ARTE: I MAESTRI: Sironi30 Gennaio 2016 di Raffaele Carrieri Negli ultimi anni lo vedevo poco: Sironi usciva rara mente. Se uno lo chiamava al telefono doveva fare il nume ro tre o quattro volte. E quan do dopo un quarto d’ora ri spondeva, la voce sembrava salire da un sotterraneo. I colpi di telefono lo irri tavano. Chissà che rimbombo nelle camere vuote, piene so lo di pittura e dell’orgasmo di Sironi nel fare pittura. La sua non era una professione, un mestiere ben fatto, una nor male vocazione. La pittura lo bruciava, lo inceneriva, lo massacrava e lo faceva vive re. Non aveva tempo per nessun’altra cosa. Lo conoscevo bene anche se lo vedevo poco. Al telefono si scusava per il suo cattivo carattere. Due cattivi caratte ri messi assieme avevano crea to una reciproca affezione. Mi dava spesso notizie di Si roni il nostro barbiere, Luigi Gobbi. Di tanto in tan to mi leggeva le cartoline che il pittore gli mandava dal La go Maggiore, da San Remo e da Cortina nei mesi estivi. Si roni scriveva poco, e anche quel poco con fatica: non ave va fiducia nel prossimo. Trascrivo qualcuna di que ste cartoline. Da Pallanza: « Caro Gobbi, le mando il pa norama del lago prima dell’evaporazione completa avvenuta in questi giorni. Non c’è più niente, solo un po’ di fumo… ». Da San Remo: « Di me non so dire nulla. C’è un mucchietto di rifiuti qui davanti, nel l’orto, e mi sembra la mia vi ta, il mio cuore, le mie spe ranze… ». Da parecchi anni Sironi non stava bene; portava le sue gambe malferme da un me dico all’altro. I soggiorni in ospedali e cliniche erano fre quenti: l’ultimo, anzi il penultimo era durato due anni. Qualche mese prima che lo ricoverassero alla clinica Capitanio, in via Mercalli, pre gai Gino Ghiringhelli che lo vedeva con una certa frequen za, di chiedere a Sironi un’ora per un incontro. Lo stesso giorno Sironi mi telefonò per dirmi che potevo andarlo a trovare la sera stessa. Abitava verso il viale Monterosa, dalle parti della Fiera. Mi accompagnò Ghirin ghelli. Una casa triste con un lungo corridoio oscuro come il cunicolo di una miniera. In fondo al corridoio c’era lo studio, ancora più scuro. Era la fine dell’inverno e il ter mosifone era acceso al massi mo: faceva molto caldo. Nel locale dello studio, oltre al termosifone era accesa anche la stufa, una di quelle stufe in ferro coi tubi a serpentina. Sironi era in un’altra ca mera. L’appartamento piutto sto esteso, gremito di carte e polvere, sembrava disabitato. Sironi si stava facendo la bar ba. Aspettammo un po’, poi Sironi ci raggiunse; sbarbato ma con un po’ di sapone sulle guance. Camminava con fa tica; si vedeva dalla fronte e dagli occhi che compiva uno sforzo di volontà a muovere le gambe e trascinarle. Per facilitargli il percorso, sia pu re breve, feci qualche passo. Prima che avessi potuto rag giungerlo, barcollò e cadde. Lo aiutammo a sollevarsi. Era sconvolto, ma riuscì a dominarsi. La sua bella e for te testa di ingegnere riemerse dal dolore e dalla stanchezza. Per toglierci d’imbarazzo co minciò a scherzare, a parlar male delle sue gambe. Sulla poltrona su cui era seduto, a poca distanza dal le spalle, era appeso senza cor nice e di traverso un grande dipinto ancora fresco. In un paesaggio ardente tutto cospar so di rocce e doline delle fi gure accovacciate e come le gate a roghi incompiuti. Ogni grotta aveva una figura sca vata dentro: il fuoco della roccia era simile al fuoco delle figure. Una combustione straordinariamente compatta in ogni spazio, da ogni parte. Non voleva parlare di pittura e non parlammo di pittura. Non potevo distogliere gli occhi dal quadro che gli sfio rava i capelli come una colon na di Apocalisse, un vulcano biblico immobile nella sua in candescenza. Non potevo di strarmi né guardare altrove. L’ho ancora davanti e mai lo dimenticherò. Restammo insieme più di tre ore. Si fece tardi. Sironi si intrattenne dimenticando la cena e le medicine: gli piaceva parlare di bestie, di uc celli, di cani, di animali in genere. Aveva cominciato a ricordare i cani che aveva avu to e amato, specie dell’ultimo, la cagna Pepina che in tanti anni gli fece compagnia e mo rì di vecchiaia. La voce di Sironi si era co me rischiarata. Grave anco ra, ma di quella gravità dol ce e sconsolata che assume la tristezza quando si fa umana, priva di rancore e di risentimenti. Priva anche di spe ranza. Sironi morì nell’agosto 1961 alle nove del mattino in una clinica di Milano il gior no più caldo dell’anno; que sto giorno era una domenica deserta come sono le dome niche milanesi alla vigilia di Ferragosto. Anche il caldo ha una specie di squallore. Le strade sono vuote. Troppa lu ce da tutte le parti e le mac chine ferme non fanno pen sare al moto ma a una immo bilità pesante, in zone d’om bre altrettanto immobili. I tassametri, gli autocarri fermi agli angoli tante volte dipinti da Sironi nella squallida geometria dell’estate milanese. La domenica le ciminiere delle fabbriche sono senza fumo e stanno zitte anche le sirene. Come un ingegnere che ha lavorato tutta la settimana si attarda un po’ di più nel giorno del riposo festivo; co me un ingegnere interrompe il lavoro, Sironi ha smesso il suo. Una officina, una grande officina ferma. Un pittore di genio simile a una officina. Letto 1720 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||