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ARTE: I MAESTRI: Cinquant’anni fa il nudo di Marcel Duchamp scendeva le scale

15 Aprile 2014

di Vittorio Rubiu
[da “La Fiera Letteraria”, numero 31, giovedì 3 agosto 1967]

E’ da molti anni che Marcel Du ­champ, glorioso ottantenne dell’arte contemporanea, ha smésso di fare l’artista. Eppure si continua a parla ­re di lui, si organizzano mostre, si pubblicano libri, soprattutto si inter ­roga l’artista per vedere di sottrarlo al mutismo completo (Pierre Cabanne, Entretiens avec Marcel Du ­champ, éditions Pierre Belfond, Pa ­ris, 1967).

E’ vero, Duchamp ha deciso di la ­sciarsi vivere: ma non è colpa sua se la gente continua a ritornare con mostre libri e discorsi sulle « cose » che lui ha fatto oppure semplicemen ­te firmato; ed è altrettanto vero che nel lasciarsi vivere rientra anche il lasciarsi intervistare, dire di sé e de ­gli altri, cosa pensa dell’arte e degli artisti, Apollinaire, Breton, Picasso, ma anche il pop e l’op, ed ancora, se crede in Dio o in De Gaulle, nella pri ­ma patria francese o nella seconda americana.

Ed ecco le boutades di Duchamp. Di se stesso: « J’ai une vie de garí§on de café ». Del movimento in pittura: « le mouvement c’est l’oeil du spectateur qui l’incorpore au tableau ». Poi il suo disprezzo per i « retinici »: « quand on voit ce qu’on fait les abs- tractionnistes depuis ’40, c’est pire que jamais, ce sont des optiques, ils sont vraiment dans la rètine jusqu’au cou ». Accetta i pop: « je les aime parce qu’ils se sont débarassé un peu de lidée rétinienne dont nous avons par ­ie ». Ma gli happening, « les happe ­ning ont introduit dans l’art un élément nouveau que personne n’y avait mis: c’est l’ennui ». E in quanto a De Gaulle: « il y a eu des periodes où a été un héros, mais les héros qui vivent trop longtemps sont voués à la dégringolade. C’est arrivé à Pé- tain ».

Duchamp, dunque, parla: e però con un tale distacco e « spaesamento » di modi, come se, per sensate e mo ­rivate che siano le risposte, non lo fossero mai sino in fondo. Racconta la propria vita, descrive le cose che ha fatto: che sono cose, appunto, e non opere d’arte.

E se gli altri ci vedono l’opera d’ar ­te. liberissimi, purché intendano che tutto ciò che ha fatto è riducibile al significato di un comportamento men ­tale, un atteggiamento che coinvolge il destino dell’artista come si presen ­ta oggi nel mondo, molto più che una nozione qualsivoglia dell’opera d’arte, e che per il resto, lui, Duchamp, e una specie di Amleto nato per sollevare dubbi, non già per risolverli.

E poi, come dimenticare che l’ironia e il caso entrano sempre in ma ­niera determinante nella vita e nell’arte di Duchamp? Tutti sanno che ha smesso molto presto, ancora giovane e nel pieno del successo, di fa ­re l’artista. Donde la domanda chiave sul come e il perché di una simile decisione. Duchamp risponde molto alla larga, aprendo larghe parentesi che situano, per così dire, la risposta su piani diversi. E intanto, non è che lui abbia mai « deciso » di abbandona ­re l’arte. E’ vero, piuttosto, che ci so ­no stati alcuni fatti o incidenti, se vogliamo, intorno ai quali l’artista ha molto riflettuto. A questa riflessio ­ne, accompagnata ma non sempre e necessariamente da un’occupazione artistica, si debbono l’ironia e il caso di un Duchamp che, lentamente e quasi inavvertitamente, si è « trova ­to » a lasciarsi vivere invece che a fa ­re l’artista… Formidabile coerenza di una vita che si presta a venire inter ­pretata come un objet-trouvé, il se ­gno stesso dell’arte di Duchamp.

Ma veniamo all’incidente che prima ha fatto tourner les sangs e poi ri ­flettere Duchamp. Il fatto si svolge in due tempi. Nel 1912 Duchamp in ­via al Salon des Indépendants di Pa ­rigi il Nudo che discende le scale, un quadro che sviluppa in modi un po’ astratti e meccanici, e comunque cubisti, l’idea futurista di un corpo in movimento. C’è una giuria di accettazione di cui fa parte Albert Gleizes, pittore già abbastanza noto e teo ­rico del cubismo. Il quadro di Du ­champ viene respinto. Ironia del ca ­so: lo stesso quadro, esposto l’anno dopo all’Armory Show di New York, diventa il centro di attrazione della mostra, conquista l’America alla cau ­sa dell’arte moderna.

A questo punto a Duchamp non restava altro che dipingere quadri che ricordassero agli americani il quadro esposto all’Armory Show; per ­ché gli americani sono capaci di tutto meno che di rinunciare allo sfrutta ­mento del successo, e il successo del ­l’arte moderna per loro si chiamava il Nudo che discende le scale. Ma cu ­bismo e futurismo, l’idea abbastanza ingenua, in fondo, di un corpo in mo ­vimento reso con i mezzi tradizio ­nali di cui poteva disporre il pittore, tela- pennello colori, tutto ciò a Du ­champ era già passato di mente.

D’altra parte il successo newyorke ­se del Nudo doveva apparirgli altret ­tanto immotivato dell’insuccesso pari ­gino, poiché sia l’uno che l’altro di ­pendevano in ultima analisi dal fun ­zionamento e diciamo pure dal com ­mercio sociale di un giudizio che in quanto tale sfuggiva al controllo del ­l’artista. E ancora, se un quadro o una scultura, per essere riconosciuti co ­me opere d’arte, hanno bisogno di un locale di esposizione, tanto vale crea ­re una contraddizione insanabile tra il funzionamento sociale dell’opera d’arte e il suo funzionamento simbo ­lico, ed affermare che per il fatto stes ­so di venire esposto in una galleria d’arte, qualsiasi oggetto è un’opera d’arte.

La logica di Duchamp è altrettanto esigente dell’ironia a cui sottosta. Nascono così i ready-mades, « ogget ­ti manufatti promossi alla dignità di oggetti d’arte dalla scelta dell’artista », come ebbe a definirli André Breton. Sembravano, questi ready-mades, uno dei tanti paradossi destinati ad ali ­mentare la polemica dadaista e sur ­realista. Ma è giusto che oggi si rico ­nosca, molto al di là del suo potere polemico, il sottinteso positivo del ­l’ironia di Duchamp. Che se anche, in un primo momento, e sul piano autobiografico, doveva fatalmente ap ­prodare nel nulla dell’artista che, so ­praffatto dal suo stesso gesto, si ridu ­ce al mutismo completo, dovè poi ri ­velarsi un atteggiamento straordina ­riamente carico di nuovi sviluppi e proprio perché scaturito da una rifles ­sione, la più pura e disinteressata, sul destino attuale dell’opera d’arte.

Una riflessione alla quale hanno attinto non soltanto i dadaisti e i sur ­realisti della prima avanguardia storica, ma quegli artisti che intorno agli anni 60 hanno ripreso i contatti con la realtà oggettiva: non già defor ­mandola alla maniera degli espres ­sionisti, o rovesciandola nell’assunto come i surrealisti, ma sentendosene sino in fondo, e sia pure rabbiosa ­mente e ironicamente, partecipi, e dunque partendosi dall’oggetto « tale e quale » profetizzato da Duchamp.

E allora, concludendo. Nessun dubbio che Picasso per quasi mezzo secolo sia stato il genio, l’Einstein di cui il pubblico sentiva il bisogno. Ma per tutto ciò che riguarda una pre ­visione fondata sull’arte che, come s’è cominciato a fare oggi, così si conti ­nuerà domani, è Duchamp che vin ­ce alla distanza.


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