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ARTE: I MAESTRI: Martini. Autodidatta con la coscienza del genio

16 Aprile 2014

di Vittorio Rubiu
[da “La fiera letteraria”, numero 41, giovedì, 12 ottobre 1967]

Treviso, ottobre

Bisogna capirli, i trevigiani. Per molti anni, quand’era in vita, hanno ignorato o quasi l’esistenza di Arturo Martini. E oggi che ricorrono i ven ­t’anni dalla morte dell’artista, e il suo nome ha acquistato se non altro il pe ­so della storia, ne onorano la me ­moria con una mostra degna del loro orgoglio di concittadini.

Soprattutto bisogna capire Giuseppe Mazzotti, amico devoto di Martini in vita e in morte, il quale nell’ordina- re la mostra ha voluto che fosse straripante di opere: 353, tra scultu ­re grandi e piccole, ceramiche e boz ­zetti di ceramiche, medaglie, dipinti, disegni, incisioni, acqueforti e litogra ­fie. Troppa grazia, davvero. Perché se c’è un artista che esce malconcio da una presentazione in massa della sua opera, questo artista è Arturo Martini. Autodidatta, con la coscienza del ge ­nio che si sentiva scorrere nelle vene e l’incoscienza della cultura che in ­vece chiedeva in prestito qua e là, lampeggiante di intuizioni ma rese co ­me inoperanti nel tempo dalla sua natura di vagabondo anche nelle co ­se dell’arte, con una tenerissima ve ­na poetica da cui subito rifuggiva per la voglia che aveva di gridare in piaz ­za la sua folle presunzione di sculto ­re che « fregava gli antichi », ed era « cinquant’anni più avanti di Parigi ».

Ed ecco il punto: si deve ancora indulgere alla fama novecentista di Martini, non risparmiandoci nulla del ­la sua opera di « maggiore scultore italiano della prima metà del secolo », e per ciò stesso obbligandoci a una specie di sauna visiva, prima la luce de L’attesa, e poi il buio pesto del Ti ­to Livio o del Tito Minniti, eroe d’Afri ­ca? Oppure si deve finalmente trovare una giusta misura critica, e non solo fare a meno dei saggi di un mestiere troppo facile e minuto e disinvolto per resistere all’usura del tempo, ma anche e soprattutto darsi la pena d’in ­terpretare sino in fondo il pensiero più intimo e più vero di Martini, e dunque considerare « lingua morta » gran parte di una scultura che oltre tutto appartiene alla storia del costu ­me fascista molto più che alla storia dell’arte? S’è già detto che tra i due possibili modi di presentare al pub ­blico la scultura di Martini, a Trevi ­so hanno scelto il primo. E a me, che faccio parte del pubblico, non re ­sta che la pazienza di adattarmici.

Si comincia con le opere giovanili degli anni 1905-11 (seguo la cronologia del catalogo). Il palloncino, Testa di bambino, Busto di bambino, Testa di giovinetta, Veneziani del ‘700, Il poeta Ventura. Piccole sculture in gesso e terracotta che hanno il valore di cer ­te prove attitudinali. Sì, Martini pote ­va fare il ritrattista, il caricaturista e anche lo scultore, difficile dire co ­me, se al modo di Gemito, Troubetzkoy o Medardo Rosso. Frattanto la mostra prosegue inopinatamente con una serie di ceramiche e modelli per ceramiche. Sirena, Fauno, Donna con chitarra, Mascherina, La fata del bo ­sco. E già dai titoli si capisce che queste statuine non vanno oltre il gu ­sto piccolo e medio borghese del so ­prammobile grazioso. Ed eccoci alle opere degli anni 1909-1913, anni im ­portanti nella biografia di Arturo Mar ­tini, gli anni dell’amicizia con il pit ­tore Gino Rossi e dei primi viaggi all’estero. Gino Rossi amava Gauguin, la Bretagna, i fauves e… Burano. Martini era nato « nomade, irrequieta, con un gran bisogno di un approdo tranquillo ». I viaggi, dunque. Prima a Monaco di Baviera, dove pare che Martini frequentasse la scuola « purovisibilista » di Adolfo Hildebrand e poi a Parigi, che allora era vera ­mente il centro del mondo artistico ». Eppure non direi che Martini rima ­nesse scosso nel profondo da questo suo primo contatto con l’avanguardia europea.

Limitandomi alle opere esposte al ­la mostra, e non ho motivo di dubita ­re che siano le più significative di questo periodo, direi anzi che la sua fu un’esperienza marginale. Nell’Adamo ed Eva e La donna nuda del 1912 c’è con ogni evidenza la deformazio ­ne lineare di Matisse, ma inevitabil ­mente appesantita e come snaturata da un primitivismo ed espressionismo di marca tedesca. E il Ritratto di Omero Soppelsa (1913) dà a vedere un Boccioni reso ancora più eccessivo nel ­la resa antigraziosa del ritratto, e tuttavia frainteso in ciò che era l’ele ­mento essenziale della sua scultura, la scomposizione-solidificazione dei vo ­lumi.

Ma a confermarmi nell’idea che Martini guardasse alle scoperte del ­l’avanguardia con occhio distratto, sen ­za farsene un problema, non è tanto il giudizio più o meno positivo che si può dare di queste opere, quanto il fatto che siano così rare, e smenti ­te subito dopo da ricerche altrettanto marginali e comunque di segno con ­trario, vedi la Fanciulla piena d’amo ­re datata 1913, che per l’effetto tra ­slucido della maiolica dorata e il de ­corativismo di gusti macabro sembra addirittura ispirarsi all’esempio di Adolfo Wildt. Così non mi stupisce che, ripresentandosi alla ribalta dopo la lunga parentesi della guerra, Marti ­ni entrasse subito a far parte del mo ­vimento dei Valori Plastici, e dunque si mostrasse convinto assertore di un ritorno all’ordine, lui che aveva ben pochi disordini da farsi perdonare, e quasi che la « pazzia trevigiana » gli girasse all’incontrario come una for ­ma di non richiesta saggezza. Come è vero che a volte la cosa più diffici ­le per un artista è interpretarsi.

Martini ha messo molti anni a capi ­re che il suo estro plastico veniva sin troppo castigato da sculture come L’amica del cipresso, Fanciulla ver ­so sera, Marinella, Busto di ragazza, Gli amanti, Orfeo. Sculture che ver ­rebbe di chiamare nate morte per quanto appaiono retrodatate nel tem ­po, monumenti di un monumento. Ma ecco, oggetto inatteso dopo i molti e severi ricorsi a una tradizione che sembrava dovesse togliere alla scul ­tura di Martini qualsiasi spontaneità e autonomia di linguaggio, Il bevito ­re del 1926. Dove finalmente il fer ­mento culturale si accompagna a una intenzione nuova, e dove la stilizza ­zione arcaica della forma, così eviden ­te nella tornitura e profilatura dei vo ­lumi, è come il necessario comple ­mento a una grazia popolaresca.

E poi la Scoccobrina, una cosa da niente, se vogliamo, ma di un pateti ­smo che intenerisce la vista, proprio come è tenera la materia da cui è ri ­cavata l’immagine. La terracotta de L’attesa, stupendamente inventata nel ­la figura di donna che volgendo le spalle allo spettatore sembra conser ­vare al racconto il segreto di una con ­fidenza poetica. E ancora, la straor ­dinaria frèschezza di apparizione de La sposa felice, quasi una Vittoria di Samotracia affettuosamente casalinga. La morte di Saffo, che segna un per ­fetto punto d’incontro tra l’opacità del ­la materia e la densità sentimentale del tema, e si resta ammirati del mo ­do con cui Martini è riuscito a mime ­tizzare l’apparenza dell’oggetto nella considerazione dei volumi.

La sete, nella doppia versione degli anni 1934-35, immagine non saprei se più terribile o inumana, ma che esce diminuita dal confronto con i calchi in gesso dei cadaveri di Pompei. La pisana, Donna al sole, Il risveglio, sculture forse ineguali e di varia deri ­vazione e però siglate da una sensibi ­lità particolare, che è poi l’irriduci ­bile qualità poetica di Arturo Martini.

A questo punto, essendomi deciso a rompere l’ordine cronologico per cercare d’istituire una continuità per ­suasiva laddove in Martini c’è l’in ­stabilità dei periodi anche migliori, consentitemi d’ignorare i suoi periodi peggiori, le mostruosità da foro Mus ­solini che, passando il fascismo dal potere politico a quello culturale, co ­minciano a comparire nelle ordina ­zioni ufficiali del regime.


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