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Rivista d'arte Parliamone

STORIA: I MAESTRI: La crisi del delitto Matteotti

31 Dicembre 2010

di Domenico Bartoli
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 9 febbraio 1967]

Tra le pagine torbide del ­la nostra storia, il delitto Matteotti è forse l’episodio più noto. La sua importanza fu decisiva: dopo questo fat ­to gravissimo che coinvolgeva le sue responsabilità persona ­li, almeno indirette, e che mi ­nacciava il suo potere, Mus ­solini fu spinto ad uscire del tutto dalla costituzione ed a passare all’aperta dittatura. Lo studioso Giuseppe Rossini offre oggi un nuovo e pre ­zioso contributo alla storia della vicenda. Il libro si in ­titola: «II delitto Matteotti tra il Viminale e l’Aventino » (II Mulino, Bologna 1966), e pubblica molte carte inedite oppure poco note e adesso quasi introvabili. Il volume, che supera le mille pagine, raccoglie fra le altre cose le lettere inedite di Giuseppe Donati, un giornalista cattoli ­co, direttore di Il Popolo, che aveva denunciato all’alta cor ­te di giustizia il senatore e generale Emilio De Bono, di ­rettore generale della pubbli ­ca sicurezza, e gli atti del pro ­cedimento condotto contro questo grande personaggio del fascismo dalla commissione istruttoria dell’alta corte, os ­sia del senato del regno, che era chiamato a giudicare i propri membri.

E’ certo che De Bono non ebbe una parte precisa nell’ag ­gressione contro Matteotti. Il fatto lo sorprese come quasi tutti gli altri. Ma Donati, che era all’avanguardia nella po ­lemica contro il regime (tan ­to da trovarsi spesso in di ­saccordo con altri antifasci ­sti), scelse De Bono per la sua denuncia allo scopo di ar ­rivare, attraverso di lui, a Mussolini. E’ vero che anche la responsabilità di Mussoli ­ni non è chiara. Egli ignora ­va, probabilmente, che Du-mini e gli altri intendessero rapire il deputato socialista. L’ordine fu dato, pare, da Marinelli, segretario amministra ­tivo del partito fascista, spin ­to da certe frasi violente che il duce avrebbe detto, dopo il severo e intransigente discor ­so d’opposizione pronunciato da Matteotti alla camera. Ma se l’esistenza di un mandato di Mussolini per il rapimen ­to del suo avversario non è dimostrata, e anzi sembra as ­sai improbabile, è a lui che bisogna far risalire una re ­sponsabilità d’ordine gene ­rale per avere in parte inco ­raggiato o prescritto, in par ­te tollerato, il metodo delle violenze, delle bastonature delle « lezioni », come veni ­vano chiamate.

Egli stesso nel famoso di ­scorso del 3 gennaio 1925 as ­sunse su di sé questa respon ­sabilità, sia pure sul piano storico e politico. Il capo del governo non ignorava certa ­mente l’attività criminosa del ­la squadra di Dumini, il fi ­nanziamento e le istruzioni che essa riceveva, l’ospitalità che trovava negli ambienti fa ­scisti e negli uffici stessi de) Viminale. La denuncia di Do ­nati contro De Bono aveva dunque lo scopo di arrivare attraverso il pubblico dibat ­tito dell’alta corte di giusti ­zia fino alla persona di Mus ­solini.

Lo scopo non fu raggiunto La sentenza della commissio ­ne istruttoria, che portava la data del 12 giugno 1925, ar ­rivò quando la battaglia delle opposizioni era perduta da sei mesi. De Bono fu assolto. Ma la commissione, che era presieduta da un senatore di assoluta indipendenza, il ge ­nerale Zupelli, su quattro ca ­pi di imputazione assolse per insufficienza di prove. Non si trattava di accuse che coin ­volgessero una responsabilità diretta nell’assassinio di Mat ­teotti, ma delle imputazioni di favoreggiamento in questo delitto, di partecipazione alle aggressioni contro Amendola e il fascista dissi ­dente Misuri, di rilascio di passaporto con nome e data falsi. Il testo della sentenza fece grandissima impressione per le critiche aperte o allusi ­ve che conteneva. Ma non c’e ­ra, oramai, nulla da fare. Do ­nati stesso, proprio in quei giorni, aveva lasciato l’Italia per corrispondere alle solleci ­tazioni dei suoi compagni del partito popolare, preoccupati dalla violenza delle sue campagne. Visse gli ultimi suoi anni in esilio. Uomo inquieto e combattivo, spirito polemi ­co e coraggioso, finì per tro ­varsi in minoranza anche nel ­l’ambito della emigrazione po ­litica italiana.

L’interesse principale di questo nuovo libro è dato dal ­la ricchissima documentazio ­ne, sebbene sia indispensabile leggerla con l’aiuto dell’in ­troduzione e delle note. Le te ­stimonianze davanti alla com ­missione istruttoria, i tre me ­moriali di Cesare Rossi, il col ­laboratore di Mussolini diven ­tato accanito avversario do ­po il suo arresto per sospetta complicità nel delitto Mat ­teotti, il memoriale del gior ­nalista Filippelli, insieme a tutto quanto si può sapere del misterioso memoriale di Al ­do Finzi, sottosegretario al ­l’Interno, forzatamente dimis ­sionario: questo materiale for ­ma un complesso di documen ­ti indispensabile per chiunque si interessi a quel convulso periodo della storia italiana.

L’accertamento delle re ­sponsabilità per l’atroce as ­sassinio rimane, più o meno, al punto di prima. Resta una larga zona d’ombra. Ma l’am ­biente politico del tempo e il suo sottofondo di violenza so ­no descritti con grandissima efficacia dalla voce stessa dei protagonisti e delle comparse. La grave crisi che il regime fascista, non ancora consoli ­dato, attraversava, spingeva a parlare molti che, altrimenti, avrebbero taciuto. Fu il caso di Cesare Rossi e fino a un certo punto di Aldo Finzi che, sentendosi minacciato, fece sapere all’opposizione di avere scritto e depositato in luogo alcune rivelazioni di grande importanza, e ritrattò poi quanto aveva detto in un momento di panico.

Le figure dei minori ven ­gono fuori con giusto rilievo dalla descrizione che Rossini, giustamente lascia fare ai do ­cumenti da lui ritrovati negli archivi del Senato e in quelli dello Stato. Si veda, per esem ­pio, la narrazione, di un par ­tecipante diretto all’aggressio ­ne contro un fascista dissiden ­te di Ferrara in « una casa di via Columbia diretta da certa signora Antonietta ». Uomini che dalla guerra, nella quale avevano valorosamente com ­battuto, e dal dopoguerra era ­no stati abituati alla violenza fecero allora le ultime prove. I loro capi diretti, che aveva ­no in Farinacci o in Balbo più che in Mussolini il pro ­prio condottiero, credettero, a un certo punto, di potersi im ­porre al duce. L’ultimo gior ­no del 1924 un gruppo di con ­soli, guidati da Galbiati e Tarabella, si presentò a Musso ­lini senza farsi annunciare minacciando una specie di ammutinamento se il governo non si fosse difeso con ener ­gia di fronte all’opposizione. Fu anche per questo che Mus ­solini pronunciò il discorso del 3 gennaio. Ma l’anarchia degli squadristi doveva uscire scon ­fitta dalla trasformazione del regime. I capi delle squadre e i loro uomini, tranne i dissi ­denti come Misuri, Forni ed altri che furono duramente puniti, ebbero posti e stipendi a patto di rinunciare a qua ­lunque influenza politica. Per ­fino Balbo e Farinacci, passa ­to il periodo del pericolo, con ­tarono sempre meno, e alla fine niente.

Dalla crisi del delitto Mat ­teotti uscì un solo vincitore, e fu Mussolini. Non solo i suoi avversari diretti, da Amen ­dola, il coraggiosissimo capo dell’Aventino, agli oppositori rimasti in aula, furono bat ­tuti. Non solo i compagni di lotta del duce diventarono suoi semplici subordinati. Il re medesimo si trovò quasi impotente. La differenza fra il sovrano e tutti gli altri era che lui soltanto avrebbe po ­tuto cambiare il corso delle cose col suo intervento. Amen ­dola lo aveva capito. Ma ave ­va commesso l’errore di con ­durre la sua azione politica dall’Aventino, cioè da una po ­sizione che, per quanto nobile dal punto di vista morale, al ­larmava il re trattandosi di una secessione parlamentare, cioè di un gesto rivoluziona ­rio. E’ questa, credo, la vera conclusione di tutta la storia.


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Bart