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ARTE: Tractatus di cinismo popolare

16 Novembre 2007

di Paola Pluchino

La mostra della pop art si presenta cosi: irriverente, spregiudicata, trasformista.
 Wharol, Lichtestein, Johnson, Hamilton, Blake, sono solo alcuni degli artisti eclettici che potrete ammirare fino al 27 gennaio 2008 alle Scuderie del Quirinale.

10 sale per narrare il fenomeno mediatico degli anni sessanta, quello che ha sovvertito ogni regola, ogni sistema, ogni forma d’arte tradizionalmente intesa.
La sua forza comunicativa risiede proprio nella sua spregiudicatezza, nella sua capacità demistificatoria, nel suo farsi “popular”, aderendo al sentire comune, parlando con la voce dei tempi, senza fronzoli, in un’immediatezza percettiva che non ha rivali.
Stupisce, poiché sovverte l’arte cosi come siamo abituati a vederla nei musei, sconvolge, forse, per la sua veridicità.
Nell’epoca del consumo sfrenato, degli agi sociali e della perdita dei valori, la pop art si inserisce a pieno titolo. Profetica.
Piacere degli occhi ma vuoto di coscienza.
Tutto si fa logo, tutto si vende, si frammenta si scompone, si spersonalizza, diventa brand. Un’identificazione tout court che si inginocchia al sentire comune, di massa, appunto.
Un’arte senza filtri intellettuali che non vuole illuminare dall’alto, ma solo mostrare pseudo -valori, non sense, tramite l’immediatezza dell’immagine, con humour di miti e leggende aleatorie.
Ma è solo la smorfia del riso dietro al pianto segreto, una vocazione alla Keaton e si sa, che la serietà nella comicità produce disprezzo. Ecco allora coprirsi dietro una cifra stilistica comunemente accettata, di facile identificazione.
Nuovi sono gli atteggiamenti, nuovi i modi di essere, nuove le espressioni del sentire: tutto è passato in una centrifuga mentale che non consente più la distinzione tra ciò che è arte e ciò che non lo è in cui la grande pittura e l’illustrazione convivono nel medesimo spazio interiore.
Ripetere all’infinito per smitizzare ma non per questo abbassare la carica, l’impatto emotivo, la forza suadente ed il tono evocativo di un movimento che ha assunto connotati intergenerazionali.
Un piacere quasi vouyeristico nel palesare risvolti e storpiature della società, senza indugi e senza nessun intento accusatorio.
Piacere epidermico dunque che non sconvolge per quello che mostra, ma per quello che rappresenta.

Una società in perdita, tutta rivolta all’economia dello spreco perduta nell’oblio dei sensi che si àncora al sentire comune, ancòra, per non perdersi.
Un’enorme macchia mediatica, sovrastruttura perenne che fagocita e deforma i vecchi valori assimilandoli ad un nuovo, spasmodico sentire comune, popular.
Arte che standardizza quindi? Forse.
Ma che lascia scritte d’inchiostro simpatico, che suggerisce una lettura contemplativa a posteriori, che chiede una spruzzata di succo di limone, pardon, d’ingegno, per essere apprezzata. Una forma d’arte che non si vergogna d’esser commerciale pur d’essere compresa, perché nasconde un’anima profondamente innovativa e quella, signori miei, è riservata ad un’èlite sensibile ed attenta ai cambiamenti d’umore della società, che ha ancora voglia di cercare le proprie passioni senza che queste gli siano imboccate, preconfezionate.
È necessaria una doppia chiave di lettura, una per comprenderne il successo, l’altra, di Volta, per apprezzarne i toni.
Un’arte che si fa grande dei suoi stessi vuoti: sta dunque all’osservatore attento riempirli.
D’altronde la pop art, come Andy Wharol soleva dire, è un modo di vedere le cose.
Dipende con quali occhi la si guarda.
Perché non tutta l’arte è percettibile alla vista, quella vera di solito scuote le coscienze nel privato dell’anima.


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