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ARTE: PITTURA: I MAESTRI: La pace di Cassinari

29 Ottobre 2015

di Alberico Sala
[dal “Corriere della Sera”, domenica 10 agosto 1969]

Gropparello, agosto.

I giorni e le notti sono colmi di luna, nuovamente, poi che l’uomo l’ha toccata. Pende dagli alberi di Gropparello, immobili nella prima sera ed è gialla e rugosa come una arancia, per i fumi della terra, eccitata e tramortita da sole della grande estate.
Bruno Cassinari s’aggira i per le strade del suo paese, dove torna ogni anno, con il caldo, quando i suoi sono al mare. Stavolta c’era anche da girare un documentario, regia di Andreassi, uno che viene dalla poesia, ed ama la pittura. L’Appennino docile di questi luoghi, la gente, le case, gli umori, i galli, i cavalli, Cassinari li ha riscoperti come stagioni native, dopo una stagione di furori, in cui la piccola patria odiosamata gli era sembrato un regno da perdere, un incantamento da rompere. Ora è in pace con se stesso e con il paesaggio della sua giovinezza, dal quale scattarono le sue prime fughe per l’Italia, a piedi. Anche adesso gli piace camminare. Ogni pomeriggio esce dalla sua casa al Parco di Milano e raggiunge a piedi lo studio, sempre per le stesse strade. Ha scrutato ormai ogni negozio, conosce pregi e difetti di caffè e pasticcerie, scambia saluti con artigiani e parrucchieri. Ogni grido di colore lo trattiene: il pennacchio blu del cappello di un carabiniere dentro una vetrina, uno scampolo di stoffa, la frutta, la verdura.
Al mattino qualche volta va a giocare al golf, ma è un modo per lui di andare per i campi. Il segno della campagna e dell’estate, con i suoi colori, le sue esplosioni della materia verde e profumata, è quello inciso più profondamente nella sua natura. Quella volta che si mise in testa di girare l’Italia a piedi e visitare i musei, guardare i monumenti, scoprire le linee di forza e gentilezza della nostra architettura, capitò verso sera sul prato dei miracoli, a Pisa. Cassinari, che parla lentamente, come soffrendo le parole, con precisione, anche analogica, ha ricordato: « Il sagrato profumava di fieno secco, i marmi del duomo, del campanile, del battistero avevano una luce rosa… ».
Le immagini più intense, simultanee e composite, come un poemetto, degli oggetti, odori, sapori, uomini, bestie, memorie e fantasie di Gropparello, che vuol dire l’arca della terra, accendono la penombra della casa del Parco a Milano. Le tele enormi (avanguardia della grande mostra d’autunno), guardano poltrone e divani bardati di fodere come cavalli. L’arco di trionfo delle code dei galli annuncia l’arcobaleno; nello spazio vibra una tensione che avvicina il cielo e la terra.
Dentro una parete di vetro (e sono le sorprese e le consolazioni ambrosiane) si torce al vento un albero come una collina (l’Appennino domestico); ma basta ammainare una tenda e si scopre il greto delle « Ferrovie Nord », con i vagoni fermi al sole, gli operai seminudi che barcollano nel riverbero, ed un casello arrugginito, con i gerani alle finestre, e bambini sulla soglia.
I grandi quadri del fervore estivo, Cassinari li ha dipinti nel suo vecchio studio di via San Tomaso, che beve il lume del cielo milanese da un lucernario affacciato sui tetti, da basse finestre che svelano nel pozzo del cortile un decoro di fregi, un’eleganza di ballatoi appena mortificati dai panni stesi.
Un capitolo della pittura italiana del Novecento è stato scritto fra queste cornici dorate, libri (soprattutto di poesia: Cassinari ha interpretato l’Alfieri, Orazio ed Eluard, Tasso e Catullo), seggiole d’epoche diverse, uno scrittoio, un divanetto, un’ala di colori secchi sul muro, un frigo e un clavicembalo, e tele girate contro i muri, cartelle di disegni, litografie, in una solitudine difesa accanitamente, magari con qualche santa scontrosità. Per terra, gli originali delle tavole per il Satyricon di Petronio Arbitro, un fulmineo riscatto, nel colore, del mondo del « padre del romanzo », secondo il parere di Henry Miller, dello scrittore antico che ad Auerbach ha evocato Proust, con gli umori festosi, l’inno alla vita e l’ombra della morte.
D’estate Cassinari lavora anche a Missaglia, in un paesaggio di lievi colline che ospitano altri artisti, lungo le strade brianzole. La casa gli è cresciuta intorno, con il suo aiuto, martello e cazzuola (« per la forma assomiglia ad un cuore », ha osservato Evtuscenko). L’architettura è mediterranea, quella che Cassinari scoprì con l’amicizia di Picasso, negli anni della Costa Azzurra; le finestre sono collocate nei punti giusti, come cannocchiali: un colle con una bandiera, un pagliaio come una cupola, il cielo, il prato con le rose che hanno stordito il suo (e nostro) Natale di tre anni fa.
Anche a Missaglia, Cassinari ha lentamente istituito un legame umano con la gente: in paese gioca alle bocce, canta in coro stornelli grezzi ed audaci. Rapaci malinconie lo colgono. Come la sera che andavamo oltre Porta Ticinese e la Baia dei Re, verso la fonderia dove il suo cavallo più orgoglioso attende la resistenza del bronzo, e Cassinari si ricordò di Vittorini, dei tempi alacri del dopoguerra.
« Una grazia gli ha perforato le mani », disse di lui, lo scrittore. Ecco, scorrono sul gesso del cavallo, senza orecchie e senza coda; lo girano sul carrello, fra bronzi di monumenti celebrativi. Vi ha lavorato di notte, durante il giorno la luce della campagna intorno devasta le forme, e la gente lo turba, anche il fracasso delle motociclette dei ragazzi saliti dal Sud, sfrenate nella periferia.
Il mito equestre è stato sbriciolato; in groppa al cavallo c’è una donna, con le braccia protese. Le crete della fonderia arroventano l’aria; la luna, fuori, è un’albicocca dell’orto della terra.


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