[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]
Tutti pazzi per l’oro
Fool’s Gold
Andy Tennant, 2008
Matthew McConaughey, Kate Hudson, Donald Sutherland, Alexis Dziena, Ewen Bremner, Ray Winstone, Kevin Hart, Malcolm-Jamal Warner, Brian Hooks, David Roberts, Michael Mulheren, Adam LeFevre, Rohan Nichol, Roger Sciberras, Elizabeth Connolly.
Doveva essere, presumiamo, una figura di contorno, una guarnizione sulla torta. Così infatti pare a prima vista. Talmente svampita e “inconsapevole” da risultare simpatica nonostante, da figlia dell’ultramiliardario Nigel (Sutherland), mostri di non avere alcun sospetto di che cosa possa essere l’amore paterno. E invece, proprio da Gemma (Dziena) viene la scintilla che ravviva il senso del film, così diluito, altrimenti, così desolatamente rinunciatario da deprimere il più fanatico degli adoratori del genere. Di avventurose cacce a tesori nascosti o sommersi se ne sono viste, foderate più o meno di protezioni motivazionali. Per esempio, Trappola in fondo al mare (John Stockwell, 2005). E tanto maggiore era l’eccezionalità del ritrovamento quanto accettabile l’alibi “storico” (Il mistero dei Templari – National Treasure, Jon Turteltaub, 2004). Ma qui, nella commistione tra commedia romantica e avventura/azione, Tennant gioca una partita dall’esito troppo scontato. Della fantastica “Dote della Regina” perduta in fondo al mare per una tempesta nel 1715 non importa granché. L’impresa servirà, se mai, a salvare il matrimonio di Finn (McConaughey) e Tess (Hudson): cosa volete che siano 40 casse di gioielli spagnoli antichi! Altrettanto improbabile la “ferocia” del gangster, anch’egli interessato ai preziosi: il “cattivo”, si sa, se ti fa ridere una sola volta, non ha più speranza d’essere preso sul serio. Eventi preannunciati, false suspence, premonizioni continue delle battute, l’andamento è trasparente. Ecco però che arriva Gemma: al suo cospetto commedia e avventura smettono di negarsi a vicenda, ci pensa la ragazza a rendere tutto pazzesco e divertente. Il grado di eccentricità ed estraneità, sia rispetto al problema del tesoro da recuperare sia nei riguardi della ricchezza che casualmente deve averla investita (sale a bordo del gigantesco yacht del padre e dice: «Tutto qui? » come poche altre attrici postmoderne avrebbero saputo dire) è tale da renderci euforici, da farci “uscire” dal film. E quando rientriamo, vediamo che, miracolo, il film ha ripreso quota, persino Sutherland è resuscitato. Felici e contenti ce ne torniamo a casa.
La sposa fantasma
Over her dead body
Jeff Lowell, 2008
Eva Longoria Parker, Paul Rudd, Lake Bell, Lindsay Sloane, Stephen Root, Kali Rocha, W. Morgan Sheppard, Sam Pancake, Jason Biggs.
Nemmeno il ghiaccio riesce a “freddare” l’irrefrenabile ansia di Kate (Longoria Parker). La ragazza resta nervosetta anche da morta. Colpita sulla testa dalla scultura d’acqua solidificata che nel giorno delle nozze lei ha appena rifiutato allo scultore (un angelo senza ali? Impossibile!) e che si è “vendicata” lasciandosi catapultare contro la sposa da un camion in retromarcia, Kate (la sposa appunto) non si rassegna ad un ruolo di secondo piano. Sospende il trasferimento in Paradiso e, trasparente come un fantasma, perseguita la donna destinata a succederle tra le braccia di Henry (Rudd), lo sposo “liberato” dal ghiaccio. Le virgolette servono a smascherare la depressione di Henry per la “perdita” della sposa. In realtà, da un momento all’altro il ragazzo cederà all’attrazione per Ashley (Bell), la veggente dalla quale sua sorella gli ha consigliato di farsi “curare”. Se non vi siete ancora divertiti, arrendetevi almeno al pappagallo, simpatico “interprete” delle intenzioni del bianco fantasma. Meno sorprendente sarà la “presa di coscienza” di Kate. La sposa trasparente si accorgerà poco alla volta di non aver compreso bene l’”incarico” che le è stato affidato lassù: non ostacolare bensì agevolare la felicità del suo Henry. Il Paradiso può attendere, ma non più di tanto. «Ritmo! », si sarà detto Lowell paventando la risacca dell’onda televisiva. Non c’è stato niente da fare, certe “puntate” entrano ormai nelle case quasi per un loro diritto ultraterreno.
L’altra donna del re
The Other Boleyn Girl
Justin Chadwick, 2008
Natalie Portman, Scarlett Johansson, Eric Bana, Kristin Scott Thomas, David Morrissey, Mark Rylance, Jim Sturgess.
Prima di Elizabeth. La “regina guerriera”, l’ultima dei Tudor, quella che abbiamo visto nel film di Shekhar Kapur, qui la vediamo nascere, nel 1533, da Anna Bolena (Portman). Chadwick, regista televisivo al suo primo lavoro per il cinema, trae la vicenda dal best seller di Philippa Gregory (The Other Boleyn Girl), puntando decisamente al racconto del drammatico conflitto tra le due sorelle Boleyn, Anna e Maria (Johansson), le quali, spinte dalle ambizioni familiari, fanno a gara nel tentativo di conquistare il “cuore” del re Enrico VIII. I riferimenti spettacolari alla figura del sovrano che seppe separare la Chiesa d’Inghilterra dalla Chiesa cattolica, possono essere molti, dal teatro al cinema, da Shakespeare a Charles Laughton, premio Oscar per Le sei mogli di Enrico VIII (Alexander Korda, 1933), a Richard Burton (Anna dei mille giorni, Charles Jarrott, 1969). Qui ci si allontana dalla somiglianza iconografica, evidente specie in Laughton, e si va ad una modernizzazione della figura anche fisica, funzionale al taglio spiccatamente “romantico” della vicenda. In primo piano è il rapporto tra Anna e Maria, le quali arrivano a odiarsi, sia pure da posizioni sentimentali diverse, l’una più fredda e calcolatrice, l’altra più semplice e istintiva, ma non sono disposte, alla fine, a rinunciare ad una solidarietà interna, sentimentale, che le lega nella competizione e nella disgrazia. Il re (Bana), in un certo senso, rischia di restare prigioniero delle due donne, non sa resistere all’attrazione dei sensi, pur non tralasciando la ragion di stato, che per lui consiste soprattutto nell’esigenza di avere un figlio maschio. Non c’è molto di più, anche se i “sentimenti” sono immersi nei fitti intrighi di corte. Le perfidie e le perversioni, sono enunciate, ad ogni attacco di sequenza, quasi in forma di didascalia bignamesca. Quel che conta non sono i fatti della storia, che pure in quel periodo si configuravano in un quadro complesso e interessantissimo per l’evoluzione verso la modernità. Basti pensare all’importanza dell’affermazione della Chiesa anglicana, in vista dell’espansione britannica verso il Nuovo Mondo. E anche all’interno, i problemi del regno non si esaurivano certo nel giro dei letti di corte. Ma se restiamo al romanzo, godiamoci pure la “puntata” storica, ben ambientata e giusta nei costumi, ben recitata soprattutto dalle due protagoniste.
Un amore senza tempo
Evening
Lajos Koltaj, 2007
Claire Danes, Toni Collette, Vanessa Redgrave, Patrick Wilson, Hugh Dancy, Natasha Richardson, Manie Gummer, Eileen Atkins, Meryl Steep, Mamie Gummer, Glenn Close.
Il cinema gioca spesso brutti scherzi. L’ungherese Koltaj, importante direttore della fotografia (La leggenda del pianista sull’Oceano, Sunshine – Il sapore del sole, Being Julia – La diva Julia), al momento di confermare il buon esito della sua prima prova da regista (Sorstalansag – Senza destino, 2005) ha avuto a disposizione un super cast femminile e una base letteraria di grande successo da cui partire (il romanzo di Susan Minot). Il risultato dice che i due elementi non sono stati decisivi, non si sono trasformati in fattori favorevoli al valore del film. Del film in quanto cinema, ecco il punto. Come abbiamo già avuto modo di notare, a proposito del “documentario” – e lo stesso concetto varrebbe per altre forme di espressione cinematografica – quando si venga al dunque, è pur sempre di cinema che si deve parlare. E ancor più del “documentario”, un film “a soggetto” utilizza sì materiali profilmici anche “letterari” come un romanzo o come una sceggiatura, tuttavia potremo giudicarlo in quanto film sono in quanto quei materiali abbiano prodotto un oggetto diverso, artisticamente autonomo, ricco di una coerenza interna sua propria. Un film può essere letterario anche se non deriva da un libro e può non esserlo anche se il regista è partito dalla lettura di un romanzo. Il caso di questo “amore senza tempo” è esemplare perché offre allo spettatore su un piatto d’argento (rispettiamo la “classe” del materiale profilmico anche nella susa traduzione figurativa, il paesaggio, l’ambientazione, la luce) il paradosso incorporato nella “visione” stessa dell’autore. Vanessa Redgrave, sempre brava, deve raccontarci il tormento di una madre che, trasognata e quasi in delirio, rivede, sul proprio letto di morte, un amore lontano e segreto, l’unico vero della sua vita, e riesce a dirne la verità, a se stessa e alle due figlie (Richardson e Collette): «Quando una madre sta morendo è un buon momento per parlare ». Ma il suo racconto, infarcito di rimandi all’indietro, di inserti didascalici combinati con momenti di apparente “immaginazione”, dà corpo a null’altro che al “sogno” del regista, il sogno di fare un grande film con un cast femminile da Oscar. Manca invece un’autentica progressione drammatica mentre vengono “descritte” le vite di diversi personaggi, tutte intrecciate tra loro ma tenute “separate” dal montaggio freddo, a priori, che non riesce a riscattarsi dalla struttura narrativa letteraria. L’accumulo di situazioni e la stratificazione di tempi ostacola il feeling necessario allo spettatore che voglia seguire il film nella sua costitutiva qualità cinematografica.
I demoni di San Pietroburgo
I demoni di San Pietroburgo
Giuliano Montaldo, 2008
Miki Manojlovic, Carolina Crescentini, Roberto Herlitzka, Anita Caprioli, Filippo Timi, Patrizia Sacchi, Sandra Ceccarelli, Giovanni Martorana, Giordano De Plano, Emilio De Marchi, Enzo Saturni.
Montaldo torna al lungometraggio dopo 18 anni (Tempo di uccidere, 1989) e rafforza il senso del proprio impegno culturale e politico contro le soluzioni violente dei problemi sociali, siano delitti di Stato (Sacco e Vanzetti, 1970) o attentati terroristici contro lo Stato. I demoni di San Pietroburgo si apre proprio con l’uccisione di un membro della famiglia dello Zar ad opera di una pattuglia di rivoluzionari. E’ il 1860 e le idee di Bakunin hanno in Russia una circolazione sempre meno sotterranea. Fjodor Mikhajlovic Dostojevskij (Manojlovic), che ha conosciuto i lavori forzati in Siberia dopo essere stato graziato dalla condanna a morte, viene a sapere dal giovane Gusiev (Timi), ricoverato in manicomio, di preparativi per altri attentati contro la famiglia imperiale. Lo scrittore, stretto dall’angoscia di dover consegnare all’editore il manoscritto de Il giocatore entro 5 giorni, sente anche di dover ad ogni costo cercare di convincere Aleksandra (Caprioli), la borghese che ha scoperto essere a capo dei terroristi, a non proseguire nell’azione: «Il popolo non vi capirà ». Tormentato dai dubbi e dai fantasmi della sua dolorosa esperienza – “demoni” che a volte si manifestano in attacchi di epilessia – Dostojevskij continua a dettare ad Anna (Crescentini), la stenografa che poi sposerà, il romanzo, il primo dei suoi capolavori, con quella sensibilità e passione che quasi fa credere persino all’ispettore Pavlovic (Herlitzka) che «un giorno la rivoluzione vincerà ». Nel passaggio dal rivoluzionario al maturo grande scrittore, nel cui animo viene prevalendo a scapito delle astratte teorie l’interesse per la complessità dell’uomo, s’intuisce che ha dovuto essere la spinta centrale di Montaldo a realizzare il film già da molti anni pensato e progettato (scritto da Paolo Serbandini da un’idea di Andrei Konchalovsky). Non a caso i momenti cruciali sono nei colloqui tra Dostojevskij e Pavlovic, ossia tra Manojlovic e Herlitzka, i due attori che, proprio in quei momenti, sanno rendere l’articolazione drammaturgica e insieme il profondo turbamento che li coinvolge in un unico discorso al di là della contingenza politica: una complessità che resta estranea alle pur giuste “didascalie” di cui si nutre la narrazione, con “chiarimenti” forse utili ad uno spettatore “a luce accesa” (televisivo), ma che poco aggiungono all’arte del film. «Mi ispiro alla vita », dice Fjodor Mikhajlovic ad Anna che vuole sapere quale sia la fonte del suo racconto. Niente di meno semplificabile e di più attuale.