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ARTE: I MAESTRI: Importanza di Mafai

25 Febbraio 2011

di Cesare Brandi
[dal “Corriere della Sera”, domenica 16 febbario 1969]

Roma, febbraio.

Questa mostra di Mario Mafai che l’Ente Premi Roma ha organizzato, avrebbe dovuto essere fat ­ta dalla Galleria nazionale di arte moderna, poi im ­provvisamente dirottata a palazzo Barberini. Non ne faremo un caso di Stato: ma è certo che, almeno co ­me mostra riassuntiva del nobilissimo artista, che non era stato trattato bene, neanche in morte, tanto a Venezia che a Roma, la Galleria nazionale avrebbe significato una celebrazio ­ne diversa: quella che, per varie ragioni, l’artista non ebbe mai in vita, ancorché sia stato il maggiore che Roma in questo secolo ab ­bia prodotto e rappresenti una figura centrale della pittura italiana fra il 1930 e il 1950. Poi ci furono quegli slittamenti program ­matici, che non spensero l’artista, ma gli cambiaro ­no fisionomia: patetici qua ­dri con i nodi di corda, come tolti dal collo di un impiccato.

La mostra che è stata messa insieme conta 125 di ­pinti e purtroppo non al ­linea i disegni. Ma certo, anche così ridotta, dà una idea adeguata dell’artista, che, per i giovani d’oggi, sembrerà venire più da lon ­tano delle date, mentre a noi, che l’abbiamo cono ­sciuto e apprezzato fin dai primi anni, appare con la fermezza di un mondo for ­male che si solleva dal suo tempo, anche se nel suo tempo affonda le radici. E a questo proposito non bi ­sogna dimenticare che la contestazione al fascismo è insita nei suoi quadri fin dalle famose demolizioni, che si andavano facendo a Roma intorno all’Augusteo, e che a Mafai, romanissimo e libertario, due volte cuocevano.

Più aperta ancora la cri ­tica, e più radicale, nelle splendide fantasie, paralle ­le alle crocifissioni di Manzù: le più alte espressioni, infine, di quella protesta al fascismo che covava sotto la cenere, sotto troppa ce ­nere.

Che questo sia stato il più bel periodo di Mafai, non credo possa essere dubbio: ma non si può non sottolineare quell’alba ro ­sea che furono i bellissimi quadri del ’33-’34, le donne che stendono i panni al so ­le, il nudo coricato sul di ­vano, le donne che si spo ­gliano, il ritratto di Anto ­nietta, per non dire dei fa ­mosi fiori secchi, dei pae ­saggi romani.

Alba rosea, s’è detto, per quei nudi rivelati in una luce fresca, in un’aria leg ­germente appannata, dove, con una felicità di improv ­viso risveglio, la lezione impressionista, che Mafai aveva ricevuto a Parigi nel 1930, si decanta alla luce, al colore di posizione di Morandi. Da questa cultu ­ra di base la pittura di Mafai ebbe come un guiz ­zo, una straordinaria im ­pennata. Entro tale aura doveva recuperare a poco a poco dei colori tutti suoi, quel lilla soprattutto, gli azzurri, certi rossi infuoca ­ti, come fa la fiamma su un volto giovanile, e i suoi verdi smorti, ancora più smorti dei fiori secchi che rappresentavano. Era una gamma stregata, che tra ­scinava connotazioni effet ­tive sue e tante ne suscita in chi lo conobbe. Ma an ­che chi non lo conobbe, di fronte a questi quadri, che invecchiano bene, si depo ­sitano sulla tela con lim ­pidezza, mentre c’era da temere che scurissero, non potrà non sentire l’auten ­ticità del pittore, che tro ­va la conferma proprio in questo fatto che solo ai grandi coloristi appartiene, di legare a sé un colore, una sfumatura, come una firma.

La sua fantasia, su un fondo melanconico, produ ­ceva incantevoli e inattese divagazioni,, conferiva agli oggetti significati segreti, ma sempre contenuti in un ambito figurativo: le tube, i manichini da sarta, le opaline blu, i peperoncini. La sua conversazione era altrettanto svagata, ma con dei punti fermi, dei giudizi precisi come timbri. Il suo studio, in un disordine esemplare, evocava il tro ­varobe e l’accampamento degli zingari, ed egli ne traeva degli stracci che diventavano pittura, quasi come il vino, che ha lo spunto, riesce a divenire aceto, e allora è aceto e non più vino. Così questa natura in frantumi, dalle case demolite agli stracci, appena subisse l’intensifi ­cazione della pittura. Ora che la pittura velocemente è scomparsa, come per una improvvisa falla aperta nella nostra civiltà, l’esempio di questa pittura-pittura dovrebbe rinnovare l’interesse per il gentilissimo ar ­tista romano, nel senso non già di conferirgli un’attua ­lità nuova, ma in quello di restituirgli il suo posto nel ­la storia della pittura del Novecento, un posto non da comprimario ma da pittore autentico : né sono molti, appena quattro o cinque, di cui, per quel tempo, si può dire lo stesso, in Italia almeno.


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