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ARTE: I MAESTRI: Janua Coeli

29 Dicembre 2010

di Cesare Brandi
(dal “Corriere della Sera”, Lunedì 31 agosto 1970)

Come tutti sanno, anche se la Chiesa ha abolito il lati ­no, la porta del Cielo è la Madonna e non la porta di chiesa: il fervore di giustifica ­re un atto senza precedenti, do ­po che per ben tre volte il quesito era stato proposto al Consiglio Superiore, ha fatto sì che le porte di Greco sia ­no state elevate a questa po ­tenza, di spalancare il cielo an ­che a chi non sa più la dottrina cristiana e le litanie della Ma ­donna.

Nella polemica che ne è se ­guita, si son voluti fare dei distinguo, unificare casi diver ­si, livellare giudizi di valore. Perché Manzù sì, e Greco no? Perché a Siena, a Milano, a S. Maria Maggiore a Roma sì, e a Orvieto no? Donde gli sfondoni che la Basilica di S. Pietro, il Duomo di Milano e quello di Siena sarebbero mo ­numenti più significativi del Duomo di Orvieto.

Come non può esserne di ­sorientata l’opinione pubblica?
Ma io non credo affatto che sia disorientata, la si vuol disorientare, senza riuscirci, ec ­co tutto.

Vi sono delle questioni che in realtà sono passate in giu ­dicato, ma che artificialmente si riattizzano per interessi più o meno puliti e ragioni politi ­che passeggere. Tra queste sta la questione delle inserzioni moderne nei contesti antichi. Sorta soprattutto per i centri storici, non c’è più un urba ­nista che si rispetti, che venga a sostenerne apertamente la legittimità. Sono passati i tem ­pi per le euforie della Borsa di Pistoia o per la stazione di Firenze; ora si sa che qual ­siasi inserzione del nuovo nel vecchio è un errore, che l’ar ­chitettura moderna, quando è degna di questo nome, recla ­ma un suo spazio che non può che collidere con quello del ­l’architettura antica, o anche soltanto passata.

Naturalmente avvengono le inserzioni di prepotenza, per beneficio di congreghe o di Banche onnipotenti, come a Venezia o a Firenze, ma ciò non risolve in senso favorevo ­le una questione condannata, come il delitto non abolisce il diritto. In un certo senso lo conferma, confermandone la necessità.

Se dunque le inserzioni più violentemente richieste, come quelle legate ai formidabili in ­teressi delle costruzioni civili, non rappresentano più un pro ­blema, ma un sopruso, le in ­serzioni nuove, plastiche o pit ­toriche, nei contesti monumen ­tali non sono meno da esclu ­dersi in senso generale, o tut ­to al più da rivedersi caso per caso, quando possa darsi il caso rarissimo che nuove in ­serzioni avvengano in un con ­testo in cui non turbino l’equi ­librio generale raggiunto da se ­coli. E’ il caso dell’atrio di S. Pietro. Le porte non stanno in facciata ma nel lungo corridoio del Maderno.

Nell’atrio di S. Pietro, la porta del Filarete è chiara ­mente un arcaismo: nata per la vecchia Basilica circa un secolo e mezzo prima, sta lì entro le modanature del Ma- derno, fuori fase e fuori misu ­ra, ancora con il suo schiac ­ciato donatelliano e gli ornati di gusto tardo romano, dove le membrature madernesche ne accentuano in senso depri ­mente la modulazione quattro ­centesca, più lineare che pla ­stica. Qui insomma si ha l’ar ­chitettura che schiaccia la por ­ta, ma la porta è ben altra opera d’arte dell’architettura.

Delle altre porte che si so ­no aggiunte, sulla cui medio ­crità, eccettuato quella di Manzù, non vale insistere, si fa notare che non possono mai essere vedute contempo ­raneamente, ciascuna è un ca ­so a sé, e, sempre con l’ecce ­zione di Manzù, sono felice ­mente schiacciate, una alla volta, dall’architettura. Quan ­do si arriva a quella di Man ­zù, il contrasto che potrebbe esserci con le modanature ma ­nieristiche del Maderno, è evi ­tato perché i rilievi si isola ­no, come in sospensione nel vano della porta.

Se questa sia la ragione del ­la straordinaria congruenza fra i due complessi, può es ­sere accetta o meno: ma se non si accetta, non ci se ne può fare un’arma per opera ­re il trapasso illecito che, co ­me stanno a S. Pietro, porte moderne possono inserirsi, e figurate per giunta, ovunque, e magari a S. Petronio a Bo ­logna, in contiguità con Jacopo della Quercia. Perché que ­sto è un secondo argomento che non va lasciato in dispar ­te, la contiguità fra sculture moderne e sculture antiche.

Se per l’architettura, potrà realizzarsi un regime di for ­tuna o addirittura felice â— ad esempio nella facciata li ­scia e spoglia della Chiesa di Rotterdam (del resto quasi del tutto rifatta dopo la guerra) e la porta di Manzù â— una con ­tiguità fra scultura antica e scultura moderna è del tutto da respingersi, proprio perché alla concezione spaziale con ­trastante si aggiungono gravis ­simi, inevitabili contrasti ad altri livelli, quello formale pri ­ma di tutto, che rendono l’u ­nione impossibile. Se perfino fra scultura del Rinascimento e scultura barocca l’accosta ­mento è stridente (proprio in S. Pietro, a Roma, i due capo ­lavori del Pollaiolo sono quan ­to meno ridotti al silenzio dal Bernini e seguaci, e meglio starebbero in museo, figurarsi poi dove la continuità di cul ­tura si è rotta e lo spazio go ­tico o rinascimentale hanno cessato di esistere.

Così una facciata è fatta per essere veduta in una sola occhiata, e se nella sua strut ­tura riceve all’improvviso un arresto o una contraddizione, non solo viene a soffrirne in quel punto, ma in tutto l’in ­sieme.

Riconosciuto questo in via preliminare, sarebbe inutile fa ­re degli esempi se la pervi ­cacia con cui si vuole con ­fondere le acque non esigesse qualche precisazione. Comin ­ciamo col Duomo di Milano. La facciata del Duomo è sta ­ta interrotta e ripresa per se ­coli: le inserzioni manieristi ­che del Pellegrini, il comple ­tamento a tastoni ottocente ­sco, ne fanno uno spettacola ­re pastiche di neo-gotico. Tut ­tavia era bene non inserire porte figurate neanche nella facciata del Duomo di Mila ­no: se la cosa fa minore scan ­dalo, deriva dal fatto che nel ribollimento chiaroscurale di questo neo-gotico sovraccarico, per accorgersi delle porte bi ­sogna andare da vicino, e allora tanto più in fretta ci si distoglie da guardarle. Insom ­ma, nella visione frontale del ­la facciata, le porte si lique ­fano, non si riesce ad accor ­gersene.

Ben altrimenti successe a Siena. Si sa che avrebbe do ­vuto farle, a cose ormai con ­cluse, Donatello. La facciata del Duomo di Siena, iniziata da Giovanni Pisano e poi ri ­maneggiata e conclusa solo nell’Ottocento, con i mosaici delle cuspidi, poi sostituita in quasi tutte le parti scultoree, dalle statue alle modanature gotiche, eccettuato, guarda un po’, l’architrave di Tino di Camaino, aveva porte decorosissime non figurate, che rien ­travano in quella che era sta ­ta la riplasmatura generale della facciata nel Seicento. La buon’anima d’un arcivescovo ebbe l’idea che, dove era man ­cato Donatello, si poteva ten ­tare di trovarne uno nuovo. Questo accade quando si vuol fare l’altrui mestiere e pas ­sare dalla cura di anime a quella delle cose dell’arte.

Fatto il concorso la Com ­missione era stata unanime nel respingere tutti i bozzetti e seppellire l’idea: non l’ar ­civescovo a cui la notte portò consiglio, ahimè, in senso contrario, e la mattina disfece ogni cosa, coadiuvato da monsignor Fallani, a cui, pur ­troppo, la triste esperienza di Siena non ha tolto l’interesse a simili imprese fallimentari, donde Orvieto. Ma che l’espe ­rienza di Siena sia eloquente e fallimentare, è fuor di dub ­bio, ed è singolare che il Greco, nella sua disordinata autodifesa, vi si riferisca per accusare chi approvò quella di Siena.

Ma ad Orvieto, anche sen ­za critica strutturale, lo ve ­devano anche gli orbi che il massimo rilievo era stato dato, e intenzionalmente, ai larghi e grandi pilastri, inca ­ricati di offrire una specie di biblia pauperum in bassori ­lievo. Codeste larghe pagine avoriate, concepite in stile quasi miniaturistico proprio per non frenare alla base lo slancio verticale dei pilastri splendenti, che puntano al cielo, mi si perdoni il neolo ­gismo, come missili, non am ­mettevano la possibilità di in ­serire, all’interno degli strom ­bi immani dei portali, altra cosa che non fosse una bat ­tuta d’arresto, una sospensio ­ne dal fitto luminismo che veste la facciata intera.

Contrariamente all’esperien ­za francese (e se ce n’è di esperienza francese ad Or ­vieto!) dove è negli strombi dei portali che si concentrano gli episodi plastici, qui gli strombi rappresentano solo il modularsi dell’interno della facciata per ricongiungersi all’interno della Chiesa. Non costituiscono il cannocchiale per vedere una porta scolpi ­ta, ma proprio il cono visivo per mettere a fuoco la porta come ingresso e non come cesura, la porta in quanto si apre e non quella in quanto si chiude. La Madonna sotto il baldacchino, che sta sopra l’architrave principale, diveni ­va perciò il punto focale del ­la facciata, sotto cui si en ­trava non già nella Janua Coeli, ma nella chiesa, come corpo mistico di Cristo, e, guarda un po’, proprio nella Chiesa eretta per conservare la vestigia del corpo del Si ­gnore.

Dunque anche dal punto di vista della probabile in ­tenzionalità religiosa che sot ­tofonda la facciata, a quel punto, all’ingresso della Chie ­sa, si chiudeva un mondo e ne cominciava, all’interno, un altro. Ma dal punto di vista estetico è chiaro che qual ­siasi inserzione figurata o co ­munque istoriata rappresenta una manomissione gravissima del concetto informatore, che, attraverso le epoche e gli in ­terventi diversi, era riuscito a sopravvivere. Perché i mo ­saici, su cui spesso si sente infierire, non rappresentano affatto una sovrapposizione al principio formale originario che voleva la qualificazione della superficie, della prima pelle della facciata. Si diversificano per epoca e per qua ­lità, ma non si diversificano entro l’impianto originario. Dove invece le porte di Gre ­co costituiscono un arresto, una zavorra intollerabile. E soprattutto quella centrale, dal modulo senza confronti nell’ambito della facciata, dai grossi volumi come pani mal lieviti che negano in una sola volta e la filigrana dei pilastri e il tremulo infittirsi di ombre e luci dello strom ­bo. Fosse pure, e non lo è, quella grande opera d’arte che qualche imprudente so ­stiene, sarebbe sempre un er ­rore imperdonabile avercela messa e lasciarcela.


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