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ARTE: Cubismo: I MAESTRI: André Salmon #7/8

21 Agosto 2009

Storia aneddotica del cubismo
1912

[da Edward F. Fry: “Cubismo”, Mazzotta, 1967]  

I

Picasso a quel tempo conduceva una vita meravigliosa. Mai la fioritu ­ra del suo libero genio era stata così radiosa.
Egli aveva scavato nei maestri più adatti a esercitare un dominio su spiriti inquieti ed ardenti, da El Greco a Toulouse-Lautrec. Poi, vera ­mente se stesso, sicuro di se stesso, si lasciava guidare da un’imma ­ginazione fremente e concitata, un’immaginazione che era shakespi-riana e al tempo stesso neo-platonica.
Picasso, in questo periodo, era diretto solo dallo spirito. Un esempio getterà luce sui suoi metodi.
Dopo una raffinata serie di acrobati che erano anche metafisici, di bal ­lerine che erano damigelle di Diana, di magici clowns e di figure si ­mili all’« arlequin trismégiste » di Apollinaire, Picasso aveva dipinto, senza modello, l’immagine semplice, estremamente pura, di un giova ­ne operaio parigino, senza barba e vestito di blu; molto simile di aspet ­to all’artista stesso quando era al lavoro. Una notte Picasso abbando ­nò il gruppo degli amici sprofondati in discussioni intellettuali: ritornò nel suo studio e, afferrato quel dipinto che non aveva più toccato da un mese, incoronò il giovane operaio con una ghirlanda di rose. Per un sublime colpo di capriccio aveva trasformato il suo dipinto in un capolavoro.
Picasso sapeva vivere e lavorare così, felice, giustamente soddisfatto di se stesso. Non aveva nessun motivo per sperare che qualche sfor ­zo ulteriore gli avrebbe procurato maggiori glorie o avrebbe affrettato la sua fortuna, dal momento che le sue tele cominciavano ad imporsi. Ma ancora Picasso era preso dall’ansia. Girò i suoi dipinti contro le pareti e cominciò a maneggiare il pennello sul loro retro. Lavorò a lungo, per giorni e notti, rendendo concreto l’astratto e riducendo il concreto alla sua essenza. Mai lavoro fu più avaro di gioie; e fu al di fuori di quel suo primo entusiasmo giovanile che Picasso si accin ­se a lavorare ad un dipinto di maggiori proporzioni che doveva essere la prima applicazione delle sue ricerche.
L’artista si era già ardentemente affezionato alla scultura negra, che considerava di gran lunga superiore a quella degli Egiziani. Il suo en ­tusiasmo non si basava su una volgare manìa per il pittoresco. Le im ­magini della Polinesia o del Dahomey gli apparivano « razionali ». Rinnovando la sua opera, inevitabilmente Picasso ci presentò un’ap ­parenza del mondo non conforme al modo in cui avevamo imparato a vederlo. I frequentatori abituali del singolare studio in Rue Ravignan, che riponevano tutta la loro fiducia nel giovane maestro, rimasero per la maggior parte disorientati quando egli diede loro la possibilità di giudicare la sua « nuova » opera nella sua prima forma. Questa tela non è jnai stata mostrata al pubblico. Contiene sei enor ­mi nudi femminili; il loro disegno ha un accento rude. Per la prima volta nell’opera di Picasso, l’espressione dei volti non è né tragica né passionale. Sono maschere quasi interamente prive di ogni umanità. Non sono neppure divinità, o titani o eroi: né figure allegoriche o simboliche. Sono puri problemi, bianchi numeri sulla lavagna. Picasso ha così formulato il principio della pittura come equazione. Uno degli amici di Picasso battezzò automaticamente la nuova tela « il bordello filosofico ». Penso fosse l’ultimo scherzo per rallegrare il mon ­do dei giovani pittori innovatori. Da questo momento la pittura si ac ­cingeva a divenire una scienza, e neppure una delle meno austere.  

II  

Il grande dipinto, con le sue figure severe e la sua assenza di effetti di luce, non rimase a lungo nel suo stato originale. Picasso attaccò presto i volti, nei quali i nasi erano disegnati per la maggior parte frontalmente, sotto forma di triangoli isosceli. L’appren ­dista stregone stava ancora cercando una risposta ai suoi   problemi nelle opere affascinanti dell’Oceania e dell’Africa. In poco tempo, quei nasi divennero bianchi e gialli; tocchi di blu e giallo conferirono rilievo ad alcuni dei corpi. Picasso si stava prepa ­rando una tavolozza ristretta a pochi toni, corrispondenti rigorosamen ­te al suo disegno schematico.
Alla fine, insoddisfatto delle sue prime ricerche, questo novello Nero-ne attaccò altri nudi – che aveva sinora evitato, lasciandoli di riser ­va – cercando una nuova statica, e combinando la sua tavolozza con toni rosa, bianchi e grigi.
Per un breve periodo Picasso sembrò soddisfatto di questo migliora ­mento; il « bordello filosofico » aveva cambiato aspetto sulla parete e fu a questo punto che egli dipinse quei quadri – per la maggior parte dei nudi – con la loro delicata armonia di toni e il disegno molto elastico che costituirono l’ultima mostra di Picasso nel 1910. Questo pittore, che era stato il primo a trovare un modo per restituire una certa nobiltà a un soggetto discreditato, ritorna qui allo « studio » – e agli studi della sua prima maniera; Donna che si veste, Donna che si pettina. Per il momento sembrò contento di non spingere oltre le ricerche per le quali aveva volontariamente sacrificato il suo dono originale di una immediata piacevolezza.
È necessario seguire passo per passo questo uomo la cui tragica cu ­riosità doveva produrre il cubismo. Una vacanza interruppe i suoi gravosi esperimenti. Al ritorno, Picasso riprese ancora il grande dipinto sperimentale, che, come ho detto, viveva solo delle sue figure. Egli creò l’atmosfera con una scomposizione dinamica dei valori luministici; lavoro che andò ben oltre i tentativi del neo-impressionismo e del « divisionismo ». Comparvero in scena segni geometrici – appar ­tenenti a una geometria che era sia infinitesimale, sia cinematica – come l’elemento principale in un genere di pittura il cui sviluppo, da questo momento, non poteva più subire arresti. Mai più Picasso dove ­va essere – poiché inevitabilmente non lo poteva essere – il fertile, ingegnoso, geniale creatore di opere ricche di umana poesia.

III

Coloro che sono propensi a considerare i cubisti come audaci e abili burloni o come astuti uomini d’affari, si degnino di dare un’occhiata al reale dramma che incombe sulla nascita di questa arte. Come molti altri, Picasso aveva « meditato sulla geometria », e quando scelse come sue guide gli artisti primitivi non ne ignorava certo la roz ­zezza. Solo che la sua logica lo indusse a pensare che fosse stata loro intenzione pervenire ad una genuina rappresentazione di un es ­sere, e non all’espressione dell’idea che noi ne abbiamo e che, il più delle volte, è un’idea sentimentale.
Coloro che vedono nell’opera di Picasso i segni dell’occulto, del sim ­bolismo o del misticismo, corrono il pericolo di non comprenderla mai. Picasso tenta di darci una rappresentazione totale di uomini e cose. Questo era l’intento degli scultori primitivi. Ma qui si ha a che fare con la pittura, con un’arte « bidimensionale » e perciò Picasso è co ­stretto, a sua volta, a creare qualcosa di nuovo, collocando queste equi ­librate figure umane, al di fuori delle leggi accademiche e del sistema anatomico, in uno spazio strettamente conforme alla imprevedibile li ­bertà dei loro movimenti.
La volontà di tale atto creativo è sufficiente per fare dell’uomo che ne è animato – anche se è stato condannato a provare solo le amare gioie della ricerca senza poterne godere i frutti – il maggior artista del proprio tempo. I risultati di queste ricerche iniziali furono sconcertanti. Nessun interesse per la piacevolezza esteriore: il buon gusto ripudiato come uno standard inadeguato!
I nudi divennero esseri viventi, e le loro deformazioni poco ci sorpre ­sero: eravamo stati preparati a ciò dallo stesso. Picasso, da Matisse, Derain, Braque, Van Dongen, persine dal primo Cézanne e da Gauguin. Fu la deformità dei volti che fece inorridire i convertiti a metà. Privati del Sorriso, potevamo solo ravvisare la Smorfia. Per troppo tempo forse il sorriso della Gioconda era stato il Sole del ­l’Arte.
La sua venerazione corrisponde a un genere particolarmente deprimen ­te e demoralizzante di decadente Cristianesimo. Si potrebbe parafra ­sare Rimbaud e dire che la Gioconda, come Cristo, fu « un eterno ladro di energie ».
È difficile non meditare sul vantaggio dell’innovazione se si pongono a confronto uno dei nudi ed una delle nature morte che appartengono a questo momento di « Picassismo » (il cubismo non era stato ancora inventato).
Sebbene l’effige umana ci appaia così disumanizzata e ci ispiri una specie di terrore, siamo più disposti a sottomettere !a nostra sensibi ­lità alla bellezza evidente – e altrettanto nuova – della rappresenta ­zione di questo pezzo di pane, di questo violino, di questa tazza, in un modo che non era mai stato dipinto prima.
Questo perché l’apparenza accettata di questi oggetti ci è meno cara della rappresentazione di noi stessi, del nostro riflesso distorto nello specchio dell’intelligenza.
E così si sarebbe volentieri indotti a cercare, con una fiducia nata dal ­la disperazione, ciò che sta alla base dell’opera di Picasso e di qual ­che altro pittore a lui affine.
Sarebbe un grande spreco di tempo? Eccoci dinanzi a un problema. Chi dimostrerà la necessità, l’inflessibile ragione estetica, di dipinge ­re gli esseri umani come essi sono, e non come il nostro occhio li ha conosciuti da quando l’uomo ha meditato sulla propria immagine? Non è questa la vera essenza dell’arte?
Quando queste ricerche dell’artista ci infliggono tutti gli spigoli di un prisma in una sola volta, e mescolano il tocco e la luce – quali so ­no le fonti di simili differenti piaceri estetici – in una parola, non è la scienza la loro unica guida?
A questa domanda nessuno sinora è stato in grado di fornire una ri ­sposta definitiva.
Allo stesso tempo, il proposito di farci sperimentare un oggetto nella sua complessa esistenza non è in se stesso assurdo. Il mondo cambia la sua apparenza, noi non abbiamo più l’aspetto esteriore che avevano i nostri padri e i nostri figli non ci assomiglieranno. Nietzsche ha scrit ­to: « Abbiamo reso la terra piuttosto piccola, dicono gli ultimi uomi ­ni, e strizzano l’occhio ». Terribile profezia! La salvezza dell’anima su questa terra non sta forse in un’arte del tutto nuova? Non intendo rispondere oggi a quella domanda, poiché il mio scopo è semplicemente di dimostrare che certi artisti, ingiustamente insulta-ti, obbedivano a leggi ineluttabili, di cui è responsabile un genio ano ­nimo.
Questo capitolo non è che una storia aneddotica del cubismo. Non c’è niente di particolarmente audace in ciò che sto qui suggerendo. Già nel 1910 Jean Metzinger diceva a un cronista: « Noi non abbiamo mai avuto la curiosità di toccare gli oggetti che dipingevamo ».

IV

Picasso riprese nuovamente quel dipinto che costituiva un terreno di prova. Doveva verificare l’effetto di una nuova gamma di colori. L’ar ­tista si trovò in una situazione veramente tragica. Non aveva ancora dei discepoli (e quando più tardi ne ebbe, alcuni gli furono ostili); al ­cuni dei suoi amici pittori lo stavano ora evitando (uno diverso da me potrebbe anche non farsi scrupolo di rivelare i loro nomi), consci del ­la propria debolezza e impauriti dal suo esempio, in odio alle raffina ­te trappole dell’Intelligenza. Lo studio in Rue Ravignan non era più il ‘rendez-vous’ dei poeti. Il nuovo ideale stava dividendo gli uomini che cominciavano a guardarsi l’un l’altro – e forse anche a guardare se stessi – « da tutte le parti nello stesso tempo » e stavano così impa ­rando ad essere scettici delle apparenze.
Picasso, in certo modo abbandonato, trovò il suo vero io in compagnia degli stregoni africani. Si creò una tavolozza ricca di quei colori cari ai vecchi pittori accademici: ocra, bitume, seppia – e dipinse diversi formidabili nudi che fanno smorfie, oggetti meritevoli di esecrazione. Ma quale singolare nobiltà Picasso infonde in tutto ciò che tocca! I mostri della sua mente portano alla disperazione; ma essi non scuo ­teranno mai i filistei oltre il democratico sorriso che provoca l’inva ­sione degli Indépendants da parte del pubblico domenicale. Ormai l’Alchimista Principe, quel Picasso che ricorda Goethe, Rimbaud, Claudel, non era più solo.
Jean Metzinger, Robert Delaunay, Georges Braque si stavano partico ­larmente interessando alla sua opera.
Andre Derain… doveva unirsi a lui lasciando le strade che gli erano congeniali, per poi allontanarsi successivamente; ma egli non andò mai oltre Picasso, che perlomeno gli insegnò la necessità di disertare il salotto da conversazione che era contiguo allo studio di Henri Matisse. Vlaminck, un gigante i cui pensieri erano onesti e categorici come il diretto sinistro di un buon pugile, stava perdendo – non senza sor ­presa – la sua convinzione di essere un tipico fauve. Non gli era mai venuto in mente che le violenze del tormentato Vincent van Gogh po ­tessero essere superate in audacia. Ritornò a Chatou, pensieroso ma non convertito.
Jean Metzinger e Robert Delaunay dipinsero alcuni paesaggi dissemi ­nati di piccole case ridotte all’aspetto di parallelepipedi. Questi gio ­vani artisti, che avevano una vita interiore meno intensa di Picasso e che erano rimasti pittori in un senso più esteriore del loro precursore, dovevano ben presto conseguire dei risultati, anche se in un modo meno completo.
Fu la loro grande fretta che decise del successo dell’impresa. Le loro opere furono esposte e passarono quasi   inosservate al pub ­blico e ai critici d’arte che – con berretto verde o blu, Guelfi o Ghi ­bellini, Montecchi o Capuleti – non ne accettarono nessuna, per una lode o per un anatema, se non quelle fauves.
E il re dei fauves (fu imprudenza o astuzia politica?), Henri Matisse, che era stato appena incoronato a Berlino, cacciò bruscamente dalla famiglia Jean Metzinger e Robert Delaunay.
Con quel senso femminile della convenienza, che contraddistingue il suo gusto, egli definì le piccole case nei paesaggi dei due pittori « cubiste ». In quel momento si trovava con lui un ingenuo o geniale critico d’arte. Costui corse al suo giornale, buttò giù l’articolo-vangelo,  la mattina dopo il pubblico veniva a sapere della nascita del cubismo. Le scuole scompaiono per mancanza di convenienti etichette. Ciò è seccante per il pubblico, perché ama le scuole, le quali gli permetto ­no di vedere chiaramente senza fatica. Il pubblico accettò molto do ­cilmente il cubismo, spingendosi sino a riconoscere Picasso come ca ­po della scuola e rifiutandosi di ricredersi su ciò. A partire da quel momento gli equivoci sono andati aumentando. Georges Braque, che pochi mesi prima aveva dipinto violenti paesag ­gi alla maniera di Vlaminck e che era anche tormentato dalle scoperte di Seurat, contribuì non poco a consolidare il doppio equivoco. Egli si unì a Jean Metzinger e a Robert Delaunay. Ma essendosi inte ­ressato alla figura umana prima di loro, egli la prese a prestito diret ­tamente da Picasso, sebbene ci sia talvolta posto nelle sue opere per una modesta espressione della sua sensibilità.
In seguito egli doveva seguire rispettosamente Picasso passo per pas ­so, mettendo in grado uno. scrittore (spesso giudizioso) di pronunciare questo giudizio, un po’ troppo compromettente: « È stato detto che l’ispiratore del movimento è Picasso; ma dal momento che non espo ­ne mai, dobbiamo considerare Georges Braque come il vero rappre ­sentante della nuova scuola ». Essendo molto più intellettuale, Jean Metzinger – poeta oltre che pit ­tore, autore di raffinati versi esoterici – tentò di giustificare questo cubismo, creato da Henri Matisse che non vi aveva parte, e pensò di riunire gli elementi confusi della dottrina cubista. Di conseguenza, mentre il cubismo, denominato da Henri Matisse, si origina in effetti da Picasso che non lo metteva in pratica, Jean Metzin ­ger ha modo di dichiarare di esserne il leader. Nondimeno, non molto tempo prima aveva ammesso che « cubismo sta a indicare i mezzi, non il fine ». Ergo: il cubismo è mirabile perché non esiste, sebbene sia stato inventato da quattro persone.
Oggi vediamo i cubisti sempre più divisi; stanno gradatamente abban ­donando i piccoli trucchi del mestiere che avevano in comune; ciò che essi chiamavano disciplina era, in breve, soltanto ginnastica, qualcosa di simile a una « cultura fisica » plastica.
La gente pensava che costituissero un’Accademia: essi invece stanno uscendo dal Ginnasio.

V

Mentre Jean Metzinger e Robert Delaunay, per un certo periodo uniti, e Georges Braque, isolato, presentavano ai critici opere che erano con ­siderate come compiute conquiste, Picasso e Andre Derain (che non esponevano) erano all’opera, ciascuno per conto proprio; il primo pro ­seguiva imperterrito nelle sue ricerche, il secondo si allontanava sem ­pre più dal dogmatismo.
Picasso mise insieme una nuova tavolozza di grigi, neri, bianchi e ver ­di che, adottata nello stesso tempo da Georges Braque, divenne la ta ­volozza di tutti i cubisti.
La scuola fu quindi accresciuta da Le Fauconnier, un individualista che trasformava tutto ciò che aveva ricevuto, autoritario nelle sue prefe ­renze e in questo molto simile a Matisse, che egli però rifiutava, e da Albert Gleizes, che si unì al coro di pensatori senza nessuna intenzione di rinunciare contemporaneamente alle delizie terrestri di una vita lussuosa. Fernand Léger, rannicchiato in un tranquillo accademi ­smo, stava aprendo gli occhi, con grande stupore, a un genere d’arte di maggiori pretese.
La sintesi che ho ora tracciato della breve ma complessa storia del cubismo, è completamente sconosciuta al pubblico e alla maggioran ­za degli amatori d’arte meglio informati.
Non ho scoperto proprio niente. Il destino mi ha semplicemente as ­segnato il ruolo di testimone oculare, ed ora tento di fornire fedel ­mente la mia testimonianza.
La generale ignoranza delle circostanze che alimentarono il fiorire del cubismo può spiegare la confusione di idee che dominò fino al Salon d’Automne del 1911.
M. Desvallières, un convertito al cubismo, ma non certo un « prati ­cante » (Charles Maurras difende la Chiesa Romana nello stesso mo ­do), incoraggiato dal Granié, avvocato ad honorem della nuova causa, fu il primo a pensare di riunire in un’unica sala dipinti uniti, pur nella loro diversità, dai comuni interessi condivisi da Jean Metznger, Le Fauconnier, Albert Gleizes, Fernand Léger, La Fresnaye, Duchamp, Dunoyer de Segonzac, Andre Lhote, Albert Moreau, Fontenay, ecc. Que ­sti artisti dovevano essere presto seguiti da Herbin e dal sensibile Juan Gris.
I critici si pronunciarono su questo mosaico di opere. La mancanza di unità si spiega con la defezione di Georges Braque e di Robert Delaunay, che si riteneva avrebbero presentato alcuni dipinti caratteristici, ma all’ultimo momento cedettero il loro posto ad artisti di un gruppo esterno – mentre Marchand fu oscurato dalla vicinanza di Maurice Denis.
Non importa. Questo errore contò poco. Il grande momento era suo ­nato. Non era più possibile ignorare il cubismo (vedi testo 48). Alcuni rimasero ammirati, altri si presero gioco; non si respirava nel ­la Sala Vili. Alcuni scrittori parlarono di rinascimento, della salvezza dell’arte; altri supplicarono i loro colleghi di non incoraggiare un pe ­ricolo nazionale. Pochissimi scelsero un atteggiamento di sdegno, o si accontentarono di battute di spirito.
lo mi limitai a riconoscere, all’interno della famiglia cubista, gli artisti realmente dotati di qualità pittoriche. Ma furono gli schernitori, gli estra ­nei al mondo dell’arte, che garantirono il successo di questa mostra. Allo stesso modo, il neo-impressionismo, detto popolarmente pointil ­lisme, divenne famoso dieci anni prima, al suo .primo apparire, quando Willette, un artista piacevole ma singolarmente allergico a tutto ciò che è razionale (è un individuo tutto sentimento), disegnò un Pierrot come un pittore che esclami: « Dannazione! Sto facendo dipinti in con ­fetti! ».
La collera di alcuni superò di gran lunga la furia degli anti-wagneriani. Come nei lontani, difficili giorni dell’affare Dreyfus, intere famiglie si divisero in opposte fazioni; amicizie di lunga data furono infrante. Ed ora, proprio quando il cubismo stava provocando l’attenzione generale così rumorosamente da costituire per alcuni una nuova questione so ­ciale, il movimento – ancora del tutto nuovo – cominciava a disinte ­grarsi; ogni artista prendeva la propria strada.
L’ultimo arrivato, Fernand Léger, sembrava avesse raccolto la parte più viva del gruppo solo per proclamare uno scisma. Si coniò per lui il termine « tubismo ». Fernand Léger doveva spendere un po’ di tempo prima di ritornare a più profonde ricerche.
Tutti rinunciarono all’unità dei colori, tutti cominciarono a disgregare la tavolozza di Picasso.
Albert Gleizes non ebbe più scrupoli verso la tendenza aneddotica, e Jean Metzinger spese buona parte del suo talento per riabilitare « la piacevolezza » tra i suoi seguaci. In contrasto agli idoli ghignanti, po ­co prima venerati, propose un genere di Gioconda del cubismo.

VI

Sino a questo momento, ognuno è rimasto attaccato alle proprie po ­sizioni consolidandole. Sebbene accettato, il cubismo non ha trionfato, dal momento che gli sforzi individuali tendono a sviluppi differenti. Resisterà, ma sarà continuamente modificato; è più suscettibile di svi ­luppo del neo-impressionismo, e per questa ragione cesserà ben pre ­sto di essere ciò che oggi ci si immagina sia.
I pittori più lontani dal cubismo – persine i loro nemici – adotteranno qualcuno dei mezzi espressivi di Le Fauconnier e dei suoi amici, poiché il detto di Degas è ancora valido anche per i singoli: « Ci sparano addosso, ma frugano minuziosamente nelle nostre tasche ». Henri Matisse è solo. Quest’uomo famoso, arricchitosi con l’arte, questo pittore celebrato e onorato, ha raccolto allievi solo nei quartieri alla moda: quartieri di Parigi (e più particolarmente lungo i vicoli russo americani di Montparnasse) e quartieri di Monaco, Berlino, Mosca. Gli altri intransigenti fauves sono a mio giudizio divisi quanto i cubisti. Ed è ancora da una stretta e inevitabile unione che la grande pittura del futuro deve nascere.
Malgrado tutte le battaglie e tutte le sincere e faticose ritrattazioni ve-rificatesi, i movimenti sono inestricabilmente aggrovigliati tra loro co ­me lo erano nel 1904 – sebbene non si siano pienamente realizzati. Già gli allievi dei fauves, senza abbandonarli apertamente, si stanno alleando con i cubisti per le manifestazioni pubbliche più importanti. Potrebbe perciò il cubismo essere semplicemente una sotto-scuola, una provincia del regno fauve – quel regno formato da persone agi ­tate da contrastanti necessità e che ripudiano l’autorità del principe straniero che il caso impone loro?
II  cubismo avrà perlomeno restaurato il culto del metodo.
D’ora innanzi il nostro compito è semplificato. Senza tener conto de ­gli assenti, dei disertori e dei debitori, noi dobbiamo ora dedicarci ad esaminare l’opera dei giovani pittori che si avviano a rompere con l’ac ­cademismo.

da La Jeune Peinture Franí§aise, Parigi, 1912, pp. 41/61
 

La Jeune Peinture Franí§aise di Salmon fu scritta a partire dall’aprile 1912 e pubblicata nell’autunno dello stesso anno in una unica edizione di 530 co ­pie. Il capitolo qui riportato è uno dei documenti essenziali sul cubismo, in particolare sugli inizi con Les Demoiselles d’Avignon. Salmon sottolinea in mo ­do inequivocabile il ruolo avuto dalla scultura dell’Africa e dell’Oceania nel pensiero di Picasso prima che iniziasse Les Demoiselles; egli sostiene anche che Picasso lavorò a questo dipinto in due fasi distinte. Si deve osservare, tuttavia, che Salmon è in errore affermando che Les Demoiselles contiene sei figure; negli schizzi preparatori di cui si ha notizia il numero variò da cinque a sette figure, ma nel dipinto finito ve ne sono solo cinque. In un altro punto di questo stesso capitolo Salmon fa la consueta distinzione tra realismo ottico e concettuale, attribuendo quest’ultimo al cubismo; ma stranamente insiste anche su una base scientifica per la nuova arte.

ANDRÉ SALMON
Aneddoto
1914

II pittore Georges Braque, fervente discepolo di Picasso, proviene da una classe di artigiani arricchiti, diventati imprenditori su grande scala. Alla sua famiglia fu dovuta la decorazione, o almeno il controllo di questa, di quasi tutte le pareti interne degli edifici costruiti a Le Ha-vre alla fine del secolo scorso. Sono convinto che Georges Braque debba qualcuna delle sue brillanti qualità pittoriche al fatto di discen ­dere da una simile famiglia.
Un giorno stava discutendo con Picasso sulle cose che non si devono imitare in un dipinto. È questo uno degli argomenti favoriti dagli ar ­tisti moderni. Quando si dipinge un giornale che qualcuno tiene in ma ­no aperto, bisogna prendersi cura di riprodurre tali e quali le parole PETIT JOURNAL, oppure ci si deve limitare a incollare una parte di quel giornale nel quadro? Ciò portò a lodare l’abilità dei decoratori di case che traggono grandi quantità di marmo e di legno pregiato da immaginarie cave e foreste. Naturalmente Georges Braque fornì alcune utili informazioni, non prive di divertenti dettagli tecnici. Tra l’altro egli parlò dei servizi resi al decoratore, nell’imitazione del marmo e del legno, da un genere particolare di pettine d’acciaio, che viene strisciato sulla superficie dipinta per ottenere linee simili alle venature e alle screziature… In breve, Picasso e i suoi compagni fu ­rono tutti d’accordo sulla funzionalità del pettine usato dai decoratori; malgrado ciò, si noti che nessuno di loro pensò di imitare questi ge ­niali artigiani.
Ciò è estremamente importante. Un artista accresce la propria statura meditando su queste cose, può persine desiderare quell’arnese perché lo diverte, ma non di più. Egli non deve adottare l’arnese o la tecnica. È meglio, come fece uno di loro (Marcoussis), imitare l’imitazione. Ma un Mecenate presente alla discussione, la pensava diversamente. Scese al più vicino caffè per consultare l’elenco telefonico, saltò in un taxi e si fece condurre da un fabbro in Marais, un fabbricante del meraviglioso pettine per imitare il legno e il marmo.
Fremente per l’eccitazione, quasi fosse il portatore del   radium della nuova arte, Mecenate ritornò da Picasso nelle cui abili mani il suo acquisto.
Gli occhi dei pittore si illuminarono allora di quel lampo di infantile piacere che gli amici ben conoscevano.
Quell’uomo, la cui unica aspirazione è creare, fissare nuove forme, era felice di possedere un nuovo giocattolo. Promise di mettersi al lavoro, e diede all’appassionato d’arte appuntamento alla mattina successiva.
Avrebbe passato la notte a dipingere simil-legno e simil-marmo.
Ma quando fu   mattino,   il   Mecenate vide semplicemente il   ritratto di un distinto ingegnere.
Con ii pettine per contraffare legno e marmo, Picasso aveva ondulato i capelli e la barba del suo soggetto.

da La jeune sculpture franí§aise, Parigi, 1919, pp. 12-14

La jeune sculpture franí§aise di Salmon, sebbene pubblicato solo dopo la grande guerra, fu scritto nel 1914 come complemento al suo precedente li ­bro sulla pittura (vedi testo 18). L’episodio riferito da Salmon rivela con efficacia lo stretto rapporto artistico tra Picasso e Braque, e anche la loro pre ­occupazione di evitare l’imitazione illusionistica. L’aneddoto, ammesso sia vero, risale probabilmente alla primavera del 1912, quando entrambi gli arti ­sti si trovavano a Parigi, e il dipinto citato di Picasso era forse Il   Poeta, o un’altra opera simile dello stesso periodo.

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Bart