ARTE: I MAESTRI: Cosimo e Donatello11 Ottobre 2014 di Alessandro Parronchi Abolendo ogni sorta di quel le etichette â— classico, anti classico, gotico, tardogotico, ecc. â— che non fanno che in tralciarne la comprensione, è ormai convenuto che i fatti del l’arte vanno considerati da tut ti i punti di vista possibili, né si può stabilire in anticipo qua le sia il più illuminante. Le belle indagini dell’Antal e del lo Hauser hanno ad esempio proposto l’importanza che la considerazione del background sociale acquista per la spiegazione di tali fatti. E’ stato que sto tipo di indagine a portare alla ribalta, accanto a quelle de gli artisti, le figure dei com mittenti, e ciò corrisponde a un notevole ampliamento della visuale storica. Nondimeno fu giustamente avvertito il peri colo insito nella sistematizza zione di un simile tipo di ricerca, soprattutto quando se ne vogliano trarre illazioni sulla forma stessa dell’opera d’arte. Il piano sociale su cui l’artista si muove è infatti una vasta temperie quasi assolutamente statica, di interessi comuni che non possono ammettere oscilla zioni di sorta, e con cui è ben difficile veder coincidere la mo bile, poliedrica soggettività del l’artista. Molto più difficili a definire, ma anche assai più determinanti, le vicende politiche, che gli artisti assieme a tutti gli altri dovettero subire, anche lo ro malgrado. La nostra genera zione fu educata a non tener ne conto per lo studio delle opere d’arte. Nelle vecchie trattazioni si cominciava sempre col « cappello storico », e non di rado, dobbiamo ammettere, era un cappello che rimaneva sospeso, e non calzava mai esattamente con la « figura » sotto stante. Se messe in relazione col fatto artistico, è chiaro in fatti che le grandi linee di un periodo storico non servono: bisogna scendere alla cronaca minuta. E’ lì che si può av vertire dove si sia verificato il contatto. Va considerato in tal senso che uno stacco netto divideva in antico gli artisti dai lettera ti. Questi ultimi, poeti e scrit tori, spesso vi ambirono, e non di rado ottennero posti diret tivi e d’influenza, furono diplo matici, « teste d’uovo », o quan to meno, se abbracciarono lo stato ecclesiastico, dettero la caccia a cappellanie e segreta riati: sempre legati a principi, cardinali, ecc. nel cui ambito si svolgeva la loro opera. Gli artisti, salvo casi eccezionali, furono invece operai, gente che si guadagnava il pane con un lavoro di carattere artigianale, più o meno retribuito in quan to più o meno apprezzato. Co sì subirono meno dei letterati i rovesci di fortuna dei loro committenti, perchè erano ine vitabilmente necessitati a cambiarli, e quando le cose si met tevano male in un luogo, viag giavano. Stavano via per anni, poi tornavano. La politica era determinante anche per loro, solo in quanto per ragioni politiche un lavoro si faceva o non si faceva, non per la forma particolare in cui era svol to, a meno non si fosse tratta to di immettervi elementi di particolare significato allegorico. Ma a un certo punto le co se cambiarono. E fu quando ci si rese conto che all’arte era connesso un singolare prestigio. Verso la metà del Quattrocento in Firenze, chi dirigeva la linea di condotta po litica era Cosimo il Vecchio che alla tirannide dichiarata preferiva quella larvata, e dai cui consigli la Repubblica non s’allontanava. Cosimo era un profondo estimatore dell’arte, e non esitò, quando se ne offrì l’occasione, a trarne profitto ai suoi scopi. Egli non imprese mai una grande fabbrica di ca rattere privato senza farla pre cedere da un’altra di interesse pubblico, ovverosia religioso. E in particolare si tenne amici gli ordini monastici, ricostruendo prima del castello del Trebbio e di quello di Cafaggiuolo, il convento dei Minori Osservanti a S. Francesco a Bosco ai Frati, e rinnovando, prima di innal zare il suo Palazzo in via Lar ga, il Convento di S. Marco per i Domenicani. L’arte non gli interessava certo per il suo lato sperimentale. A tale proposito sintoma tico è il suo atteggiamento ver so il Brunelleschi. Il fatto che l’ingegnere fiorentino avesse voluto impicciarsi durante l’asse dio di Lucca di mandare a ef fetto un suo, fallito, progetto di allagamento, dové contra riarlo profondamente, anche perchè la conseguenza di quel la sfortunata campagna fu il suo esilio del ’34. Il progetto che il Brunelleschi fece per lui di un palazzo d’abitazione, non si sa a quando possa esser da tato. Ma il fatto che Cosimo vi rinunziasse perchè, in quel momento, non riteneva politica mente opportuno mettersi in mostra con una grossissima spe sa â— mentre più tardi, nel ’50, affidava a Michelozzo il proget to del Palazzo di via Larga, che immaginiamo non molto meno fastoso di quello brunelleschiano â— ci dice quanto il freddo calcolo opportunistico dovesse avere in lui il sopravvento su ogni altra considerazione. Artisti che facevano al caso suo erano altri. L’Angelico, che certamente non si erigeva, nel suo monacale riserbo, a giudice delle sue azioni. Lo scatenato e riprovevole fra Filippo Lippi, che lo divertiva moltissimo, e che egli scusava nei suoi trascorsi dicendo â— prima formu lazione della giustificazione per merito dell’arte â— « che l’ec cellenze degli ingegni rari so no forme celesti e non asini vetturini ». Michelozzo, che sovrintendeva alle fabbriche architettoniche e aveva le mani in pasta con tutti. E Donatello. Intendiamoci, lo scultore del Geremia e dello Zuccone, il creatore di quel « realismo po polano » che non ha termini di confronto in nessun altro pe riodo della storia dell’arte, sa peva cos’era la libertà. E dopo la morte, avvenuta nel 1431, eternò nel busto famoso Nic colò da Uzzano, campione della oligarchia contro Cosimo Me dici. Ma gli anni passavano. Nel 34, al ritorno di Cosimo dal l’esilio, egli ne aveva quasi cinquanta. Cosimo lo apprezzava e gli era profondamente amico. E come gli aveva già fatto fa re il Crocifisso ligneo per la chiesa del Bosco ai Frati, che fu forse la sua prima ordinazio ne, e poi il David bronzeo, che fu la seconda, fu Cosimo molto probabilmente a affidargli una impresa con cui era connesso il suo stesso prestigio. Per tut ta Italia si sussurrava che il suo ritorno dall’esilio era do vuto al capitano dei Veneziani, Erasmo da Narni detto il Gattamelata, che, alleato dei fio rentini, volutamente cedendo nel fatto d’arme di Castel Bo lognese all’esercito del Viscon ti (1434), aveva reso possibile in Firenze un rapido rivolgi mento, da cui era scaturito co me logica conseguenza il suo ritorno dall’esilio. Ora si tratta va di cancellare quest’ombra dalla memoria del condottiero. M’immagino Cosimo che chiama presso di sé Donatello, e gli chiede se se la sarebbe sentita di fare un monumento equestre come quello del Marco Aurelio. E Donatello a grat tarsi la testa pensoso. Poi sol levare lo sguardo già acceso die tro il fantasma di questa pos sibilità. Così Donatello partì da Firenze sullo scorcio del 1443 e se ne stette a Padova dieci anni. Dopo di che il « Ca vallo » era fatto. Tornato da Pa dova carico di gloria, Cosimo, per dimostrare che lo scultore non era punto invecchiato, gli dette a modellare il gruppo della Giuditta. E c’era veramen te da stupire a vedere come lavorava questo vecchio di quasi settant’anni. Di lì a poco si verificò tut tavia un’altra circostanza. Sie na aveva bisogno di aiuto. Si era data un governo popolare, voleva liberarsi delle continue vessazioni dei capitani di ventura, e chiedeva l’alleanza di Firenze. Ma come si faceva a concedergliela? I fiorentini nic chiavano, e solo non volevano fare la brutta figura degli egoi sti. Quello che non ci dicono i documenti di Palazzo Vec chio, fu forse convenuto a ce na, nel Palazzo di Cosimo appena rinnovato. All’ambascia tore senese Giovanni Biechi fu promesso che sarebbe stato inviato a Siena Donatello, mas sima gloria artistica cittadina, con un vasto programma di la vori in bronzo per il Duomo. E si cercò d’indolcire, con que sta promessa, il momentaneo ri fiuto. Così Donatello, invece di mettersi a rinettare accurata mente il bronzo della Giuditta che ne aveva tanto bisogno si dispose, obbedendo a Co simo, a prendere la via di Sie na, deciso a rimanervi fino alla fine dei suoi giorni. Era oramai un servo di Cosimo e, come di ce il Vasari, « ad ogni minimo suo cenno indovinava tutto quel che voleva et di continuo lo ubbidiva ». D’altronde, a settant’anni, contento del poco, e fresco come un ragazzo e senza pensieri, e con una meravi gliosa capacità di lavoro. Immagino Cosimo che si accom miata dal suo vecchio amico, forse, per il timore di non rivederlo, con un po’ più di fred do nel suo freddo cuore. Letto 1988 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||