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ARTE: I MAESTRI: Borromini e Bernini

12 Dicembre 2012

di Giulio Carlo Argan
(da “La FieraLetteraria”, numero 12, giovedì 23 marzo 1967)

Alle volte, parlando del Barocco, non si dà il giusto peso al fatto che in quel periodo l’arte deve ridefinirsi nei confronti di una scienza di cui Galileo ha ormai fissato la finalità e il metodo o, più precisamente, deve adattarsi a essere, componente di un sistema culturale in cui la cono ­scenza del reale non è più affidata alla rappresenta ­zione delle forme dipendenti dalle leggi rivelate, ma dall’indagine metodica dei fenomeni. La religione stes ­sa si preoccupa molto meno della spiegazione del ­l’universo che della condotta degli uomini poiché, da quando s’è aperto lo scisma della Riforma, il primo atto della vita religiosa non è più l’accettazione di una tramandata dottrina, ma la scelta tra due inter ­pretazioni del significato e della finalità della vita.

Se la rappresentazione formale non è più conoscen ­za positiva del mondo, sorge il problema della giusti ­ficazione non più intellettuale ma etica dell’immaginazione. Come non chiedersi, infatti, che cosa fare di una facoltà che nel secolo precedente era stata sviluppata sopra ogni altra e a cui si doveva l’accumulo di un immenso patrimonio culturale che era, in de ­finitiva, un patrimonio d’immagine? Portato dal pia ­no intellettuale al morale, il problema dell’immagi ­nazione investe quello del .fare e della tecnica come modo esemplare del fare. La domanda sulla eticità della tecnica, sul suo diritto di porsi come modello di comportamento umano, sulla sua capacità di rea ­lizzare il fine ultimo dell’impresa umana, la salvezza, si pone al principio del Seicento con il dualismo Caravaggio-Annibale e poco dopo, con accresciuta asprez ­za, con il dissidio tra il Bernini e il Borromini ; e poiché il problema è rimasto aperto, ed è oggi la spina d’angoscia della « civiltà tecnologica », anche da questo si vede come il Seicento, con le sue con ­traddizioni, sia il prologo del dramma storico del mondo moderno.

Il motivo del dissidio tra il Bernini e il Borromini è dunque la tecnica, e non soltanto nella documenta ­ta cronaca dei fatti. Il Bernini concepisce la tecnica con larghezza classica, come attuabilità implicita nell’equilibrio dell’ideazione, che rimane sempre en ­tro i limiti dilatabili ma non valicabili del possibile. Il Borromini la concepisce in senso apparentemente più ristretto, come pratica del costruire e ultimo gra ­do dell’artigianato medievale, ma proprio perciò ani ­mata da un impulso spirituale e specificamente reli ­gioso, che la sollecita continuamente a trascendersi. Che cosa determina, nell’uno e nell’altro, il caratte ­re di spiritualità della tecnica? La questione ontologi ­ca della vera conoscenza del reale è ormai fuori causa. La mimesi classica, a volerla ancora assumere come processo intellettivo, è mera malafede, lo « scandalo » del Barocco ; e il Caravaggio, che aveva tentato di trasporla dal piano intellettuale all’etico, non era sta ­to capito nemmeno dai suoi seguaci. E tuttavia il problema di una prassi non più diretta da un princi ­pio di verità, razionale o dommatica che fosse, pesa tutto sull’arte. La scienza non ha ancora elaborato una prassi al di là del proprio metodo di sperimen ­tazione e di ricerca, il suo fare è ancora, necessaria ­mente, un fare-per-sé. Il fare-per-altrui, quello che realizza la finalità cristiana della salvezza, rimane quello dell’arte: soltanto nel secolo seguente, con l’il ­luminismo, le parti s’invertiranno e la scienza po ­trà annunciare la speranza di una salvezza ma non più in Cielo, in terra. Per tutto il Seicento l’autorità sulla tecnica e la responsabilità della sua giustifica ­zione etica, come produttrice di valori, competono ancora all’arte. Il Bernini le esercita da sovrano as ­soluto e da grande stratega. Se non avesse incontra ­to resistenza, la resistenza del Borromini, la sua conce ­zione dell’arte e della vita come immaginazione del possibile (e nulla è possibile senza una tecnica) avrebbe probabilmente ripreso alla scienza il domi ­nio della conoscenza ; e in qualche modo vi penetra, perché lo spettacoloso sviluppo della scienza comin ­cerà proprio quando questa imparerà a servirsi, per il lancio delle proprie ipotesi, dell’immaginazione.

Per il Bernini il vero non fa problema, la sua tecnica prodigiosa è in grado di coglierlo a vista, senza il minimo sforzo: ottiene dal marmo ventilate ciocche di capelli, trasparenza calda di carni, riflessi lucenti sulle pieghe del raso. Non fa problema e non fa valore; è soltanto una pietra di paragone, oggi diremmo un codice per decifrare il messaggio dell’immaginazione e darlo come « possibile ». Il possibile, che è il vero problema, non è ciò che può accadere ma ciò che si può fare: con la tecnica, naturalmente. Nulla è fattibile che non s’immagini fatto: anche per salvarsi l’umanità deve immaginarsi, prefigurarsi salva. La immaginazione berniniana (e, per estensione, barocca) è, sul piano teleologico, l’ideologia della sal ­vezza ; sul piano etico, l’ideologia della fiducia. Grazie all’immaginazione e alla sua tecnica cadranno le barriere tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe e » sere: gli uomini vivranno felici nello spazio e nel tempo della propria immaginazione. Saranno, in concreto, lo spazio e il tempo storici della città, di Roma Facendo Roma si fa la Chiesa(in concreto, San Pietro) e facendo la Chiesasi pone tra la terra e il cielo una struttura prospettica e praticabile, una « scali regia ». Tutte le idee urbanistiche del Bernini riguardano Roma e muovono dalla figura che, lavorando, per quasi tutta la vita, dà a San Pietro: fuori dello spazio romano, e perfino nella Parigi di Luigi XIV si sente spaesato. Può sembrare strano, ma la tecnica che si farà strada in Europa non sarà la tecnica berniniana del possibile, bensì la tecnica borrominiani dell’impossibile. Come il Caravaggio, il Borromini è lombardo; come il Caravaggio, non ama Roma e ne diffida: è troppo facile, di fronte al dilemma di scelte decisive, invocare l’alibi della storia antica e della natura universale. Lombarda è anche la sua religione, borromea (lo dice il suo cognome); a Roma a mette presto in rapporto con i Filippini, il cui zelo caritativo è molto vicino all’apostolato di san Carlo. Come quella del Caravaggio, la sua formazione arti ­stica è fatta di affinità elettive e di aspre reazioni. Si prefigge come modello Michelangiolo ; ma è una vocazione spirituale più che una scelta stilistica. Al culto di Michelangiolo lo inizia Carlo Maderno, suo maestro e parente. Ma non dimentichiamo che ne! Maderno quel culto era complicato da un complesso di colpa: suo malgrado, e perché altri non facesse peggio, s’era indotto a «tradire » il maestro sfigurarando, con la costruzione della lunga navata e della fac ­ciata, il più sublime dei suoi pensieri architettonici, l’unità plastica di San Pietro. Anche il culto miche ­langiolesco del Borromini è amaro e quasi espiatorio, perché il mito di Michelangiolo era ormai tramonta ­to e il mito classico del Bernini era di segno con ­trario. Ma trova un motivo più profondo, e una for ­za di sollecitazione maggiore, nel carattere stesso del ­la tecnica michelangiolesca che, non avendo un fi ne nella rappresentazione e mirando a trascenderla, non è tanto valutabile dal risultato quanto dalla ten ­sione del suo percorso. Il risultato non è mai piena ­mente raggiunto, l’opera è sempre non-finita perché il percorso è la vita e la vita non si compie che con l’esperienza ultima della morte.

Malgrado le insinuazioni del Bernini, il Borromini è tutt’altro che un eretico: semplicemente non crede che la salvezza sia lì, a portata di mano, nella natura creata e nella storia disegnata da Dio. Nella natura e nella storia, per lui, non si cela la salvezza ma la colpa. Non crede a una tecnica che sia invenzione e scoperta, esperienza maturata nel tempo e da portare innanzi con larga e accogliente coerenza ; crede a una tecnica come ricerca, esperienza che si fa e non si sa dove porti. Non vi sono regole e princìpi: la tecni ­ca borrominiana è pura prassi, dal primo schizzo sul ­la carta all’ultimo ricciolo dell’ornato. Borromini disegna come Leonardo, tracciando molte linee, di cui non sa né vuole sapere se una sia più giusta delle altre. La condizione umana è l’incertezza, l’angoscia di dover scegliere senza avere il tempo, il distacco, il metro del giudizio, seguendo soltanto l’impulso di un’intenzionalità oscura che deve, cammin facendo, chiarirsi. Non si preoccupa di definire un progetto ma di trovare un tracciato, un movimento, il bandolo di un ritmo: qualcosa di simile al gesto appena ab ­bozzato e tuttavia terribilmente preciso che, nelle fi ­gure di Michelangiolo, realizza d’un tratto un accu ­mulo di energia superiore all’inerzia del peso, e di ­venta spinta che porta in alto la massa. Solo quando ha varcato il punto di equilibrio e comincia a svi ­luppare forza, la tecnica borrominiana può staccarsi dalla pista del foglio di carta, caricare le linee di pesi reali, portare la materia al contatto dello spazio e della luce. Trapassa, quella forza, in una materia che in sé non ha nulla di prezioso o di raro: se il costrui ­re è un’esperienza spirituale e specificamente religio ­sa deve attuarsi attraverso una materia povera come quella della nostra spoglia mortale. E non occorre che l’edificio diventi un monumento aere perennius: può essere pensato e fatto per un giorno, come il re ­stauro di San Giovanni in Laterano. I gesti, gli atti materiali della tecnica costruttiva non sono grandio ­si né dimostrativi né scaltri: come i Filippini pensa ­vano di realizzare il supremo fine spirituale dell’in ­contro con Dio soccorrendo un inferno o sfamando un affamato, così il Borromini pensa di fare opera spirituale mettendo un mattone sull’altro o modellan ­do un fregio di stucco. Quando la materia cessa di essere laterizio e intonaco si sublima in uno spazio e in una luce innaturali e soprannaturali, raggiunti con una salita verticale, a elica, trapassando lo spa ­zio naturale quasi senza toccarlo, come fosse un ban ­co di nubi. E senza, per carità, dissimulare l’artificio sotto un’apparente naturalezza dacché l’uomo è fin da principio destinato a essere diverso da tutto ciò ch’è natura. Proprio perché è, a un tempo, innaturale ed esistenziale, lo spazio del Borromini diverrà così fa ­cilmente uno spazio « della vita », dimensione della esistenza sociale: e lo ritroveremo, secolarizzato, a Torino, a Monaco, a Vienna.

E’, quello del Borromini, uno spazio fatto « artifi ­cialmente » per quel tormento-delizia dello spirito che è nel Seicento la pratica ascetica: con una sorta di « tecnica spirituale » simile a quella di cui i mistici del tempo descrivono da competenti le modalità, i passi segreti e perfino le astuzie e gli inganni. Ed è uno spazio contratto e astringente, pieno di punte, di spigoli a coltello, di membrature a morsa, di spin ­te contrapposte, di pressioni dall’esterno: premente come quello di Michelangiolo, deformate come quel ­lo               del Greco, ma nello stesso tempo lucido e deluden ­te come una dimostrazione per assurdo. E’ carcere, mentre quello del Bernini è paesaggio e teatro: non ci si sta bene, dentro, e per sfuggire alla strettoia non ci sono che prospettive ripide, verticali, con bru ­sche rotture e ritorni obbligati, per giunta, che tolgo ­no la speranza dell’altezza ma a cui seguono, con im ­pennate da togliere il fiato, repentine riprese del rit ­mo troncato. Le membrature fortissime, che non reggono nulla e spesso finiscono in arabesco, servo ­no soprattutto a riflettere e stornare la luce per impedirle di espandersi e avvolgere, e per costrin ­gerla a profilarsi, segmentarsi, impuntarsi sulla cre ­sta di un profilo o perdersi nel buio di una gola. Accompagna l’avventurosa salita del ritmo la musica (nel senso proprio, di musica suonata durante la funzione) di una decorazione anch’essa lucidissima, ma tesa e contratta, che prende scatto dalle mem ­brature e lo rimanda a distanza per assonanze melo ­diche o ne disperde la forza in un gioco di tensioni brevi e irritate: con una bellezza perfetta e sinistra, talvolta con un’allegria artificiosa e leggermente sto ­nata, da canto filippino. Lo spazio borrominiano, in fine, è uno spazio-percorso e non, come quello del Bernini, uno spazio-ambiente: inutile alzare gli occhi al fastigio o alla cupola se prima non s’è sofferto il delizioso strazio delle contraddizioni di cui è irto e pungente il contesto costruttivo: concavità e convessità contrapposte e ricavate a sbalzo le une dalle al ­tre, forze inquiete che non cercano l’equilibrio e sa ­ranno scaricate in cielo, come scariche elettriche, da punte, stelle, spirali, pinnacoli e fiamme.

La tecnica del Bernini è guidata dall’immaginazio ­ne del possibile, quella del Borromini dalla fantasia dell’assurdo: il Bernini può chiamarla chimerica ma non può negare che la tecnica, ciononostante, la rea ­lizzi. A sua volta la fantasia non è affatto più libera, ma più rigorosa dell’immaginazione ; e, non avendo altro sostegno, pesa tutta sulla responsabilità morale dell’artista. E’ una logica a rovescio, ma è ancora, strutturalmente, una logica. Nulla di più probabile che l’immaginazione berniniana apparisse al Borromini, per dirla col Malebranche, « la pazza di casa »: un divagare senza costrutto, un’effusione naturalisti ­ca del sentimento. Il sentimento vero, quello che non è compiacente giustificazione del peccato ma’ infuoca ­ta spinta religiosa, non è il sentimento della natura, ma il sentimento di Dio. Da questo appunto ci ha distolti la logica, ponendo tra Dio e la natura (e la storia) la prima relazione di causa ed effetto. Se la logica porta diritti alla natura e alla giustificazione della colpa come naturale, ci allontana dal sentimento di Dio: bisogna rifare a ritroso il cammino della logica formale e ritrovare così la logica, non già della na ­tura e della storia, ma dell’innaturale, dell’assurdo, del sublime, della grazia. Infatti l’itinerario predesti ­nato dell’uomo sulla terra è uno solo e non si può uscirne: il libero arbitrio sta nel decidere di percor ­rerlo in un senso o nell’altro, verso la salvezza o ver ­so l’abisso. L’itinerario terreno del Borromini ha, cro ­nologicamente, un termine preciso: il suicidio del 2 agosto 1667, che i pietosi biografi cercheranno inutil ­mente di giustificare come una morte quasi naturale. E’ invece, questa esemplare morte artificiale, l’ultimo atto della logica inversa o della lucida fantasia del Borromini: quella con cui verifica tutte le ipotesi e risolve tutte le incognite lasciate intenzionalmente sospese, quasi in attesa, nelle sue opere.

Volendo meglio precisare la divergenza tra i due maestri, si può dire che lo spazio del Bernini è di ­mensione, quello del Borromini situazione. La logica-immaginazione apre agli uomini una dimensione di ­versa in cui evadere; la logica-fantasia chiarisce agli uomini la condizione pericolosa e assurda in cui di fatto si trovano. Perciò, dei due, il realista è Borromini, allo stesso modo che, tra il Caravaggio e Anni ­bale, il realista è il Caravaggio. E già si pone nettis ­sima l’antitesi, che tanta gente oggi ancora non riesce ad afferrare, di naturalismo e realismo.

All’antitesi non corrisponde tuttavia, e questo ap ­punto la rende più significativa, un salto di valori: verificate in rapporto alla qualità delle opere e alla loro portata storica, nessuna delle due proposte ap ­pare più giusta o più attuale o più praticabile dell’altra. Il loro significato è proprio nell’alternativa che pongono, nell’impossibilità di ciascuna di affer ­marsi indipendentemente dall’opposta ; nella necessi ­tà in cui si trova infine, chi le consideri, di assume ­re un’attitudine dialettica e non di distaccato giudi ­zio. I posteri non hanno dovuto scegliere tra il Berni ­ni e il Borromini, così come avevano dovuto sceglie ­re tra Raffaello e Michelangiolo ; non hanno potuto fa ­re a meno di accettare e rivivere nella propria co ­scienza, complicandolo e mutandone le determinanti storiche, il contrasto tra i due maestri. Fino a oggi, almeno.

Seguitiamo a parlare della logica-immaginazione e della tecnica del Bernini ogni volta che parliamo di ideologia, sia pure in senso sociale o politico ; segui ­tiamo a parlare della logica-fantasia e della tecnica del Borromini ogni volta che parliamo di intenzio ­nalità. Richiamandoci alla nota formula di Lucian Blaga, diremo che l’immaginazione tecnologica berni ­niana dà l’orizzonte, la fantasia tecnologica borro ­miniana dà l’accento assiologico: e non soltanto per la rinascita artigianale barocca, promossa dalla cul ­tura cattolica quasi a fronteggiare l’industrialismo e il capitalismo nascenti dalla concezione protestante del lavoro e della ricchezza. Ma l’orizzonte senza ac ­cento assiologico sarebbe estensione illimitata e in ­forme dell’esperienza; l’accento assiologico senza oriz ­zonte sarebbe direzionalità astratta, senza alcuna pre ­sa sul reale. Non sarebbe spazio, e non sarebbe co ­scienza, la dilatazione sconfinata dell’orizzonte; non sarebbe spazio, e non sarebbe coscienza, la linearità pure dell’accento assiologico.

Così si spiega perché l’antitesi e la continua tensio ­ne tra la tecnica estensiva del Bernini e la tecnica restrittiva del Borromini siano anche relazione e scambio tra i due protagonisti: una relazione che si constata facilmente nelle loro opere e che si conser ­va attiva, senz’ombra di eclettismo combinatorio, in tutta l’architettura venuta dopo, da Carlo Fontana a Filippo Juvarra.


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Bart