ARTE: I MAESTRI: L’arte moltiplicata26 Gennaio 2013 di Gillo Dorfles L’arte specchio della società. Lo si è ripe tuto e lo si ripete di continuo: ma di solito se ne avvedono solo i mercanti, gli artisti e i pochi acquirenti illuminati; quelli, cioè, che, in qualche modo, ci guadagnano o ci rimettono. Il cosiddetto pubblico se ne accorge soltanto col dovuto ritardo, quando ormai l’arte non rispecchia più la società ma l’atmosfera cristal lizzata e frigida dei musei. Ma questa volta se n’accorgerà anche il pub blico minuto, quello che può raggranellare qualche migliaio (e non centinaio di migliaio o milione) di lire e con queste poche migliaia comprare: un â— non quadro, non pittura, non scultura â— ma un multiplo. Perché il multi plo â— questa nuova « entità » estetica consi stente in una replica serale d’un prototipo creato apposta per l’iterazione â— in realtà è qualcosa di meno ma anche di molto più d’una « copia » d’un esemplare unico; di quell’uni cum tanto accarezzato dalle avide mani del collezionista, del mecenate, del direttore di museo. Ed è certo molto di più (anche se sem bra che sia la stessa cosa) d’una copia d’inci sione (lito-xilo-serigrafica) tirata in X esemplari numerati, e a maggior ragione d’una di quelle sciagurate riproduzioni a colori (che rifanno persino il verso alla pasta del colore) e che tanti si tengono in casa, quasi fossero i dipinti originali dei grandi impressionisti. Col che non voglio affermare che in futuro l’arte sarà esclusivamente fatta di multipli, né che sia ormai decisamente da abbandonare ogni speranza di poter dipingere un quadro, scolpire una statua. No: è probabile che l’uomo â— o almeno il bambino e il demente (che sono poi due delle più genuine versioni dell’uomo d’oggi e di sempre) â— continui a stendere manualmen te colori sulla carta, a manipolare creta (o pla stilina) per dar vita (si noti la metafora cosmo logica!) a un’opera, a un artefatto, di tipo artigianale. Ed è anche probabile â— non dico auspicabile â— ma prevedibile, che in un pros simo domani, la reazione al Zeitalter der technischen Reproduzierbarkeit: all’epoca della riproducibilità tecnica, conduca a un’epoca in cui l’unicum preziosissimo, irriproducibile, sia feticisticamente idolatrato, magari sino al punto d’esserne vietata la riproduzione fotografica. (Non si narra forse di certi sacerdoti [o santo ni] indiani che proibiscono di fotografare i si mulacri venerandi di Budda, di Shiva, e, se per caso un fotografo incauto scatta l’obbiettivo nonostante il divieto, riescono ad annullare, per virtù di magìa, l’immagine rendendo insen sibilizzata la pellicola?). Ma queste sono cose d’un passato magico ed esoterico o d’un futuro mitagogico e feti cistico che non ci riguardano. Nella recente mostra « Ars multiplicata » di Colonia si fa risalire la vicenda moltiplicatoria già all’epoca dadà, alle litografie di Picasso, a certi ready-made. In realtà non si dovrebbe parlare di « multipli », nel senso odierno, a proposito delle normali incisioni; il multiplo dovrebbe essere considerato come un’opera a se stante concepita per essere eseguita in serie â— piccola o grande â— ma comunque decisa mente iterabile. Non dunque come quelle « statue » (in bronzo: tipo Moore o Marino o Rodin) che, ovviamente, si possono replicare e si replicano, anche in numerosi esemplari facendone un calco ma che sono state concepite come uniche, con tutte le loro belle patine a posto e la loro volutamente esibita preziosità manuale e « materica ». Tra i multipli a cui mi riferisco ce ne sono, ad. es., diversi prodotti dalla Galleria del De posito (di Vasarely, Bill, Carmi, Castellani, Gerstner, ecc.), da Denise René, dall’Obelisco (di Pierelli), da Danese (di Mari, Munari), da Tosi (di Fontana, Baj, Raysse, Bury) e ormai da tutta una serie di negozi e di gallerie. Una galleria di Colonia, ad es., La Galerie Reckermann, esponeva di recente una quantità di multipli provenienti da diverse « edizioni » (si noti, come per il multiplo si è adottata la stessa dizione che per il libro) tra i quali figuravano i seguenti artisti: Alviani, Arp, Bill, Bonalumi, Castro, D’Arcan gelo, Demarco, Takis, Talman, Tomasello, Vasarely, Warhol, Segai, Sobrino, Sommer, Soto, Dine, Kampmann, Le Pare, Lenk, Mack, Oehm, Morellet, Quinte, Oldenburg, ecc. Per chi abbia anche una minima dimesti chezza con i personaggi dell’arte visuale più recente, risulterà tosto evidente che si tratta di artisti tra i più quotati dei nostri giorni, appartenenti tanto a correnti costruttiviste e cinetiche, quanto a correnti pop, e op, e so prattutto alle più recenti tendenze « ogget tuali » e strutturali. Anche i prezzi variano moltissimo: da un centinaio di marchi (quindicimila lire) a un multiplo di Arp in duralluminio, in cinque esemplari, che vale 12.000 marchi (quasi due milioni). Quest’ultimo caso è di nuovo evi dentemente feticistico: l’opera di Arp tirata in solo cinque esemplari acquista l’alto prezzo solo per un mero fatto mercantile, e perché, data la morte dell’artista, non può più essere replicata e firmata. Ma dovrebbe essere ovvio a chiunque che il « valore artistico » non mu terebbe se se ne tirassero altre centinaia di copie, dato che si tratta appunto non di repli che ma di esemplari identici. Ogni limitazione numerica mi sembra, a questo proposito, del tutto arbitraria e snobistica: è come se di una macchina da scrivere Olivetti Lexicon, esistessero esemplari firmati da Nizzoli, e di valore infinitamente superiore a quelli in com mercio. Ed è quello che rende assurdamente costose le vecchie automobili riesumate e river niciate, e funzionanti per l’esclusiva gioia dei loro possessori. Attribuire un prezzo maggiore a un’opera rara è lecito solo finché l’opera sia manualmente eseguita. Altrimenti si cade dall’estetica alla filatelica. Il valore del « Gron chi – rosa » non è certo dovuto al fatto che sia « più bello » d’un altro francobollo (o del « vero Gronchi »!). Val quanto affermare che quel che interessa â— ai collezionisti e ai mu seologhi â— è la rarità dell’opera non il suo valore artistico: e purtroppo ritengo che quasi sempre si tratti proprio di questo: d’una men talità filatelica, cioè, non artistica. Altrimenti non ci sarebbero tante levate di scudi di fronte a ottime imitazioni di medio cri artisti moderni o recenti che â— semmai â— giovano pubblicitariamente agli stessi, anche se li danneggiano economicamente. Questi multipli, dunque, sono di solito tri dimensionali ma possono anche essere superfici più o meno strutturate e tissurali (Alviani, Picelj), possono essere costruite in parte artigianalmente ma comunque in grado d’es sere replicate industrialmente. La loro carat teristica è soprattutto una: abolire il concetto dell’unicità dell’opera; permettere a chiunque di esserne partecipe. Certo, è difficile per suadere l’uomo della strada dell’utilità d’un oggetto inutile (e per di più non « prezioso »). Eppure quello stesso borghese-della-strada che non compra ancora i multipli, compra â— e come! â— le oleografie da mettere sul cami netto, i santini, i ritrattini, i cagnolini per il lunotto della sua macchinetta; il mangiadi schi e i relativi dischi dell’ultimo Sanremo; e molte altre « cose » inutili e il cui « godi mento » è quanto mai transeunte. Credo, dunque, che i multipli (e molte delle opere d’arte odierne) non siano ancora com prati abbondantemente perché non si vuol ammettere che pure esse siano, possano essere, transeunti. L’idea delle briciole minutissime d’intonaco sbocconcellato, accuratamente ricom poste dopo le esplosioni belliche o le inon dazioni pacifiche nei nostri musei, nelle nostre chiese, ha riconfermato nella mente dei più la convinzione che l’opera d’arte sia stata creata per l’eternità; che valga più un Giotto oggi che un Mondrian domani. E, da ultimo, qualche comune obiezione rivolta di solito ai multipli: 1) « L’artefatto industrializzato è privo d’originalità? ». Risposta: l’originalità in que sti casi sta prima anziché dopo. All’inizio del l’operazione, nella progettazione, anziché nel l’opera manualmente ultimata. 2) « C’è sempre il pericolo dell’imita zione, del falso? ». Risposta: molto meno che per l’opera unica; intanto perché « non ne varrebbe la pena (la spesa) » e poi perché non avrebbe nessuna importanza. (In realtà ne ha poca, anche nel caso dell’opera d’arte tradi zionale; un’ottima contraffazione è altrettanto « bella » dell’originale; è solo il consueto aspetto feticistico della società capitalizzatrice a tornare a galla). 3) « E se un artista sentisse ancora l’ur genza di dipingere e scolpire a mano, come una volta? », Risposta: nessuno glielo vieta, e può darsi che un giorno qualcuno trovi una nuova strada di là dalla barriera tecno logica che oggi condiziona la creatività arti stica.
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