di Massimo Caputo
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 22 febbraio 1968]
Mentre si conclude presso l’editore Ricciardi la monumen tale traduzione italiana delle poesie di Enrico Heine, curata da Ferruccio Amoroso, mi son tornati tra mano i Reisebilder, (Impressioni di viaggio), editi a Lipsia ancor prima della guer ra ’14-18 e stampati su una bel la carta giallina, che sembra una sottile pergamena; e, vedi caso, il primo volume si aprì proprio su una delle pagine del libro in cui Heine descrive il suo viaggio da Monaco di Ba viera a Genova, anno 1828. Heine è uno degli scrittori tedeschi che io amo di più. Lo amo per la sua chiarezza, la sua esemplare semplicità, il suo tono in cui aleggia sempre una velata ironia e anche, verbigrazia, per la sua strafottenza.
Ecco dunque Heine che è riu scito finalmente a liberarsi di un seccatore, il quale lo ha asfissiato per lunghe ore con un’interminabile serie di magni loquenti laudi in onore di Berlino, a bordo della sua diligen za trascinata quasi a passo d’uomo su per una intermina bile salita, arrivare finalmente a un breve tratto in piano. Il cocchiere accorda un po’ di ri poso ai suoi quattro cavalli ma didi di sudore, li asciuga, dà loro da bere e poi, via di nuo vo. Heine non ci dà precise in dicazioni geografiche, ma si ca pisce bene che è arrivato al Brennero, sul quale sventola la bandiera giallo nera dell’Au stria.
Il veicolo piega verso destra, infila la strada che costeggia l’Isarco, i freni stridono per rallentare la marcia giù per la ripida discesa. Il poeta respi ra a pieni polmoni la fresca aria di montagna ed esclama: «Eccoci finalmente in Italia ». E’ il paese da tanto tempo so gnato, che gli si apre dinanzi e in cui allora si entrava senza noie di passaporti e di visite doganali. Politicamente è Au stria, per tutto il resto è già Italia. Quella bella ragazza, per esempio, che fila sopra un’alta na mentre una bianca colomba le vola intorno al capo e di .tempo in tempo le si posa so pra una spalla, è un quadretto tipicamente italiano, e la fan ciulla fila il suo lino alla ma niera antichissima «che usava no le figlie dei re di Grecia e che usano ancora oggi le ita liane e le Parche ».
La diligenza rotola a mode rata andatura lungo l’Isarco; bambini giocano e strillano lungo le rive del grosso torren te, e la sua corrente si rompe con fragore contro enormi ma cigni e grosse rocce a cuspide, che hanno anch’esse agli occhi di Heine forme e profili pret tamente italiani. Va e va, Heine e i suoi compagni di viaggio arrivano finalmente a Trento mentre il sole sta già calando, e i cittadini, terminato il piso lino quotidiano, sciamano per le vie cittadine. Heine trova alloggio alla locanda Grand’Europa.
Si avvicina al poeta una don na anzianotta che porta infila to al braccio un grosso cesto pieno di magnifici grossi fichi. La donna ne apre uno, ne fa ammirare al poeta la polpa ros sa e sugosa. «Lo prenda signo re » dice la donna con molta buona grazia. « Glielo regalo ». Heine ringrazia, prende il fico, lo gusta lentamente da intendi tore. « Mai mangiato un più buon fico, sembra impastato con pasta dolce e ambrosia. E’ una terra benedetta da Dio questa dove crescono simili frutti ».
Il sole è ormai disceso dietro le montagne, ma è ancora cal do. Il duomo è a poca distan za, Heine decide di entrarci. Oh, delizia, oh, refrigerante frescura. « Si può dire del cat tolicesimo ciò che si vuole â— pensa tra sé e sé il poeta â— ma è una religione che ha te nuto conto delle grandi calure estive; quei nostri templi nudi, senza le belle statue ricche di broccati e di ori che si vedo no qui irradiano freddo anche nella stagione della canicola » II duomo è pressoché deserto; qua e là si vedono solo alcune vecchiette; alcune inginocchia te pregano con gli occhi rivolti al cielo, altre, sedute sui ban chi, si riposano.
All’uscita dal tempio, nell’a ria che comincia a imbrunire, il suo sguardo si posa su una torre rotonda, che alberga mol ti gufi e un buon numero di soldati austriaci invalidi, pro babilmente reduci dalle batoste napoleoniche. Heine è, sì, un poeta, ma ama mangiar bene e torna difilato alla sua locan da per ordinare al cuoco una cena luculliana.
Ma quanto è bella Trento! Egli non esita a dire che se non avesse avuto impellenti ragioni per proseguire il suo viaggio verso il sud, sarebbe senz’altro rimasto lì: avrebbe passato il tempo a contempla re gli sciami di belle ragazze, che passavano per le strade, e di cui specialmente ammira va il regale portamento, ben degno delle figlie di un’antica ed eletta razza. « Amavo â— egli scrive â— quelle deliziose creature come la poesia ». E gli torna in mente un’antica cronaca in cui si narrava che al tempo del Concilio, le giovani donne e le fanciulle andavano a gara a fare gran sfoggio d’eleganza, forse per farsi sem plicemente ammirare o forse per disporre gli animi dei pa dri conciliari a una maggiore indulgenza, a uno spirito più aperto. Vani sforzi. Fra le teste cattoliche e quelle prote stanti, non si sa quali fossero le più dure.
Alla locanda Grand’Europa Heine trova un pranzo da re, e mentre è intento a gustare un eccellente stufato, ecco en trare tre sonatori ambulanti. Uno era un aoccidentone gigan tesco e portava, ben chiuso nel suo astuccio, un violoncel lo adatto alle sue rispettabili dimensioni; il secondo aveva un aspetto vagamente brigan tesco e teneva in mano con gran riguardo un oboe; chiu deva la comitiva una graziosa ragazza munita di un’arpa e con una purpurea rosa, leggia dramente infilata tra gli acerbi seni. Dopo le rituali riverenze al colto e all’inclita, i tre attaccarono un brano del Barbiere di Siviglia con somma gioia di Heine. La ragazza aveva una bella voce di soprano leggero, s’accompagnava con l’arpa e gli altri non sfi guravano.
Heine se la gode. Egli spera di ascoltare per l’eternità la musica rossiniana e si augura che gli spregiatori della musi ca italiana ascolteranno all’in ferno nient’altro che le fughe di Sebastiano Bach, a meno che non si convertano tempe stivamente a Rossini, al quale rivolge una toccante preghie ra: «Rossini, divino maestro, non far caso ai miei sciagurati connazionali, che ti rimproverano di non avere pensieri gra vi e pesanti. Il fatto è che essi non s’accorgono della profon dità del tuo pensiero perché sai coprirlo di rose e di scin tillanti voli di variopinte far falle. Ecco tutto ».
E aggiunge che, per capire la moderna musica italiana, bisogna avere dinanzi agli oc chi il popolo del paese, il suo cielo, il suo carattere, le sue espressioni, le sue pene e, in somma, tutta la sua storia. Di qui, certi passi in cui predo minano i toni bassi e tristi per lasciar intendere il lancinante corruccio contro la dominazio ne straniera, gli improvvisi squilli degli ottoni per mani festare l’entusiasmo per la libertà, mentre certi fini ricami di violini e di flauti sembrano un’invocazione di aiuto; ecco il vero significato di queste melodie. «Per fortuna, le stolte guardie di Sua Maestà Apo stolica ritengono il tutto una delle solite buffonate all’ita liana ».
Oh, come Heine amava l’Ita lia e detestava l’Austria! Ma egli è sicuro che non tarderà il giorno in cui l’Italia sarà così forte e unita e concorde per cacciar via una volta per sempre la « marmaglia soldatesca che oggi la fa da padrona » e la rimanderà a casa sua. « E’ questione di tempo » â— dice in cuor suo â— e se anche ci vol lero molti anni, il presagio del poeta finì con l’avverarsi.