berretto di castoro a larga tesa. La pelle del volto molle e scolorata gli pendea, per così dire, senza forza vitale.”.
Finché confida alla sua protettrice Cesarina, la ragione del suo brutto carattere. Ella ama, non riamata, Cipriano, il quale invece ama un’altra donna, Lucietta.
Cesarina non è donna che disarmi: “O sventurata. Ma non bisogna disperare… Tuo marito Nunzio non potrà vivere a lungo; e, quando egli sia partito di questo mondo, non sarà difficile indurre il giovine Cipriano a sposar te. La promessa di un bello impiego che mi sarà facile di procurargli in sostituzione di quello meschino che occupa di presente, e una discreta dote che gli daremo per te, gli faranno dimenticare la sartina. Abbi fede nello avvenire, figliola mia; e confida nella mia affezione, che non ti verrà mai meno.”.
Eccoci offerta su di un piatto d’argento la prima parte della trama che mette a contesa due amori, uno possessivo e violento in capo a Coletta, l’altro umile e remissivo in capo a Lucietta. In mezzo sta l’intrigo, di cui si fa garante Cesarina, la benefattrice misteriosa.
Ed è nel palazzo di Caserta, dove Cesarina l’ha condotta, che una sera ode raccontare di un giovane ferito a Napoli e della morte procurata alla madre di lui. Capisce che si tratta di Cipriano e parte immantinente, con sorpresa di tutti che la credono impazzita, ma non di Cesarina, che le procura una carrozza per Napoli e la rifornisce di denaro.
Al momento della partenza si abbracciano e Cesarina ha le lagrime agli occhi, ciò che ci dà ulteriore segno di un qualche forte legame tra le due.
Come facilmente si immagina, giunta in ospedale e fatto capire a Cipriano del suo amore, entra nella camera anche Lucietta e avviene lo scontro. È il 23 aprile 1792: Mastriani ci tiene a farci conoscere alcune date in modo che il lettore si renda conto della caducità e inesorabilità del tempo e ne risalti la cronologia degli avvenimenti.
Quando Coletta se ne va, minaccia la rivale: “E, rimesso lo spillone nelle sue trecce, ricomposto lo scialle sulla persona, senza più riguardare in fronte a nessuno e neanche a Cipriano, con passo fermo e celere prese la volta dell’uscio…”.
Coletta e Cipriano hanno occasione di incontrarsi di nuovo al cimitero davanti alla bara di Si-Maddalena, la madre di lui. Vi si recava a pregare tutti i giorni (era trascorso un mese dalla morte della donna), sperando di essere veduta da Cipriano e con ciò attrarre il suo sentimento verso di lei. Non sbagliava, poiché dal momento dell’incontro Cipriano cambia parere su di lei e comincia a nutrire un sentimento di affezione.
La maliziosa strategia messa in atto da Coletta per conquistare l’amore del giovane, sarà bastevole? È la nuova curiosità che l’autore insinua nel lettore.
Quando Cipriano l’avverte che, Nunzio Pagliarella, suo marito sta facendo le pratiche per costringerla a tornare da lui e le consiglia di allontanarsi da Napoli, Coletta ne approfitta per negarsi alla fuga e dichiarargli che non potrà mai distaccarsi dall’uomo che ama: “Senti, Cipriano, io ho fermo di uccidermi perché questa esistenza mi è venuta odiosa; ma, prima di togliermi la vita con le mie mani, ucciderò la tua amante, la tua sartina.”.
Ci si domanda: A tanto può portare l’amore? Ed è questo l’amore?
Mastriani ci confida con ciò che nella vita si deve stare sempre in guardia dalle passioni, che possono mascherarsi con le sembianze del bene, come addirittura l’amore, per corromperlo e seminarvi il male.
Quella di Coletta è una passione violenta generata dalla cattiveria e dall’egoismo? Parrebbe di sì.
Ma Mastriani ci fa restare abilmente nel dubbio quando scrive: “Insomma, l’amore è ingegnoso; e Cipriano volea trovare buone ragioni per l’amore incipiente di che ormai si sentiva rapito per la bruna ‘figlia della Madonna’.”.
Si interessa presso un amico avvocato, Leopoldo Melori, perché accetti d’imbastire una causa di divorzio a favore di Coletta, e questi, chiedendogli notizie sul delitto accaduto a sua madre, si lascia scappare un suo convincimento, ossia che la polizia avrebbe dovuto cominciare le indagini con l’interrogare i suoi due più stretti amici, ossia Aniello e Tommaso: “Comunque Cipriano avesse rigettato un tal sospetto, pure ne rimase turbato e pensoso.”.
Coletta tanto fa che riesce a sedurre lo sprovveduto Cipriano: “Da’ capelli, dal collo e dal busto di Coletta partivano quelle esalazioni tutte particolari delle carni giovanili che abbrucia una fiamma d’amore.”; “Aggiungete che Cipriano era già mezzo cotto per la ‘Moretta’, per non dire tutto cotto, e, se primamente egli erasi innamorato del cuore della giovane, di presente i sensi erano in lui vinti da quella irresistibile seduzione.”; “Il fuoco che sprizzava dalle infiammate pupille della giovane distrusse ogni esitazione; ed egli giurò sull’anima di sua madre che non avrebbe più avuto attinenza veruna con la Lucietta.”; “… e l’uno nelle braccia dell’altro si abbandonò col delirio dei sensi e del cuore.”.
Si noti la facilità con cui la parola avvolge il contenuto. Grazie al Mastriani, si ha perfino la sensazione che questo linguaggio ottocentesco sia più capace di rappresentazione di quello dei nostri tempi.
L’incontro tra i due innamorati avviene il 29 maggio 1792 e vi troviamo una spia di quanto dovrà succedere. Riportiamo l’intera frase: “Pensa, Cipriano, che, se un giorno tu mi tradissi, io piglierei di te la più feroce vendetta – soggiunse quella donna, che fu poscia soprannominata La Medea di Porta Medina.”.
La Medea è un disperato personaggio della mitologia greca (tra tutte: la tragedia di Euripide. Nel 1969 Pier Paolo Pasolini ne trasse un film). Tradita da Giasone, uccise i figli avuti con lui. Non vi è nella mitologia personaggio più orribile.
Lucietta, insospettita dalla freddezza dei rapporti tra lei e Cipriano, lo fa pedinare (‘codiare’) da una sua collega di sartoria. Anche in questo caso può assumersi ad esempio la efficacia, il colore e la rotondità della scrittura: “E Lucietta, dando una monetina d’argento a quella fanciulla, le ordinò che seguitasse a codiare il giovine quando questi fosse uscito della chiesa. E la fanciulla si partì nuovamente per eseguire la nuova incumbenza.”. Oppure in quest’altro, di intrinseca bellezza e sintesi, e direi meglio, con un neologismo che mi sarà perdonato, succintosità: si parla di Filomena, la sorella di Lucietta: Essa non era bella come sua sorella Lucietta; ma avea natura più vantaggiosa, corporatura più grossolana e più ricca di muliebri forme.”.
Dobbiamo far notare al lettore che in questo come negli altri romanzi scopriamo, dalle numerose citazioni, che l’autore fu uomo di molte letture e molto sapere; ciò che ci rafforza nel convincimento che ci troviamo al cospetto di un rappresentante della nostra letteratura che dovrebbe avere maggior peso e considerazione, nonostante che alcuni difetti compaiano ogni tanto nella numerosa sua produzione.
Cipriano rassoda i suoi sospetti su Aniello e Tommaso poiché vede splendere sulla veste di Filomena, sorella di Aniello e Lucietta, un suo orologio d’oro sparito quel 21 aprile 1792, il giorno dell’assassinio di sua madre (Filomena erasi recata da lui per minacciarlo se avesse lasciato Lucietta per Coletta).
Aniello e Tommaso sono incarcerati in attesa di giudizio, nonostante continuino a proclamarsi innocenti, e anche le due femmine di famiglia, Filomena e Lucietta, vengono trattenute in custodia per ulteriori accertamenti.
Scoperti i colpevoli, liberatosi Cipriano di Lucietta, invaghitosi com’era di Coletta, messe in libertà le incarcerate innocenti Teresina e la madre Si-Vincenza, parrebbe che ormai la storia sia finita.
Ma Mastriani non è narratore da limitarsi ad un tale sempliciotto scioglimento, e dunque sono attese le sue nuove mosse, visto che sì e no siamo a metà del romanzo.
Una cosa è certa: egli furbescamente ci fa avvertiti della sua simpatia per Lucietta, vittima incolpevole di quanto accaduto.
Avrà degli sviluppi?
E Teresina, la giovane che è stata incarcerata senza colpa, concluderà qui la sua rapida apparizione? Ne dubitiamo, e con ragione, vedrete.
Intanto Cipriano, al fine di potersi incontrare con Coletta, affitta per lei un piccolo appartamento vicino a Porta Medina: “Di questa notizia fu lieta la giovane, perciocché in questa nuova caserella avrebbe avuto l’agio di ritrovarsi sempre sola col suo caro Cipriano.”.
Si può imparare a scrivere da Mastriani? Sì, lo si potrebbe addirittura considerare un maestro. Notate la elegante articolazione di questa frase (un esempio tra tanti): “Ferdinando IV avea quasi sempre al suo seguito il confessore ed il medico, avvegnaché mai non pensasse né alla salute dell’anima né a quella del corpo, massimamente quando si trovava nel mezzo della parte femminea della sua ‘colonia di San Leucio’.”.
Il suo periodare è musica, risponde a tonalità e tempi impressi da un abile e consumato compositore.
Cesarina è tanto legata a Coletta che conduce, lei e Cipriano, dal re Ferdinando IV, che si trovava a Caserta, per chiedere il suo autorevole intervento per l’annullamento del matrimonio di Coletta con Nunzio Paganella. Il re domanda come Cesarina abbia conosciuto Coletta e la donna risponde, lasciando un altro segnale all’attento lettore: “Perdoni vostra maestà; ma questo è per me un segreto sacrosanto, che io non posso rivelare neppure alla maestà vostra.”. Ma di tali segnali ne troveremo molti altri, e non occorrerà citarli tutti, se non, intanto, quest’ultimo. Sono parole che Cesarina rivolge a Coletta: “Spesso una tremenda necessità, l’onore di un casato, d’una famiglia, costringe una misera donna a respingere lungi da sé il caro frutto delle visceri sue; e questa povera madre è molto più infelice della sua creatura. Un giorno forse tu comprenderai quanto è possente l’amore di madre.”.
Coletta non si accontenta di essere presentata al re delle due Sicilie, e “guardava il re con occhio procace.”, e siccome il re amava in modo speciale le donne del popolo, non disdegnò quello sguardo. Così che, nel mentre donava a Cipriano duemila ducati “per sollevarlo nella disgrazia che ha sofferto”, a Coletta “concede l’onore di ammetterla a lavorare nella fabbrica delle sete di San Leucio.”. La quale decisione non va a genio a Cesarina.
Perché? Perché in realtà quella fabbrica era “un aremme, a cui egli aveva dato lo specioso nome di ‘Colonia’.”.
Si intravvede un nuovo destino per l’ambiziosa e cinica Coletta?: “Donna Cesarina sapea che quando sua maestà ‘Nasone’ gittava l’occhio su qualche gonnellino ‘extra-moenia’, dava l’incarico al Barone… di fare entrare quel gonnellino in una delle fabbriche della colonia di San Leucio.”.
Nel frattempo, Cipriano propone a Coletta di aprire un banco di cambiatora (cambiamonete) e lei accetta, mostrandosi poi capace di attrarre clientela e condurre con abilità quella professione. Rifiuta così la proposta del re.
Viene alle mani con Lucietta e Filomena, quando si avvicinano al suo banco.
Sappiamo che i loro sciagurati parenti, Aniello e Tommaso, sono fuggiti di prigione e che il tribunale li condannerà in contumacia alla pena “dello afforcamento”, ossia all’impiccagione (ci sarà una sorpresa per loro proprio nelle ultime righe): “Vuolsi che re Ferdinando montasse in furia quando gli fu recata la nuova della fuga de’ due assassini dalle prigioni della Vicaria.
Fu per questa ragione sospeso lo stipendio a non pochi ufficiali e custodi di quelle carceri.”.
Come si vede, a quei tempi errori e distrazioni erano puntualmente puniti.
Non v’è dubbio che questi due assassini tornati in libertà creano nel lettore un interesse nuovo e aggiuntivo.
Mastriani scrive e pensa sempre ad un arricchimento della sua trama, con ciò dando uno spessore ampio ai suoi propositi di rappresentazione quanto più larga della realtà di una Napoli del suo tempo.
Notate l’eleganza di questa informazione: “Ora noi sorvoleremo su parecchi mesi per ritrovare i nostri personaggi verso lo scorcio del febbraio dell’anno 1793.”.
Non vi è più alcun dubbio; questi ed altri esempi che il lettore troverà da sé sono la prova di una eleganza innata nella grammatica e nella sintassi di Mastriani.
Si saltano questi mesi per dare la notizia che il matrimonio di Coletta con Nunzio è stato civilmente, ma non sacramentalmente, sciolto e Coletta il 27 febbraio 1793 ha dato alla luce “una bambina oltremodo bellissima, a cui, per riconoscenza dei tanti benefici ricevuti dalla signora di Caserta, ella pose il nome di Cesarina.”.
Ci fa scaltramente sapere che la bambina somigliava in tutto a Cipriano, salvo che negli occhi nerissimi, “benché nello scuro degli occhi avesse qualche cosa di misterioso e di fatale.”.
Povera bambina, ci verrebbe da dire, che ha impresso il suo destino nella maledizione della sua razza.
Vedremo.
Il lettore intanto avverte che le ragioni del titolo che richiamano la Medea greca si stanno palesando non solo con la nascita di questa bambina, ma anche con un altro personaggio, ossia Teresina, che abbiamo già incontrato di sfuggita quando fa visita con la madre Si-Vincenza a Coletta, ferita in una rissa contro un’altra giovane compagna quand’era ancora tessitrice, e sappiamo che quest’ultima non ha simpatia per Teresina a causa della sua bellezza.
A questo punto, sorge spontanea la domanda: A Cipriano succederà come a Giasone d’innamorarsi di un’altra? E costei sarà proprio Teresina?
Mastriani costruisce la sua tragedia proprio alla maniera degli antichi, riesumandone, nella sua coinvolgente storia, il clima minaccioso ispirato e deciso dal Fato: “Teresina era una di quelle giovani donne, la cui bellezza non abbaglia, a prima giunta, ma quanto più la si guarda, tanto più piace e si ammira.”; “Gli occhi erano bruni ed espressivi, e la bocca d’una perfezione incantevole, per modo che il suo sorriso riusciva seducente.”; Coletta “non avrebbe mai pensato che la giovane tessitrice fosse così bella ed avvenente; e questa scoperta le chiuse con tristezza il cuore.”.
È lei destinata a fare la parte della figlia di Creonte, Glauce (nei latini Creusa) la nuova innamorata di Giasone?
La gelosia fa breccia nell’animo di Coletta: ogni tanto è trattenuta e ogni tanto esplode creando stupore in Cipriano che a tutto pensa fuorché a tradire la madre della sua piccola Cesarina.
Siamo solo all’inizio, però, ci fa capire l’autore: “Ma il diavolo suole cacciare la sua coda in tutte le umane faccende e massime quando vede che la gente sta lieta e si diverte: allora mantaca nei cervelli, e soffia le discordie.”.
In occasione di quella visita, le due donne, madre e figlia, sono invitate a restare a pranzo, e Cipriano sta seduto accanto a Teresina, mentre accanto a Coletta sta Si-Vincenza. Nasce l’occasione di una esplosione di gelosia (“La gelosia è figlia del demonio.”) nella “sospettosa e ansiosa” Coletta, la quale così inveisce contro Teresina: “Tu sei la più spudorata frasca che io mi conosca. L’hai fatto a posta a sederti al fianco del mio uomo; e questa visita, questo invito, questo pranzo è stato tutto un bel concertino. In quanto a lui, me la vedrò con lui più tardi. Intanto, esci di casa mia, civetta; e non ci riporre mai più il piede se hai cara la ‘vista degli occhi’.”.
Naturalmente Teresina e la madre, e lo stesso Cipriano rimangono stupiti nel sentire quelle parole e nel constatare una reazione tanto esasperata per un sospetto che non aveva ragione di esistere.
Anche nelle rappresentazioni delle zuffe popolane Mastriani si rivela fine conoscitore e maestro.
Di questa lite il lettore rimarrà gustosamente impressionato.
Coletta si avventa su Teresina per sfregiarle il viso: “E si avventava furibonda contro la donnina; ma la Vincenza l’afferrò per le braccia e ne succedette una colluttazione, per la quale la tavola andò sossopra e si fracassarono piatti, bicchieri e bottiglie.”.
Il giorno dopo la lite, mentre Coletta è al suo banco di cambiatora, le si presenta un distinto signore che chiede di cambiargli in monete più piccole “una doppia da 36 ducati”. Quando, anziché l’aggio previsto, si vede dare in compenso una moneta più vantaggiosa, una piastra, Coletta alza il viso a guardarlo: “Era un uomo da’ 45 a’ 50 anni, di bello e nobile aspetto, senza barba di sorta alcuna e con parrucca studiamente arricciata e incipriata, con finissima biancheria di Olanda merlettata allo sparo della camicia e a’ polsi. L’abito era di quelli che si portavano soltanto da’ grandi signori.”.
Questo sconosciuto si è recato appositamente presso il banco di Coletta per comunicarle che l’arcivescovo di Napoli vuole parlare a lei e a Cipriano.
Si tratta del fatto che il prelato sta interessandosi presso il pontefice Pio Vi per l’annullamento religioso del matrimonio tra Coletta e Nunzio Pagliarella, ma per intanto i due conviventi non devono dare scandalo e hanno da separarsi fino a che non potranno sposarsi con la benedizione della Chiesa.
La donna, al contrario di Cipriano, non ha alcuna intenzione di vivere separata dal suo uomo, al contrario di lui, che le fa notare che “Il cardinale è più potente del re”.
Ma intanto le bizze e la gelosia “matta” di Coletta avevano provocato un mutamento nell’animo di Cipriano: “Tutto ciò che il carattere di Coletta avea di brutto e di fierino mostravasi a nudo di presente.”; “Ma, più che le scene di gelosia, Cipriano avea provato nel suo cuore un movimento di rancore che molto avvicinava all’odio contro la sua donna, quando avea veduto costei gittare sul letto la creaturina, come si scaglia lungi da sé per impeto di collera un oggetto qualunque che si ha nelle mani.”.
Comunque, convengono di vivere separati durante il giorno e di riunirsi soltanto la notte, finché, entro un mese (è la condizione posta da Coletta) si abbia lo scioglimento sacramentale.
La gelosia di Coletta assume nel romanzo una visceralità penetrante, ben espressa nei movimenti che Mastriani sa imprimere alla donna, vinta dal sospetto e dall’ansia, ed anche da una cattiveria innata che le fa contrastare il prossimo per qualsivoglia ragione. Egoismo e gelosia, infine, si amalgamo e creano un sentimento corrosivo e letale.
Tra Teresina e Cipriano apre un varco il sentimento: “Quella donna, quella Teresina gli aveva messo un’agitazione nel cuore, una perturbazione, che aveva per altro quel segreto piacere che accompagna il peccato.”.
La Teresina si rivela, a sorpresa del lettore, non priva di malizia e capace di accattivarsi la simpatia di un uomo: timida, facile al rossore, ma forte e risoluta dentro di sé. La madre Si-Vincenza si raffigura a tutto tondo una scaltra mezzana, come ce n’erano una volta nelle corti di campagna e nelle popolose città.
Lei e la figlia si trasformano con sapiente scrittura nell’aura di una tradizione di intrighi e malie amorose, che ci rimanda finanche alla novellistica boccaccesca e sacchettiana.
Quando Cipriano si presenta all’uscio della loro casa per rispettare un appuntamento che aveva dato a Teresina, alla madre Mastriani mette queste melliflue e lagnose parole: “Oh, signor Cipriano, che piacere ci avete dato! – ella esclamò, mentre Teresina metteva innanzi una sedia pel giovane anche daccanto al braciere – mia figlia cominciava a perdere la speranza che voi ci aveste onorato.”.
La conversazione che ne segue è tutta da gustare e ci penserà il lettore a godersela.
Essa ci offre un’altra dimostrazione delle qualità di Mastriani, il quale sa riempire le parole di reconditi significati e sottintesi: “No, no, io glielo debbo dire al signor Cipriano, perocché egli non può mai immaginarsi il bene che tu gli vuoi.”. E Teresina, di rimando: “Mamma, e perché vuoi farmi arrossire? – disse la giovane con fina civetteria.”.
Tant’è che, al termine di quella civettuola serata, il lettore si sente portato a prendere le parti della gelosa Coletta.
La gelosia è il vizio che sta creando il vuoto all’ignara Coletta, la quale è fuor dell’immaginazione che codesto suo stare a ridosso continuamente dell’amante, la condurrà alla perdizione.
Questo è il risultato: “Cipriano si recava ogni sera da Teresina, della quale era ormai perdutamente invaghito.”.
È già evidente che la tresca sarà scoperta dalla sospettosa Coletta e ci si attende la reazione, ricordandoci proprio della Medea greca.
Da notare che l’autore ci tiene a sottolineare in ogni frangente l’amore che Cipriano nutre per la sua bambina: “Il novello amore che si era acceso nel cuore di lui non inscemava per niente la tenerezza che egli sentiva per la sua Cesarina; e questa paterna tenerezza parea che crescesse ogni giorno vieppiù.”.
Tutto si sta componendo per volgersi a quel tragico finale. Le linee del percorso diventano ora solchi che renderanno il passaggio obbligato: “Egli aveva osservato che costei non gli dava più molestia per sospetti gelosi; ma la vedea cupa e concentrata; e questa cupezza gli facea paura. Aveva ella qualche sentore delle visite di lui alla Teresina?”.
Un’altra significativa annotazione: la bambina ha sempre dimostrato di nutrire un forte terrore nei confronti della madre e ogni volta che vede suo padre, vuole andare in braccio a lui: “Soddisfatto appena il naturale bisogno dello alimento che il seno materno le porgea, la bimba tendeva le braccia al padre. Avea per la madre inesplicabile paura.”. E più avanti: “parea che la Cesarina avesse una invincibile ripugnanza per la genitrice.”. Dirà Coletta alla sua benefattrice: “Me non ama questa creatura. Se non fossi certa di averla partorita io, direi che non mi è figlia. Non sorride giammai che nelle braccia del padre.”.
Il disegno drammatico ha assunto tutti i suoi colori, tranne l’ultimo che è il nerissimo della tragedia.
Coletta non gli chiede più dove abbia trascorso la serata e il perché torna a casa sempre ad ore dopo la mezzanotte.
È la Medea che sta meditando la sua orribile vendetta, poiché è venuta a sapere che l’amante si incontra ogni sera con Teresina? Infatti Coletta sa, e glielo rivela la sera del Sabato Santo: “Lo so. Tu vieni dalla Teresina.”.
Nel momento in cui una certa vecchiarella, Pasqualina Cicoria, gli ha rivelato la tresca di Cipriano, il volto di Coletta metteva paura, tanta era la furia che si stava sprigionando. Una volta uscita spaventata la vecchia, Coletta si era rivolta alla bambina: “Hai visto quel che mi fa il tuo caro papà! Grida, grida pure, figlia di Coletta Esposito!… Chissà che tra poco non griderai mai più!”.
Ottiene conferma del tradimento recandosi presso la casa di Pasqualina e attendendo, là chiusa, di vedere il suo Cipriano entrare nel ‘basso’ di Teresina. Il che avviene.
La lite tra i due non è così violenta come ci si sarebbe aspettati, ma ecco cosa scrive Mastriani: “Cipriano la stava a sentire con maraviglia, da che, guardando semplicemente alla placida superficie del lago, non vi scorgea la bufera che ribolliva nel fondo.”.
Siamo giunti al giorno di Pasqua del 1793.
Cipriano ha trovato una scusa per non stare a pranzo quel giorno. In realtà si deve recare in carrozza a Casoria, con Teresina e la madre per festeggiare colà, presso una parente di queste ultime.
Ma Coletta fa la guardia.
Lasciata in custodia ad altra donna la bambina, sta per recarsi presso il punto di sosta della carrozza quando giunge a renderle visita la sua benefattrice Cesarina Molisi, la quale le porta la notizia che quel ricco signore che era venuto a trovarla al banco del suo lavoro di cambiamonete altri non era che un parente del Papa, il quale si era assunto il compito di farle ottenere l’annullamento del matrimonio. Il che era avvenuto e proprio questa notizia era il regalo che lei era venuta a recarle nel giorno di Pasqua.
Viene a sapere del tradimento di Cipriano e del dolore della sua protetta, alla quale chiede di essere indulgente, essendo un vizio degli uomini quello di lasciarsi facilmente sedurre da una donna.
Coletta rinuncia al suo progetto e decide di attendere la sera, quando Cipriano sarebbe andato a trovarla. Avrebbe festeggiato con lui la Pasqua insieme alla bella notizia ricevuta “dello scioglimento definitivo del suo matrimonio.”.
Ma il diavolo – succede sempre nelle feste – era in agguato. Cipriano tarda a far ritorno a casa, dove tutto è già apparecchiato per la festa: “Non sapremmo fare intendere ciò che ella provasse di dispetto, di rabbia e di angoscia mortale in ogni quarto d’ora che passava.”.
La circolarità di questa scrittura ricorda quella di Charles Dickens.
Cipriano si fa vivo la mattina successiva, lunedì in Albis, e la donna nel vederlo comparire sviene: “E si appressò alla sponda del letto sul quale giacea la sua donna; e più volte la chiamò per nome senza che ella desse indizio di ritorno ai sensi.”, che è un altro dei molti esempi di scrittura rotonda e circolare che si potrebbero addurre.
La giustificazione che riporta Cipriano del suo ritardo è di quelle che sanno di falso a naso. Non ha trovato mezzi per il ritorno e comunque: “Sarei la sera ritornato a piedi in Napoli; ma, a dirti il vero, ebbi paura dei briganti che infestano le campagne.”.
Coletta, presa da incontenibile gioia, poiché Cipriano, dopo aver saputo dell’annullamento religioso del matrimonio di lei con Nunzio, le ha promesso le nozze, non fa più la difficile e crede ad ogni sua parola, comprese quelle che le dicono che Teresina e la madre si sono trasferite fuori Napoli presso una parente.
È, quel lunedì in Albis, un giorno che pare recare a Coletta, una delle poche volte capitatole nella vita, un po’ di felicità.
In realtà Teresina e la madre si erano trattenute a Casoria, poiché lì era più facile incontrarsi con Cipriano lontano da occhi indiscreti. A Cipriano, che ormai aveva perso la testa per la giovane tessitrice, bastava solo mantenersi dolce e affettuoso con Coletta onde “allontanare le suspicazioni della gelosa donna.”.
Il lettore attende, oramai, il botto, visto che la mina è stata innescata appena appena sotto la terra e attende il pestio sciagurato e letale.
Del resto, per che cosa mai sarà stata afforcata Coletta se non per un suo delitto, che si prevede terribile, visto il titolo dell’opera?
Sono intervalli e sospensioni ansiosi e attrattivi: “Intanto, egli continuava nella sua perfetta simulazione verso Coletta, dal cui animo egli era riuscito a bandire ogni ombra di gelosia.”.
Paiono invertite le parti. L’uomo buono e sincero si è trasformato in simulatore e la donna gelosa e perfida in una femmina tutta presa d’amore e buoni sentimenti: “Tutte le volte che Cipriano doveva andare a Casoria diceva alla sua donna ch’egli sarebbe tornato a casa un po’ più tardi del solito per faccende che avesse a sbrigare. E Coletta, che non vivea più in angosciosi pensieri per la Teresina, che ella sapea non dimorare più in Napoli, non accogliea più la minima dubbiezza sulle parole dell’amante, che le si mostrava sempre più appassionatamente amoroso.”.
Seguono altre bugie di Cipriano che ingannano Coletta, la quale era convinta di sposarsi entro pochi giorni e invece passano settimane e Cipriano ogni volta trovava nuove scuse: “E diceva a Coletta ch’egli era dovuto andare qua e colà per le carte occorrenti al matrimonio.”.
Si giunge al 16 maggio 1793.
Torna a farle visita la sua benefattrice che le conferma che la bolla papale è giunta e trovasi presso l’Arcivescovato, e dunque perché Cipriano non vi si è recato, e perché non sono ancora sposi?: “Signora, ho il cuore scuro scuro come se dovessi essere colta da una grande disgrazia. Permettete che io vi baci la mano.”.
Di nuovo, dubbi, pensieri e disperazione cominciano ad insinuarsi nell’animo di Coletta. Quando la benefattrice si congeda da lei: “Coletta si impadronì d’una mano della signora Morisi; e voleva appressarla al suo labbro; ma costei l’attirò al suo seno, e la baciò con estrema tenerezza dandole molte volte il nome di ‘figlia’.”.
Ricordiamo che quest’ultimo è un altro interrogativo che attende una risposta, verso la quale ci stiamo avvicinando: “Quando la signora Cesarina fu partita, Coletta si gittò su una sedia, esclamando: – Questa donna è certamente la madre mia!”.
Si aspettava l’esplosione della mina. Ed eccola. Chi vi pesta il piede è un personaggio appena sfiorato nel romanzo, quasi fantasma scolorito, la lavandaia Antonetta, la quale una sera bussa alla porta di Coletta, si fa riconoscere e le espone nientemeno che questo racconto: “Voi avete a sapere che io prendo a lavare i panni d’una signora che abita nel vicoletto del Vasto presso la strada Brancaccio. Ieri mattina andai a recarle la cesta dei panni del bucato; e nel salire le scale della signora mi imbattei nel signor Cipriano che scendeva da quella casa, lo conoscevo il signor Cipriano; ma egli non conosce me. Come venni alla presenza della signora, le parlai di lui; e la signora mi disse che quel giovine era venuto da lei per pagarle la prima mesata di pigione di una casa di lei in Casoria, e che egli ha tolta in affitto. Mi soggiunse che il signor Cipriano ha dato promessa di matrimonio ad una certa Teresina, che qui in Napoli esercitava il mestiere di tessitrice nella via San Cristofaro e che ora si trova in casa d’una zia a Casoria. Domenica si celebrerà il matrimonio nella parrocchia di quel paese; e gli sposi andranno ad abitare nella casa, che il signor Cipriano ha fatto magnificamente arredare.”.
Vi è più d’un motivo per farsi assalire da una catastrofica follia.
Nemmeno il lettore più scaltro si sarebbe avventurato in una simile ipotesi così inattesa, di un Cipriano tanto cinico e crudele, seppure abbia perduto la testa per l’abile tessitrice.
Figuriamoci Coletta!
Alle due di quella stessa notte ecco che suona alla porta Cipriano, ubriaco fradicio. Osserva l’autore: “Notiamo che dal momento in cui questo disgraziato aveva accolto nel cuore un’altra passione, un altro amore, cercava di stordirsi e di soffocare i rimorsi a furia di liquori spiritosi e di poderoso vino.”.
Ciò a rappresentarci quanto il male inquieti e corroda.
La reazione di Coletta è composta, non dà adito a sospetti di sorta, ma: “In quella notte del 16 maggio 1793 fu concepito nella mente di Coletta Esposito il delitto del quale fu soprannominata la ‘Medea di Porta Medina’.”.
Abbiamo detto abbastanza affinché il lettore si renda già conto dello sboccare della tragica storia, ed ora è bene che egli prosegua da solo le poche pagine che mancano alla conclusione, sapendo che Mastriani dà questo avvertimento, dopo aver rammentato la Medea della grecità: “Non leggano le madri questo capitolo della presente storia.”, la cui conclusione è anticipata da questo disegno criminale di Coletta: “… io voglio che la ferita che io farò al cuore dello infido sanguini per lungo spazio di tempo: io gli debbo trapassare il cuore con una freccia avvelenata che non lo uccida di un colpo, ma che il faccia spasimare come un’anima dannata. Egli giurò sulla vita di sua figlia di non tradirmi giammai, di non amare altra donna che me! Ebbene, egli è forza che lo spergiuro gli ricada sul capo. Colà, a piè dello altare, dinanzi al quale il traditore giurerà fedeltà e amore ad altra donna, quando le loro destre saranno congiunte dal ministro di Dio, gitterò ai suoi piedi il cadavere di sua figlia, e sotto agli occhi suoi gli svenerò la sposa.”.
Non v’è più alcun dubbio che il lettore ha dovuto fare i conti con una storia forte, tesa, intensa e tragica, condotta dall’autore con maestria. Dirà il giudice che condannerà a morte Coletta: “Se questa donna fosse vivuta a’ tempi delle repubbliche greca o romana, avrebbe di sé fatto parlare le storie.”; “Coletta Esposito fu condannata ad essere trascinata per la città con la parola ‘Empia’ sul petto, decapitata, e la testa appiccata alle mura del tribunale.”.
Inutile la grazia chiesta al re Ferdinando IV dalla benefattrice Cesarina Morisi, che scopriamo, finalmente, essere sua madre: “Le aspre parole della regina le avevano tolto il coraggio di dire al re quello ch’essa aveva in animo di dirgli; e che forse avrebbe mossa la clemenza reale.”.
Dunque? Il padre è addirittura il re? Mastriani non ci dice di più e lascia a noi di indovinarlo.
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