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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Cagna, Achille Giovanni

6 Novembre 2007

Alpinisti ciabattoni

“Alpinisti ciabattoni”

Baldini & Castoldi, pagg. 178. Euro 5,16

I coniugi Gaudenzio e Martina Gibella finalmente, dopo venti anni che vagheggiavano di esaudire un loro sogno, partono in treno per una vacanza sul lago d’Orta. Sono “toghi”, come si dice in Toscana, ossia impacciati e buffi, e già l’abbigliamento balzano li smaschera. Vengono dalle risaie della Lomellina, da Sannazzaro, un paesucolo dove possiedono una drogheria ben avviata.

Cagna ci avverte che troveremo il vernacolo a dar sapore alla sua scrittura, e già ne fa uso a spaglio per ammonirci di tenergli dietro con attenzione, cosa che mi son proposto di fare diligentemente, se non che son balzato sulla sedia quando ho letto che tutti quei viaggiatori scendono a Gozzano. Là ho passato giorni memorabili e affascinanti tra il dicembre del 1965 e il gennaio del 1966, responsabile come sottotenente di complemento della vigilanza del deposito della Divisone Centauro, di stanza a Bellinzago, Novara. Sotto rade luci gialle, con gli scarponi affondati nella neve, di notte salivo tutto solo alle casermette delle pattuglie, ed incontravo lungo il percorso circolare le varie sentinelle in perlustrazione alle quali, chiamato da lontano a presentarmi, gridavo la parola d’ordine. Vi passai il Natale e il Capodanno nell’allegria della gioventù.
La vacanza tanto attesa tramortisce i nostri sprovveduti protagonisti, non sono abituati e non sanno come trascorrere il tempo, e ogni piccolo inconveniente rischia di mettere zizzania tra di loro. Per fortuna ci sono occasioni di feste paesane che li distraggono. Sono anche occasioni per l’autore di tramandarci usi e costumi di quei luoghi in quel tempo (fine Ottocento), cose che conosciamo per essere state comuni anche in tanti altri luoghi della nostra penisola, ma che si leggono con piacere, legate ad una filosofia del vivere che non c’è più.

Sono i momenti importanti del libro, ai quali planano sempre, per distendersi e rappacificarsi, l’impaccio e la dabbenaggine dei personaggi. La trattoria del Merlo Bianco, dove i due coniugi, in compagnia del curioso professore Amadeo, si trovano a loro agio e mangiano bene e conversano di buon umore, è un esempio di questo approdo verso le abitudini antiche e semplici, con le quali non si dovrebbe mai perdere il contatto, fa intendere l’autore. Ma naturalmente non si possono evitare le compagnie indesiderate quando si è in vacanza e anzi queste ci inseguono per dispetto, come succede ai Gibella, che dovunque vanno si ritrovano vicini compagni che avevano cercato di tenere lontani, come quell’impiegato della Prefettura Giacomo Noretti, che assilla non solo loro con la storia del suo amore sfortunato.

I trasferimenti in battello sul lago d’Orta dànno il destro di tratteggiare la società di fine Ottocento con le sue frivolezze e le sue manie, alle quali i nostri protagonisti sentono di non riuscire a corrispondere e già provano nostalgia per il loro piccolo e quieto paese e per la loro botteguccia. Pare già d’intendere la lezione di questa storia, e possiamo anche condividerla, utile ad ogni latitudine e in ogni tempo, soprattutto il nostro: “i viaggi sono inventati per far sembrare più buona la tranquillità della nostra casa!”.
Non mancano altre occasioni di disegni illeggiadriti con i colori dati ad alcuni personaggi dell’albergo del Pesce, o dell’albergo della Posta, che sgorgano l’uno dall’altro con i loro vizi e i loro guai; ed episodi e figure del Risorgimento freschi in quegli anni in cui la storia si svolge e fu scritta (1888) ricamano conversazioni vacanziere, oziose e vane.

Quando i Gibella decidono di arrampicarsi sui monti, inesperti quali sono, dando vita alle pagine migliori del libro, viene in mente quel Tartarino di Tarascona letto da ragazzi, ma la descrizione di quei luoghi ameni che guizzano tra prati, “cascatelle e rigagnoli” di montagna nell’impaccio dei nostri turisti da strapazzo, ha il sapore nostrale di una sgambata all’italiana: “Martina con l’ombrellino a manico arroncigliato poteva aiutarsi uncinandosi agli sterpi, ma era una pietà vederla dal basso a manovrare con mani e piedi su per l’erta, col suo cappellino elegante e fiorito, con le sue scarpette bagnate e insafardate di terriccio. Sor Gaudenzio per istinto atavico, retrocedendo di alcuni gradi nella genealogia della specie, si mise senz’altro a camminare a quattro mani.” E naturalmente ben presto: “- Sem fora de strada! – riflettè Martina. – Fora del mond a dirittura! – gridò Gaudenzio”. Si son smarriti nei boschi, dunque, ma Cagna è autore che non li perde di vista, e noi con lui.


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Bart