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ARTE: I MAESTRI: Sironi

30 Gennaio 2016

di Raffaele Carrieri
[dal “Corriere della Sera”, domenica 29 settembre 1969]

Negli ultimi anni lo vedevo poco: Sironi usciva rara ­mente. Se uno lo chiamava al telefono doveva fare il nume ­ro tre o quattro volte. E quan ­do dopo un quarto d’ora ri ­spondeva, la voce sembrava salire da un sotterraneo.

I colpi di telefono lo irri ­tavano. Chissà che rimbombo nelle camere vuote, piene so ­lo di pittura e dell’orgasmo di Sironi nel fare pittura. La sua non era una professione, un mestiere ben fatto, una nor ­male vocazione. La pittura lo bruciava, lo inceneriva, lo massacrava e lo faceva vive ­re. Non aveva tempo per nessun’altra cosa.

Lo conoscevo bene anche se lo vedevo poco. Al telefono si scusava per il suo cattivo carattere. Due cattivi caratte ­ri messi assieme avevano crea ­to una reciproca affezione.

Mi dava spesso notizie di Si ­roni il nostro barbiere, Luigi Gobbi. Di tanto in tan ­to mi leggeva le cartoline che il pittore gli mandava dal La ­go Maggiore, da San Remo e da Cortina nei mesi estivi. Si ­roni scriveva poco, e anche quel poco con fatica: non ave ­va fiducia nel prossimo.

Trascrivo qualcuna di que ­ste cartoline. Da Pallanza: « Caro Gobbi, le mando il pa ­norama del lago prima dell’evaporazione completa avvenuta in questi giorni. Non c’è più niente, solo un po’ di fumo… ».

Da San Remo: « Di me non so dire nulla. C’è un mucchietto di rifiuti qui davanti, nel ­l’orto, e mi sembra la mia vi ­ta, il mio cuore, le mie spe ­ranze… ».

Da parecchi anni Sironi non stava bene; portava le sue gambe malferme da un me ­dico all’altro. I soggiorni in ospedali e cliniche erano fre ­quenti: l’ultimo, anzi il penultimo era durato due anni.

Qualche mese prima che lo ricoverassero alla clinica Capitanio, in via Mercalli, pre ­gai Gino Ghiringhelli che lo vedeva con una certa frequen ­za, di chiedere a Sironi un’ora per un incontro.

Lo stesso giorno Sironi mi telefonò per dirmi che potevo andarlo a trovare la sera stessa.

Abitava verso il viale Monterosa, dalle parti della Fiera. Mi accompagnò Ghirin ­ghelli. Una casa triste con un lungo corridoio oscuro come il cunicolo di una miniera. In fondo al corridoio c’era lo studio, ancora più scuro. Era la fine dell’inverno e il ter ­mosifone era acceso al massi ­mo: faceva molto caldo. Nel locale dello studio, oltre al termosifone era accesa anche la stufa, una di quelle stufe in ferro coi tubi a serpentina.

Sironi era in un’altra ca ­mera. L’appartamento piutto ­sto esteso, gremito di carte e polvere, sembrava disabitato. Sironi si stava facendo la bar ­ba. Aspettammo un po’, poi Sironi ci raggiunse; sbarbato ma con un po’ di sapone sulle guance. Camminava con fa ­tica; si vedeva dalla fronte e dagli occhi che compiva uno sforzo di volontà a muovere le gambe e trascinarle. Per facilitargli il percorso, sia pu ­re breve, feci qualche passo. Prima che avessi potuto rag ­giungerlo, barcollò e cadde. Lo aiutammo a sollevarsi.

Era sconvolto, ma riuscì a dominarsi. La sua bella e for ­te testa di ingegnere riemerse dal dolore e dalla stanchezza. Per toglierci d’imbarazzo co ­minciò a scherzare, a parlar male delle sue gambe. Sulla poltrona su cui era seduto, a poca distanza dal ­le spalle, era appeso senza cor ­nice e di traverso un grande dipinto ancora fresco. In un paesaggio ardente tutto cospar ­so di rocce e doline delle fi ­gure accovacciate e come le ­gate a roghi incompiuti. Ogni grotta aveva una figura sca ­vata dentro: il fuoco della roccia era simile al fuoco delle figure. Una combustione straordinariamente compatta in ogni spazio, da ogni parte.

Non voleva parlare di pittura e non parlammo di pittura. Non potevo distogliere gli occhi dal quadro che gli sfio ­rava i capelli come una colon ­na di Apocalisse, un vulcano biblico immobile nella sua in ­candescenza. Non potevo di ­strarmi né guardare altrove. L’ho ancora davanti e mai lo dimenticherò.

Restammo insieme più di tre ore. Si fece tardi. Sironi si intrattenne dimenticando la cena e le medicine: gli piaceva parlare di bestie, di uc ­celli, di cani, di animali in genere. Aveva cominciato a ricordare i cani che aveva avu ­to e amato, specie dell’ultimo, la cagna Pepina che in tanti anni gli fece compagnia e mo ­rì di vecchiaia.

La voce di Sironi si era co ­me rischiarata. Grave anco ­ra, ma di quella gravità dol ­ce e sconsolata che assume la tristezza quando si fa umana, priva di rancore e di risentimenti. Priva anche di spe ­ranza.

Sironi morì nell’agosto 1961 alle nove del mattino in una clinica di Milano il gior ­no più caldo dell’anno; que ­sto giorno era una domenica deserta come sono le dome ­niche milanesi alla vigilia di Ferragosto. Anche il caldo ha una specie di squallore. Le strade sono vuote. Troppa lu ­ce da tutte le parti e le mac ­chine ferme non fanno pen ­sare al moto ma a una immo ­bilità pesante, in zone d’om ­bre altrettanto immobili. I tassametri, gli autocarri fermi agli angoli tante volte dipinti da Sironi nella squallida geometria dell’estate milanese.

La domenica le ciminiere delle fabbriche sono senza fumo e stanno zitte anche le sirene. Come un ingegnere che ha lavorato tutta la settimana si attarda un po’ di più nel giorno del riposo festivo; co ­me un ingegnere interrompe il lavoro, Sironi ha smesso il suo. Una officina, una grande officina ferma. Un pittore di genio simile a una officina.


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