Pound bombarda Joyce

di Gabriele Baldini e Claudio Gorlier
[dal “Corriere della Sera”, domenica 15 giugno 1969]  

Il critico americano Forrest Read ha raccolto in un grosso volume una se ­rie di documenti – lette ­re, saggi, annotazioni, in parte inediti o poco noti, compresi tra il 1913 e il 1945 – che mettono a fuo ­co i rapporti tra Ezra Pound e James Joyce, i co ­siddetti inventori della poe ­sia e della narrativa mo ­derna. Il libro, che appare ora in italiano (Pound-Joyce, ed. Rizzoli, pp. 400, L. 3000), si presta, per la sua stessa natura e per la discrezione del curatore, a giudizi e valutazioni aper ­te alla discussione. Su un terreno per molti versi tan ­to scottante è ancora ar ­duo, e forse poco desidera ­bile, fare il punto con autentico distacco. Abbiamo perciò pregato due specia ­listi, Gabriele Baldini per la letteratura inglese e Claudio Gorlier per la lette ­ratura americana, di pren ­dere in esame il volume ciascuno dal suo punto di vista. Pubblichiamo insie ­me i loro contributi.

“Il ministro senza portafogli delle arti” è la definizione che Horace Gregory diede di Ezra Pound: ce lo rammenta Forrest Read nella prefa ­zione alla ricca antologia che documenta i rapporti tra il poeta americano e James Joyce. Ancora poco, forse. Nel volume, infatti, Joyce appare di scorcio, con intrusioni discrete an ­che se sostanzialmente re ­cise; per il resto si tratta di un frenetico, eruttivo, arlecchinesco monologo di Pound che si protrae dal 1913 sino alla morte di Joy ­ce e oltre.
Perché Pound si sia let ­teralmente impadronito di Joyce, lo abbia bombarda ­to di messaggi, prodigan ­dosi per aiutarlo anche dal punto dì vista economico e insieme inondandolo di con ­sigli sovente non richiesti che l’autore di Ulisse cer ­cava di schivare come po ­teva, riusciamo a compren ­derlo senza troppa difficol ­tà.
 

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Pound si era attribuito il compito di grande sacerdo ­te della nuova letteratura, di supremo ingegnere del ­l’avanguardia, concepita co ­me una sorta di cantiere i cui lavori toccava a lui di ­rigere. Il « demone alla gui ­da di un furgone da tra ­sporto, tutto preso a traslo ­care il vecchio mondo in un nuovo quartiere », se ­condo il memorabile ritrat ­to di Wyndham Lewis, ave ­va bisogno di un romanzie ­re che verificasse i suoi pa ­rametri, che realizzasse pra ­ticamente i suoi principi, e lo trovò in Joyce, o per lo meno nel suo Joyce.
Ci sembra questa una in ­dicazione preliminare di lettura al libro raccolto da Read, e al tempo stesso una chiave per comprendere la apparente funzione di comprimario sostenuta da Joyce, la riluttanza dello scrit ­tore irlandese a incontrare il suo aggressivo interlocu ­tore, chiedendo magari soc ­corso a una terza persona (in una occasione, Heming ­way) per non venirne so ­praffatto. Infine, per co ­gliere la ragione del raf ­freddamento tra i due e del disinteresse di Pound per l’ultimo Joyce, in partico ­lare per Finnegan’s Wake, che non rientrava più nei parametri di cui parlavamo prima, e di cui Pound si sbarazzò con una noncu ­ranza persino sommaria.

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Circostanze avventurose e imprevedibili percorrono la raccolta da cima a fondo. Per sette anni Pound e Joy ­ce non si conobbero, anche se tra il ’14 e il ’20 il pri ­mo indirizzò al secondo un’ottantina di lettere. La immagine fisica che Pound ha di Joyce derivava da qualche fotografia, e sa il cielo se Joyce potesse ri ­sultarne molto attraente. Ma Pound, con lena clow ­nesca, si sforzava di conqui ­stare Joyce grazie a una serie di capriole verbali, a una irrefrenabile mimica che lo poneva in gara con il suo corrispondente, e che Ruggero Bianchi si è molto ingegnosamente sforzato di trasferire in italiano nella sua pregevole traduzione. Lo blandiva e lo incoraggia ­va, gli indicava un buon oculista e gli suggeriva iti ­nerari ferroviari, lo aiutava materialmente e lo indusse a trovare una sede adatta per completare Ulisse, pro ­piziando il trasferimento da Trieste e Zurigo a Parigi. E si batté con singolare tenacia per la pubblicazione del romanzo, salutando poi la comparsa del « libro… la fine, il compimento di un’e ­ra… »; dichiarando che gra ­zie ad esso « … tutti i mia ­smi, tutti i fetori, tutta quanta la pustola della mente europea, erano stati incisi ».
Ulisse possedeva dunque, per Pound, un valore di pu ­rificazione e di termine di confronto di un periodo; chiudeva un arco che da Cervantes e Rabelais giun ­geva al Flaubert di Bouvard et Pécuchet. Questa valu ­tazione, indubbiamente con ­testabile, introduce il ripu ­dio di Finnegan’s Wake, del Joyce che « ha sentito la propria voce sul fonografo e ha pensato al suono, suo ­no, borbottìo, mormorio ». In altre parole, che non ha seguito una strada diversa, quella naturalmente dei Cantos, ove la reinvenzione e la risistemazione della pa ­rola, la riconsacrazione epi ­ca, riducono per converso, nel giudizio di Pound, gli esperimenti joyciani a fri ­vole divagazioni. Giudizio, senza dubbio opinabile, ma del  tutto coerente.

 

Claudio Gorlier

 

Rottura dopo l’amicizia

Nella raccolta di documenti del Read si parla di Joyce, e a Joyce, dalla prima pagina all’ultima, ma Joyce s’intromette ra ­ramente. Le sue risposte a Pound e i suoi interventi critici, qua e là, si possono anche immaginare, ma non proprio con le sue ar ­gomentazioni e le sue parole. La massiccia chiacchierata di Pound risulta così anche più frastornante, con forse una qualche distor ­sione: in altre parole Joyce sembra troppo passivo, tanto più che, come stimolo della fiumana, è lui, in definitiva, a dirigerne il corso. Si può parlare quindi d’un protago ­nista criptico.
La vicenda è semplice e lineare quanto ap ­passionante: Pound «scopre » Joyce alla vi ­gilia della prima guerra mondiale, per la se ­gnalazione di W. B. Yeats, e se ne elegge impresario e quasi infermiere – come per tutta la cura degli occhi – anche se a di ­stanza, fino a un dipresso al completamento di Ulisse (c. 1920), riuscendo non solo a far circolare e imporre il suo nome nel mondo letterario anglosassone e parigino ma addi ­rittura a cavare da tutto questo persino tan ­to danaro da permettere a Joyce e alla fa ­miglia di sopravvivere.  

L’incontro a Sirmione  

I due s’incontrano, dopo sette anni di fitta corrispondenza, nell’estate 1920 a Sirmione, e per una serie di ragioni non tutte facili da rintracciare i rapporti mutano. Il pretesto esterno è offerto dall’incapacità di Pound a seguire Finnegan’s Wake, a cui Joyce si de ­dica dopo Ulisse. Pound si sarebbe aspet ­tato che Leopold Bloom oltrepassasse il « Bloomsday », si risvegliasse all’indomani e continuasse la sua Odissea. Joyce, com’è no ­to, chiusa la giornata di Bloom, apre la not ­tata di H. C. Hearwicker; ed è proprio nel folto intrico di quella nottata che Pound si rifiuta di seguirlo. Finnegan’s Wake è un libro estremamente difficile ma non incomunicabile, una volta che se ne possegga la chiave, e Joyce ne ha fornite a sufficienza. Edmund Wilson, lettore nient’affatto terremotato, riuscì a penetrarci all’indomani della pubblicazione, e da noi se n’occupava Salvatore Rosati fin dal novem ­bre ’39 addirittura sulla « Nuova Antologia ». Sembra strano che Pound fosse tanto più conservatore. O era in malafede nel ’39 o lo era nel ’13 al momento di imbonire il Ri ­tratto dell’artista da giovane che per quel ­l’epoca era un libro difficile quanto Finne ­gan’s Wake lo è oggi.

Una vita a brandelli  

Ma un lettore attento di questo epistolario non può sfuggire all’impressione che le vere ragioni dell’improvvisa idiosincrasia siano al ­tre: anzitutto, si può pensare, dovette respin ­gere Pound l’aver visto Joyce in persona, il suo impertinente indifeso squallore, l’aver te ­stimoniato la sua vita a brandelli, la dedi ­zione totale alla sua arte che non ammet ­teva né tempo né occasioni all’espressione mondana. « Non mi fa paura commettere un errore », dice Stephen Dedalus, « anche un grande errore, un errore che duri quanto la vita e magari l’eternità ». L’errore non era nell’abbandono della fede cattolica, come molti intendono: era nell’imprendere la sua coerentissima rivoluzione linguistica. Pound aveva ripetuto che con The Portrait « na ­sceva » un modo nuovo d’espressione, ma per rifiutare Finnegan’s Wake – che proprio del Portrait è la conseguenza più naturale e fa ­tale -, più tardi, dirà che Ulisse « conclude » un’era e, in un panorama dei genii oc ­cidentali contemporanei, in cui figura persi ­no Cocteau, omette Joyce.
A Sirmione si saranno guardati negli oc ­chi. Joyce avrà riconosciuto il fondo borghe ­se di Pound, e Pound tutta la sgradevolezza di dover testimoniare della intima natura messianica di Joyce. Poi vennero divergenze politiche: o meglio insanabili contrasti fra l’orrore di Joyce per il mondo che si auto annientava senza saperlo e l’allegra irrespon ­sabilità di Pound che ostentava di credere in una soluzione fascista. A Joyce fu risparmiato di vedere il disastro, perché morì nel gennaio ’41. Perfino nel necrologio, Pound mancò di carità.
 

Gabriele Baldini

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