ARTE: Metafisica: I MAESTRI: Giorgio De Chirico: Sull’arte metafisica #3/631 Dicembre 2009 [da: Massimo Carrà: “Metafisica”, Mazzotta, 1968] Ci vorrebbe un controllo continuo dei nostri pensieri e di tutte quelle immagini che si presentano alla nostra mente anche quando ci troviamo allo stato di veglia ma che pure hanno una stretta parentela con quelle che vediamo nel sogno. Momenti felici ma incoscienti di metafisica si possono osservare tanto nei pittori quanto negli scrittori; e a proposito di scrittori voglio qui ricordare un vecchio provinciale di Francia che chiameremo, tanto per intenderci: l’esploratore impantofolato; voglio parlare precisamente di Giulio Verne che scrisse romanzi di viaggi e d’avventure e che passa per uno scrittore ad usum puerorum. Ma chi meglio di lui seppe azzeccare la metafisica di una città come Londra, nelle sue case, le sue strade, i suoi clubs, le sue piazze, i suoi squares. La spettralità d’un pomeriggio domenicale londinese, la malinconia d’un uomo, vero fantasma ambulante, come appare Phileas Fogg nel «Giro del mondo in 80 giorni ». L’opera di Giulio Verne è piena di questi felici e consolantissimi momenti; ricordo ancora la descrizione della partenza del piroscafo da Liverpool nel romanzo « La città galleggiante ». ARTE NUOVA Lo stato inquieto e complicato della nuova arte non è un caso do vuto ai capricci del destino, né una brama di novità e d’arrivismo di pochi artisti, come alcuni innocentemente credono. E’ invece uno stato fatale dell’umano spirito che, retto da leggi matematicamente fisse, ha flussi e riflussi, partenze e ritorni e rinascite, come tutti gli elementi che si manifestano sul nostro pianeta. Un popolo sul principio della sua esistenza ama il mito e la leggenda, il sorprendente, il mostruoso, l’inspiegabile e si rifugia in essi; con l’andare dei tempi, maturandosi in una civilizzazione, sgrossa le immagini primitive, le riduce, le pla sma secondo le esigenze del suo spirito chiarito e scrive la sua storia scaturita dai miti originar!. Un’epoca europea come la nostra, che por ta in sé il peso stragrande di tante e poi tante civilizzazioni e la matu rità di tanti periodi spirituali è fatale che produca un’arte che da un certo lato somigli a quella delle mitiche inquietudini; tale arte sorge per opera di quei pochi dotati di particolare chiaroveggenza e sensibi lità. Naturalmente tale ritorno porterà in sé i segni delle epoche grada-tamente antecedenti donde il nascere d’un arte enormemente compli cata e polimorfa nei vari aspetti dei suoi valori spirituali. Pertanto l’arte nuova non è un andazzo dei tempi. Cionondimeno è inutile credere co me certi illusi e certi utopisti che essa possa redimere e rigenerare l’umanità; che essa possa dare all’umanità un nuovo senso della vita, una nuova religione. L’umanità è e sarà sempre ciò che è stata. Accetta ed accetterà sempre più quest’arte; arriverà il giorno in cui andrà nei musei a guardarla e a studiarla; ne parlerà un giorno con disinvoltura e naturalmente come oggi fa per i campioni dell’arte più o meno remo ta, ma che elencati e catalogati hanno oramai il posto ed il loro piedestallo fisso nei musei e nelle biblioteche del mondo. Il fatto della comprensione è una cosa che ci inquieta oggi; domani non più. Essere o non essere capiti è un problema di oggi. Anche nelle nostre opere morirà un giorno per gli uomini l’aspetto della pazzia, cioè di quella pazzia che loro vedono, poiché la grande pazzia e che è appunto quella che non appare a tutti, esisterà sempre e continuerà a gesticolare e a far dei segni dietro il paravento inesorabile della materia. FATALIT퀑 GEOGRAFICA Dal punto di vista geografico era fatale che una prima manifesta zione cosciente di grande pittura metafisica nascesse in Italia. In Fran cia ciò non poteva accadere. La talentuosità facilona ed il ben colti vato gusto artistico, mescolato a quella tal dose di esprit (non solo nell’uso esagerato del calembour), che infarina il 99 per cento degli abitanti di Parigi, soffoca ed inceppa lo sviluppo di uno spirito profe tico. Il nostro terreno invece è più propizio alla nascita ed allo sviluppo di tali animali. La nostra inveterata gai/ertene e lo sforzo che di conti nuo dobbiamo fare per assuefarci ad una concezione di leggerezza spirituale hanno come conseguenza diretta il peso della nostra cronica tristezza. Pertanto risulterebbe vero che solo tra simile gregge possono sorgere i grandi pastori, così come i più monumentali profeti che no veri la storia spuntarono d’infra le tribù e i popoli più infelici nel desti no. L’Ellade, estetica nell’arte e la natura, non poteva partorire un pro feta, ed il filosofo greco più profondo che io conosca, Eraclito, meditò su altre sponde, meno felici, perché più vicine all’inferno dei deserti. PAZZIA E ARTE. Che la pazzia sia fenomeno inerente in ogni profonda manifesta zione d’arte ciò è una verità d’assioma. Schopenhauer definisce il pazzo l’uomo che ha perduto la memo ria. Definizione piena d’acume che infatti ciò che fa la logica dei nostri atti normali e della normale nostra vita è un rosario continuo di ricor di dei rapporti tra le cose e noi e viceversa. Pigliamo un esempio: io entro in una stanza, vedo un uomo seduto sopra un seggiola, dal soffitto vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri; tutto ciò mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammet tiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti dal la mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà allora quale stupore, quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione pro verei io mirando quella scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sott’un altro angolo. Eccoci all’aspetto metafisico delle cose. Deducendo si può concludere che ogni cosa abbia due aspetti: uno corrente quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in mo menti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica, così come certi corpi occultati da materia impenetrabile ai raggi solari non possono apparire che sotto la potenza di luci artificiali quali sarebbero i rag gi X, per esempio. lo però da qualche tempo sono propenso a credere che le cose oltre che i due aspetti suddetti possono averne anche altri (terzo, quar to, quinto aspetto), tutti differenti dal primo ma aventi una stretta paren tela con il secondo o metafisico. I SEGNI ETERNI. Ricordo la strana e profonda impressione che mi fece da bam bino una figura vista in un vecchio libro che portava il titolo « La Terra prima del diluvio ». La figura rappresentava un paesaggio dell’epoca terziaria. L’uomo non c’era ancora. Ho di sovente meditato su questo strano fenomeno dell’assenza umana nell’aspetto metafisico. Ogni opera d’arte profonda contiene due solitudini: una che si potrebbe chiamare: solitudine pla stica e che è quella beatitudine contemplativa che ci da la geniale co struzione e combinazione delle forme (materie o elementi morti-vivi o vivi-morti; la seconda vita delle nature-morte, natura-morta presa nel senso non di soggetto pittorico ma di aspetto spettrale che potrebbe essere anche quello d’una figura supposta vivente); la seconda solitu dine sarebbe quella dei segni; solitudine eminentemente metafisica e per la quale è esclusa a priori ogni possibilità logica di educazione vi siva o psichica. Vi sono quadri di Böecklin, di Claude Lorrain, di Poussin abitati da umane figure, i quali, malgrado ciò, sono in stretta correlazione con il paesaggio dell’epoca terziaria. Assenza umana nell’uomo. Alcuni ri tratti di Ingres giungono a questo limite. Giova però osservare che nel le predette opere (salvo forse in alcune pitture di Böecklin) non esiste che la prima solitudine: solitudine plastica; solo nella nuova pittura me tafisica italiana appare la seconda solitudine: solitudine dei segni o metafisica. L’opera d’arte metafisica è quanto all’aspetto serena; da però l’im pressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa sere nità e che altri segni, oltre quelli già palesi, debbano subentrare sul quadrato della tela. Tale è il sintomo rivelatore della profondità abitata. Così la superficie piatta d’un oceano perfettamente calmo ci inquieta non tanto per l’idea della distanza chilometrica che sta tra noi e il suo fondo quanto per tutto lo sconosciuto che si cela in quel fondo. Se così non fosse l’idea dello spazio ci darebbe solo la sensazione della vertigine come quando ci troviamo a grandi altezze. ESTETICA METAFISICA. Nella costruzione delle città, nella forma architetturale delle case, delle piazze, dei giardini e dei passeggi pubblici, dei porti, delle stazio ni ferroviarie, ecc., stanno le prime fondamenta d’una grande estetica metafisica. I Greci ebbero un certo scrupolo in tali costruzioni, guidati dal loro senso estetico-filosofico; i portici, le passeggiate ombreggiate, le terazze erette come platee innanzi i grandi spettacoli della natura (Omero, Eschilo); la tragedia della serenità. In Italia abbiamo moderni e mirabili esempi di tali costruzioni. Per ciò che riguarda l’Italia l’ori gine psicologica loro è per me oscura; ho molto meditato su questo problema della metafisica architetturale italiana e tutta la mia pittura degli anni 1910, 11, 12, 13 e 14 riguarda questo problema. Verrà forse un giorno in cui tale estetica, lasciata per ora ai capricci del caso, di venterà una legge ed una necessità delle classi superiori e dei diri genti la cosa pubblica. Allora forse noi potremo evitare il ribrezzo di trovarci sbattuti davanti a certe mostruose apoteosi del cattivo gusto e dell’imbecillità invadente, come sarebbe a Roma il candido monu mento al Gran Re, altrimenti detto Altare della Patria, e che sta riguar do al senso architettonico come stanno riguardo al senso poetico le odi e le orazioni del Tirteo Calvo. Schopenhauer, che la sapeva lunga di tali faccende, consigliava ai suoi conterranei di non porre le statue dei loro uomini illustri sopra colonne e piedestalli troppo alti ma di posarle invece su zoccoli bassi, « come si usa in Italia, diceva, ove alcuni uomini di marmo sembrano trovarsi al livello dei passanti e camminare con essi ». L’uomo imbecille, cioè l’ametafisico, è istintivamente portato verso l’aspetto della massa e dell’altezza, verso una specie di wagnerismo architetturale. Affare d’innocenza; sono uomini che non conoscono il terribile delle linee e degli angoli, sono portati verso l’infinito ed è in ciò che si palesa la loro psiche limitata chiusa entro la stessa cerchia di quella femminile e infantile. Ma noi che conosciamo i segni dello alfabeto metafisico sappiamo quali gioie e quali dolori si racchiudono entro un portico, l’angolo d’una strada o ancora in una stanza, sulla superficie d’un tavolo tra i fianchi d’una scatola. I limiti di questi segni costituiscono per noi una specie di codice morale ed estetico delle rappresentazioni e per di più noi, con la chia roveggenza, costruiamo in pittura una nuova psicologia metafisica del le cose. La coscienza assoluta dello spazio che deve occupare un oggetto in un quadro e dello spazio che divide gli oggetti tra loro, stabilisce una nuova astronomia delle cose attaccate al pianeta per la fatale leg ge di gravita. L’impiego minuziosamente accurato e prudentemente pe sato delle superfici e dei volumi costituisce canoni di estetica metafi sica. Giova qui ricordare alcune profonde riflessioni di Otto Weininger sulla metafisica geometrica « … L’arco di cerchio, come ornamento, può essere bello: esso non significa la perfetta completezza, che non pre sta più il fianco ad alcuna critica, come il serpente di Midgard che cir conda il mondo. Nell’arco v’è ancora qualche cosa di incompiuto, che ha bisogno ed è capace di compimento â—; esso lascia ancora presen tire. Perciò anche l’anello è sempre simbolo di qualcosa di non morale o antimorale ». â— (Questo pensiero chiarì per me l’impressione eminente mente metafisica che mi hanno sempre fatto i portici ed in genere le aperture arcuate). Si sono spesso veduti, nelle figure geometriche, dei simboli di una realtà superiore. Per esempio il triangolo servì ab antiquo, ed oggi ancora serve nella dottrina teosofica, come simbolo mistico e magico, e certo sveglia spesso in chi lo guarda, anche se non cono sce questa tradizione, un senso d’inquietudine e quasi di paura. (Così le squadre ossessionarono ed ossessionano ancora la mia mente; le vedeva sempre spuntare come astri misteriosi dietro ogni mia raffigu razione pittorica). Da tali principi partendo noi possiamo indi spingere lo sguardo sul mondo circostante senza più ricadere nel peccato dei nostri prede cessori. Possiamo ancora tentare tutte le estetiche, compresa quella della umana figura poiché lavorando e meditando su tali problemi non sono più possibili le facili e menzognere illusioni. Amici d’un nuovo sapere, nuovi filosofi, possiamo finalmente sorridere con dolcezza alle grazie della nostra arte. Pubblicato in Valori Plastici, Roma aprile-maggio 1919. Impressionismo Parlare ancora d’impressionismo nell’ottobre 919 potrebbe sem brare una chiacchiera da retrogradi; eppure questo fenomeno forse non è stato ancora definito nella sua vera essenza psicologica. Le maggiori tendenze d’impressionismo nelle arti plastiche, si osser vano presso i popoli meno filosofici e nelle epoche transitorie, tra un periodo di sforzo metafisico e l’altro. Dopo la grande maturità degli Elleni, (popolo eminentemente filo-sofico) tramontato il culmine della loro classicità (Fidia, Prassitele), sorge l’arte asiatica (Laocoonte). I giapponesi, i cinesi, i russi, sono i popoli più predisposti all’im pressionismo, perché appunto trovansi in arte sempre lontani dalla realtà metafisica e fortemente attirati dalla réverie materialista. Il popolo europeo più antifilosofico che ci sia, l’inglese, è precisa mente quello che ci diede l’impressionista più significativo: Turner. Prova ne è la passione di questo pittore per Venezia, che, città eminentemente metafisica, egli vide a rovescio, ma talmente a rovescio da interessare appunto per il paradossale materialismo dell’interpreta-zione; si paragoni, a mò di esempio, una Venezia di Turner ad una di Canaletto. E’ sempre stato un luogo comune di credere che l’impressionismo sia d’origine e di spirito puramente francese. Lo spirito francese è trop po ferocemente attaccato alla realtà per essere veramente impressioni sta. Certo la realtà sua non è quella d’un italiano o d’un tedesco; è meno metafisica, meno lirica, meno calda, ma è una realtà, quindi esclude l’impressionismo. Inoltre lo spirito francese ha un culto inve terato per la grazia, parola questa da intendersi nel senso francese di joliesse; per esprimere questo culto occorre averne un’altro: quello della linea e della forma, che, come ognun ben sa, stanno agli antipodi dell’impressionismo. Si pensi alla pittura di Prudhomme, a Watteau, a Lancret. Questo culto della grazia apparenta lo spirito francese alla classicità greca, benché l’arte francese si trovi in confronto a quella greca, specie dal lato metafisico, sopra un gradino più basso ed espri ma una grazia, per così dire, di primo piano. Il fenomeno dell’impressionismo francese è un fenomeno di stan chezza mascherata, pertanto manca di profondità, e non è altro che un intermezzo nella storia dell’arte di quel popolo. La severità e il culto per l’antico che animò i grandi pittori fran cesi durante la rivoluzione e sviluppossi poscia a traverso l’epopea na poleonica, morì nell’arte di due insigni artisti, significativi, ma deca denti: Delacroix (il romanticismo), Courbet (il naturalismo); a prova di ciò giova osservare come questi due pittori non ebbero imitatori, men tre Girodet, David, Ingres furono seguiti da una legione di discepoli. Dopo lo sforzo magnifico sorse piano piano un’arte più superficiale e meno faticosa; si direbbe quasi che i pittori francesi provassero il bisogno di lavorar meno, di disertare gli ateliers per lo studio più dilettevole dell’aria aperta. Benché questo stato sussista tutt’ora, ripetiamo che l’impressionismo non appartiene all’arte veramente francese. Molti critici, affetti da miopia, hanno messo Cézanne fra gli impres sionisti. E’ ormai opinione di tutti quelli che vedono chiaro nelle fac cende della pittura, che il discendente degli emigrati da Cesena è sta to tutt’altro che un impressionista. Dicevamo a principio di questo discorso che il popolo italiano e quello tedesco sono i meno disposti all’impressionismo. Si osservi in fatti come in Italia esso venne adottato dai pittori meno intelligenti e meno colti; fu grossolanamente confuso col naturalismo di discendenza courbettiana e nacque così quest’arte ibrida, borghese, piatta, grosso lana ed ignorante che, tanto per intenderci, potremmo chiamare seces sionismo; essa sussiste ancora in Italia ove soddisfa tanto gli ambienti ufficiali e pseudo accademici, quanto quelli della borghesia istruita. Pertanto dobbiamo concludere che l’impressionismo in Italia non è mai esistito; cerchiamolo quindi in altri paesi. Presso i popoli orientali, quali i Cinesi, i Giapponesi, i Russi, l’im pressionismo ci offre esempi più significativi. Per parlare solo dei Russi è interessante osservare quale differenza esista tra il loro impressioni smo e quello inglese. L’inglese è più colorato, meno spirituale, (se pur si può parlare di spirito in fatto d’impressionismo) è nello stesso tem po più elegante, meno isterico, si mantiene sempre sopra una linea di chic e di bon fon. In Russia invece esso si presenta con forme più com plesse, più tozze e ritorte, attinge anche nella sofferenza dell’arte po polare; è più inquieto. Quando questo impressionismo s’accoppia a quello più isterico e più viziato della musica ne nasce un’arte più sottile e smaniosa: bal letto russo. In quanto all’impressionismo dell’Estremo Oriente sarebbe difficile per un europeo il giudicarlo. Propendiamo a credere però che in esso non vi sia per noi nulla di particolarmente interessante; va esclusa a priori ogni fatalità, così come ogni senso di eternità nella materia, e ogni senso di bellezza. Il più grave danno che l’impressionismo abbia fatto alle arti pla-stiche è lo smarrimento del senso pittorico. Era questo un senso (pur troppo bisogna usare l’imperfetto) che in Europa sussisteva ancora fino a mezzo secolo fa; oggi non più. Il senso della pittura è tanto più pro fondo in un artista quanto più profondo è in lui il senso lirico dell’arte e la sua grande tendenza metafisica. Fu un luogo comune presso gli scrittori d’arte europei di attribuire qualità pittoriche inferiori a quelle opere che presentano manifestazioni spirituali. La famosa frase « c’est de la littérature » è il ritornello favorito dei critici d’oltralpe sostenitori dello straccionismo pittorico. E’ invece con i pittori che per impotenza eliminano dalla loro arte ogni fine spirituale che incomincia la deca denza del senso pittorico, la trascuranza della materia. Questo senso pittorico che fluiva ancora nelle dita degli artisti mezzo secolo fa, è oggi completamente smarrito. Vi sono ancora in Francia alcuni super stiti vegliardi che conservano un resto del dono perduto, cito Bonnat, Renoir, Jean-Paul Laurens; dovrei piuttosto dire conservavano poiché ora anche loro sono degeneri per influenza dell’ambiente più che per decadenza senile. L’impotenza spirituale che porta al naturalismo trascina fatalmen te la pittura alla trascuranza dell’opera d’arte, non più considerata co me oggetto prezioso, meraviglia, miracolo, ma come un’imboccatura qualsiasi, più o meno originale, più o meno soddisfacente alle esigen ze degli amatori di pittura da lavanderia e da cucina. La mania di far presto porta alla trascuranza dei mezzi: uso di cattivi colori, di cattive tele; cialtronerie tirate giù con pennelli non lavati, sopra tele già incro state da altro colore; tinte impasticciate su tavolozze mai raschiate; ignoranza e negligenza completa nell’uso delle vernici. Vi sono indi vidui oggi, che chiamansi pittori, e che sprecano tonnellate di colore senza riuscire a ottenere un solo centimetro quadrato di materia pitto rica; dipingono tele ove vedonsi grumi e croste che paiono muri adi biti a orinatoi, sui quali la previdenza di un sindaco igienista ha fatto rovesciare qualche secchia di calce; o allora si vedono superfici così deboli di materia che sotto lo strato del colore appare la grana della tela. L’umanità può smarrire certi sensi senza per questo digradarsi; così le donne d’oggi hanno smarrito, in ciò che riguarda i loro rapporti con l’uomo, il senso della barba; ma in pittura è un altro paio di pistole. Il terribile problema della pittura (l’arte più difficile che ci sia) non si risolve a chiacchiere ed a facilonerie. La colpa dei naturalisti, dei Courbet e dei Manet, e quella degli impressionisti, ricade ora sul capo di tutte le odierne generazioni di pittori. E se oggi vi sono alcuni pochis simi (in Italia siamo quattro per ora) che vedono chiaro nella faccenda e con disgusto s’allontanano dalla cialtroneria della pittura moderna per ostinarsi nella realizzazione di un loro grande sogno interno essi devono faticare cento volte più di quello che avrebbero faticato, in tempi meno degeneri, per far udire la loro voce. Pubblicato in Valori Plastici, Roma giugno-ottobre 1919 II senso architettonico nella pittura antica Tra i molti sensi smarriti presso i pittori moderni bisogna pur no verare il senso architettonico. La costruzione accompagnante la figura umana, sola o in gruppo, l’episodio di vita e il dramma storico, fu una grande preoccupazione per gli antichi che vi si applicarono con spi rito amoroso e severo, studiando e perfezionando le leggi della pro spettiva. Il senso architettonico nelle manifestazioni intellettuali dell’uomo rimonta nei secoli a epoche remote. Già presso i Greci era grande il culto per l’architettura e la disposizione dei luoghi ove dovevano riunirsi poeti, filosofi, oratori, guerrieri, politici, ed in genere individui le cui possibilità intellettuali sorpassavano quelle degli uomini comuni. I Greci prediligevano il portico, ove si poteva passeggiare discu tendo e filosofando, al riparo dalla pioggia e dai raggi potenti del sole attico e, nello stesso tempo, godere lo spettacolo che offrivano le linee armoniose dei monti, le groppe dell’lmete digradanti verso il mare, che in fondo s’apriva nel golfo del Falèrò. II paesaggio, chiuso nell’arcata del portico, come nel quadrato o nel rettangolo della finestra, acquista maggior valore metafisico, poiché si solidifica e viene isolato dallo spazio che lo circonda. L’architettura completa la natura. Fu questo un progresso dell’intelletto umano nel campo delle scoperte metafisiche. Il poeta primitivo, Omero per esempio, che canta lo spazio infinito, il mare altisonante e gli abissi del cielo fecondo di numi, e le foreste e le grandi terre libere non ancora geometrizzate dai costruttori, quel poeta, dico, è meno avanti, come profondità lirica, del tragico che, so pra un palco limitato e chiuso, muove le poche persone d’una tragedia, intorno alle quali, serrate dalle linee delle costruzioni, quelle stesse im magini che, libere, cantò il poeta primitivo, sorgono con maggiore pro fondità e con più sorprendente lirismo. Nei pittori primitivi il senso architettonico si manifesta palesemente. Le figure sovente appaiono inquadrate da porte e finestre, sormontate da archi e volte. In questo essi erano anche aiutati dal fatto che i santi che rappresentavano li concepivano quasi sempre nella solennità dei loro momenti d’estasi o di preghiera entro i templi o presso le abita zioni umane. Lo spirito cristiano è molto più prossimo di quello pagano al sen so costruttivo ed architettonico, specialmente pel fatto che detto spi rito cristiano rifugge quasi sempre dalla vasta poesia della natura nel suo aspetto mutante ed eterno e, seguendo la linea dello spirito semitico, si innalza alle gioie arcane del misticismo e della metafisica entro ambienti spogli e geometrici ove più facilmente, che nella libera natura, nasce e si sviluppa il senso architettonico. La natura stessa è vista dal pittore antico con occhio di architetto e di costruttore. Il cielo lo vede simile alla cupola ed alla volta, e della cupola e della volta sente in esso la solidità. Come accade nella vita dell’uomo che le immagini primitive, le sensazioni dell’infanzia divengono poi con l’andare degli anni pensieri profondi, così le prime immagini degli arte fici primitivi, solidamente architettoniche e scultorie, svilupparonsi nei pittori che vennero’ dopo, in quel magnifico senso di solidità e di equi librio che caratterizza così severamente la grande pittura italiana â— Gli orizzonti chiari che il Perugino da fanciullo vide aprirsi davanti a lui dietro le case scure e i colli di Muiano, la solida magnificenza di quei cieli racchiuse più tardi, giunto nella piena maturità della sua arte, tra gli archi delle volte che sorgono dietro il suo San Sebastiano dar deggiato, fidiacamente metafisico, ed anche in quel trittico della chiesa Santa Maddalena dei Pazzi, ove pure le volte sprofondano nell’infi nito e compenetrano il cielo alto e lontano che sovrasta il deserto pae saggio umbro, ove svolgesi la tragedia della Crocifissione. Pure in Giotto il senso architettonico raggiunge alti spazi metafi sici. Tutte le aperture (porte, arcate, finestre) che accompagnano le sue figure lasciano presentire il mistero cosmico. Il quadrato di cielo limi tato dalle linee di una finestra è un secondo dramma che s’incastra in quello figurato dalle persone. Infatti più d’una domanda turbante vien tatto di porsi quando l’occhio incontra quelle superfici blu o verdastre, chiuse dalle linee della pietra geometrizzata: â— che cosa ci sarà da quella parte?… Quel cielo sovrasta forse un mare deserto, o una città popolosa? Oppure si stende esso sulla grande natura libera ed inquie ta, i monti selvosi, le vallate oscure, le pianure solcate da fiumi?… E le prospettive delle costruzioni s’innalzano piene di mistero e di pre sentimenti, gli angoli celano dei segreti, e l’opera d’arte non è più l’epi sodio asciutto, la scena limitata negli atti delle persone figurate, ma è tutto il dramma cosmico e vitale che avviluppa gli uomini e li costrin ge entro le sue spirali, ove passato e futuro si confondo, ove gli enigmi dell’esistenza, santificati dal soffio dell’arte, svestono l’aspetto ingrovi gliato e pauroso che fuori dell’arte l’uomo s’immagina, per rivestire l’apparenza eterna, tranquilla e consolante, della costruzione geniale. Tra i francesi Nicola Poussin e Claude Lorrain sono quelli che, più profondamente d’ogni altro, hanno sentito il senso architettonico. In Poussin questo senso è talmente insito che anche nei semplici pae saggi palesa sempre il suo spirito potentemente costruttore; così che gli alberi, le piante, i monti, gli orizzonti, si estendono, si sovrappongo no, si sostengono e si completano a vicenda, fusi e completati nello stesso tempo dall’aria circostante; come avviene per le diverse parti d’un edifizio che, mentre concorrendo l’una con l’altra, elevano la mole della costruzione, sono loro stesse strette e completate dalle linee delle costruzioni circostanti, delle strade e delle piazze che sono loro vici no. In alcuni quadri come nel Ratto delle Sabine, Poussin ha raggiunto il massimo grado di equilibrio e di potenza architettonica. In questa geniale composizione i corpi, simili a statue, s’incastrano e paiono spo sare i cubi di pietra, sorgono, come cariatidi, a sostegno degli angoli; malgrado il movimento della lotta, i corpi hanno quel divino senso di stabilità e d’immobilità senza il quale un’opera non giunge mai alla grande arte. Pure in un altro quadro del Louvre: I ciechi di Gerico, vi sono le figure del primo piano, il Cristo che tocca gli occhi ai ciechi inginocchiati, che sembra come un prolungamento delle architetture che con serenità e solidità puramente bibliche si estendono in masse regolari, armoniose ed equilibrate, fino all’orizzonte lontano e chiaro Un magnifico esempio di natura metafisicizzata dalla costruzione architettonica ci offre un’altro quadro del maestro franco-romano: Teseo che trova la spada di suo padre; quivi l’uomo viene in seconda linea ed è la natura idilliaca, gli alberi frondosi, le acque, i monti ed il cielo alto e terribilmente sereno, che acquistano aspetti di sorpren dente stabilità e lontananza nell’abbraccio delle volte e degli archi, nel l’inquadratura delle colonne e delle costruzioni fuggenti secondo le leggi immutabili ed esatte della divina prospettiva. Quando in Poussin manca la rappresentazione architettonica, o trovasi sopra un piano se condario, come in quei paesaggi del museo del Prado, a Madrid, allora sono gli alberi che acquistano aspetto di costruzioni, d’impalcature, di scheletri e di anatomie; i tronchi, i rami, studiati come corpi umani, fanno pensare a certi nudi di antichi scultori, a certi membri dalle mu scolature perfette; altri nel complicato, ed a volta doloroso groviglio, fanno pensare il verso triste della Commedia dantesca: Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi mentre le masse delle fronde, chiaroscurate dalla luce tranquilla, si ergono con la solennità festosa dei capitelli corintii. Claude Lorrain con le sue costruzioni portuali preludia già alle emozioni del romanticismo. La classica magnificenza dei suoi palazzi sormontati da statue in atteggiamenti pensosi â— muse strette nei pepli severi, guerrieri stanchi poggiati sulle aste, â— riguardanti con gli occhi di pietra verso il grande mare lontano e cupo sul quale vogano, diri gendosi verso la quiete del porto, i vascelli carichi di armi e di mercanzie, di frutti maturati in lontani paesi. Si pensa ai prenci, filosofi e poeti, abitatori di quei palazzi, e più lontano le torri pesanti, prigioni o fortezze, luoghi di sofferenza e di malinconia. Egli amava i porti di mare e ne rese nelle architetture tutto il liri smo lontano e triste. Geniale era la disposizione che dava a volte alle sue prospettive così che una fila di colonne, un muragliene, dei portici, mentre con le loro masse nascondono da un lato una parte di vita e di natura che però si lascia vagamente pressentire per via delle an tenne sormontate da orifiamme, le vele gonfie o ammosciate, che die tro le costruzioni sorgono, queste, aprendosi da un’altro lato, scoprono un’altra parte di orizzonti lontani e deserti o di terre abitate, dando così al riguardante quel felice brivido di sorpresa e di curiosità che è uno dei segni più veraci della genialità di un’opera d’arte. Pubblicato in Valori Plastici, Roma maggio-giugno 1920 Letto 10320 volte. | ![]() | ||||||||||
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