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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Bianciardi, Luciano

7 Novembre 2007

La vita agra

“La vita agra”

Bompiani, pagg. 200. Euro 7,50

Il romanzo di Bianciardi sta molto nell’inizio. Mi piace come scrive, mi sono subito detto, quando ho cominciato a leggere quest’autore toscano, nativo di Grosseto, al quale la nostra terra, come a tutti i suoi figli, ha fatto il dono della piacevolezza e del garbo tutto nostro. Mi sono trovato, infatti, all’interno del “palazzone della biblioteca” come se lo stessi percorrendo io stesso, immerso in una visione tridimensionale molto eccitante, tale che chi legge non sta fuori ma dentro. Provate, nello scrivere, a fare altrettanto, mica è facile.

E mi ha colpito questa precisa, veritiera osservazione sulle donne che camminano, che non ho trovato in altri fin ora, almeno così efficace: “ritte e secche le donne, la testa alta, la faccia immobile, tranne un ritmico vibrar delle gote, per il contraccolpo dei passi rigidi sui tacchi a spillo.” Beh, trovare tutto questo all’inizio di un romanzo, è un bel godere, mette nel cuore la gioia dell’attesa di una lettura che potrebbe prenderci fin nel midollo. E subito Bianciardi si mette a correre sull’onda dei ricordi, e da buon toscanaccio (ché i toscani son critici di tutto) salva ben poco di ciò che vede intorno a sé, con una danza di parole che lo porta a scorrere in su e giù l’Italia: dai luoghi deturpati dalla guerra e dalle sue nefandezze, al Nord rifugio pieno di speranze, ma dove si deve lo tesso lottare per vivere, alla Toscana impegnata a difendere con i denti quel po’ di lavoro che veniva dalle miniere di lignite. Certo, quando si è letto “Germinal” del grande Zola – senza dimenticare Lawrence e Cronin – questo mondo nessuno può rappresentarlo senza sfigurarci un po’, tanto le parole del transalpino scavano al pari del minatore e vanno in profondità a cercare e a scoprire ricchezza di doni e bellezza. Ma Bianciardi affronta il romanzo con la verve trascinatrice di un abituè che al bar si siede al tavolino con gli amici e racconta, sghignazza, fa del sarcasmo, e denuncia in questo modo, magari con davanti un bicchiere di vino, le ingiustizie della società dove si è costretti a sopravvivere, batte i pugni, non cede mai la parola e quando ha preso l’abbrivo è un torrente in piena, non si ferma, e tutto travolge. Il pensiero lo devi andare a cercare nella tracimazione del fiume che ti ha invaso la casa, dopo che le acque si sono ritirate ed è rimasta sul pavimento quella melmetta che non se ne va, e di sé lascia traccia nelle connessure e perfino sui muri. La calma con la quale lo avevi conosciuto all’inizio, entrando con lui nel palazzotto della biblioteca, si è dissolta come nebbia al sole, ed ora hai davanti, attraverso la radiografia delle sue parole, la sua rabbia, come esplosa d’un tratto dopo un lungo periodo di gestazione. “La vita agra” è un’esplosione di rabbia che ti incatena a sé proprio perché ti ha stregato ed ingannato con quell’avvio così intimo, che ti ha sedotto, fatto accomodare sulla seggiola e aprire quel libro come se, dopo pranzo, il padrone della trattoria ti avesse fatto una suadente promessa, e tu sei lì ad attendere il caffè più buono del mondo o quel digestivo che lui fa con le sue mani ogni tanto e non offre a nessuno, se non in casi rari. Pensi che oggi è venuto il tuo turno, e stai lì e aspetti. Quando poi arriva, la sorpresa ti rimescola il sangue, va giù forte, stringi i denti, manca poco che rigetti il pasto tanto ti scombussola un ritmo che non prevedevi. In Bianciardi non si fa la siesta, non si tira il fiato, non ci si perde a guardare intorno i libri della biblioteca sparsi nei piccoli, stretti e bui corridoi, perché ti sbatte fuori, dopo averti illuso e ti mette sulla strada, dove c’è “la vita agra”, e tutti i giorni c’è da fare i conti con la sofferenza, spartirsi il poco, e qualche volta il nulla.

Ha una missione segreta da compiere, contro i padroni, nemmeno Mara, la moglie, che sospetta, ha il coraggio di parlargliene (della vita di lei penserà: “questa sua vita grigia e a suo modo eroica”, ma in realtà non andrà mai più in là di pensieri inutili e ingannevoli come questi, e Mara e il figlio saranno solo un numero della sua contabilità). Sa nascondere ciò che ha per la testa nella routine del lavoro quotidiano presso la redazione di un quindicinale. Sogna il botto di quattro palazzoni, da far venire giù il mondo intero. Tutto per dare una scossa in direzione di un cambiamento: “Li guardi e sono già sfilati via senza voltare gli occhi attorno.” Sono le masse dei lavoratori, “gli uomini grigi”, che sono stati rapinati della loro dignità, e a qualcuno tocca di riscattarli. Non ci si può tirare indietro, anche se “C’è da lasciarci la pelle.” Vasco Pratolini e Carlo Cassola fanno capolino ogni tanto nel sentimento di questa lotta dovuta al popolo, di questa missione da non tradire, anche se Bianciardi punta ad una soluzione devastante e radicale, e, come ben sappiamo, perfino profetica, visto che di lì a poco inizierà in Italia una stagione di violenze inaudite e di misteri ancora, a tanti anni di distanza, lasciati irrisolti. Scrive, infatti: “Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia.” E anche: “Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.” Anna, un personaggio che compare sin dalle prime pagine, si mostrerà preparatissima nel saper impostare politicamente una protesta popolare, e darà molti numeri al protagonista, che imparerà da lei molti segreti, come da un manuale della guerriglia. L’entusiasmo rivoluzionario – che appartiene un po’ a tutti i popoli – qui è reso con una tale felicità espressiva che si riesce perfino a sdrammatizzarne le implicazioni dolorose, senza tuttavia che se ne attutisca l’impatto sul lettore (si pensi alla sottolineatura che il protagonista fa continuamente della bellezza di Anna, con la quale allaccia una relazione amorosa che finirà per annacquare nei due, fino addirittura a farli scomparire del tutto, i violenti intenti rivoluzionari dei primi giorni). Carattere irriverente e ridanciano, questo, proprio dei toscani, e Bianciardi non risparmia neppure di mettere alla berlina il capocellula, che si è fatto un nome a Parigi ed ora ha un salone di bellezza per cani, che infiocchetta di nastri azzurri e rosa, e da lui vanno, pur conoscendo le sue idee politiche, “le belle signore ricche della città”. E ancora: “Anna fece levare il quadro del sacro cuore da sopra il letto, e mise al suo posto la faccia del povero Di Vittorio”. Sta dissezionando col bisturi senza guardare in faccia nessuno, l’autore, divertendosi ed ironizzando laddove c’è da divertirsi e da ironizzare, con l’occhio furbo di chi sa scorgere tutte le nostre debolezze, anche se siamo mossi dalle migliori intenzioni, e lui è “un intellettuale molto vicino a loro” e, in più, “in mongomeri e con la barba lunga”. Ma il divertimento pare cessare – pare: giacché il fine canzonatorio e dissacratorio resta – indovinate quando? Quando gli capita un grosso lavoro di traduzione e il ricavato gli serve per trasferirsi con Anna in una casa datagli in subaffitto, una casina striminzita naturalmente, ma che gli farà scoprire una verità semplice e ignorata, ossia che per capire il popolo, occorre “fare la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come loro, soffrire come loro”. E ancora: “Adesso capivo che sarebbe stato inutile e sciocco far esplodere io da solo – o con l’aiuto di Anna e di pochi altri specialisti – la cittadella del sopruso, della piccozza e dell’alambicco. No, bisognava allearsi con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla, amarla, e poi un giorno sotto, tutti insieme.” Una vita agra, insomma, attraverso la quale il bisturi cala sulla gente che vive allo stesso modo in cui lui ora si è messo a vivere, osservata questa volta dal di dentro. Sono azioni minute, quotidiane, quelle che vengono disegnate, di una vita sottratta giorno per giorno alla resa, alla sconfitta, con i mille accorgimenti e gli squallori imposti dall’ansia di sopravvivere, dal desiderio di farcela a non morire (“Ingenuo ero io a meravigliarmene […] Il mondo è fatto in questo modo, non l’avevo ancora capito?”). Sono anche bozzetti nitidi di un’esistenza di quegli anni (i fine ’50) che chi non è più giovane rammemora, resuscita facilmente dalla memoria. L’occhio di Bianciardi ha la lucidità dell’esperienza vissuta, perfino il menefreghismo di chi ne ha dovute sopportare tante, in mezzo alla ipocrisia e all’arrivismo degli altri che trascorrono le proprie giornate a studiarsi le falsità e gli atteggiamenti utili ai fini del successo personale, ma poveri in realtà più dei poveri veri, e prigionieri dei loro schemi e progetti insulsi e tirannici. Se si eccettua quell’avvio strepitoso, non sempre il livello del libro si mantiene su di un timbro che non inclini al pezzo giornalistico veloce, sensazionale e da consumare all’istante. Talune sottolineature avrebbero meritato un maggiore approfondimento, che lasciano comunque sottintendere; invece un risultato bellissimo si ha nel capitolo VIII (uno dei migliori insieme con il primo), quello che descrive il lavoro di traduzione nel quale si cimenta il protagonista, aiutato da Anna, in cui la leggerezza dello scrivere, che mette bene in risalto la fatica del sopravvivere (i libri ridotti a cartelle di guadagno), non fa venire meno il dramma sotteso e che sfocia in quel: “Quella notte non chiusi occhio, e forse anche piansi.” Qui, specialmente quando introduce il ricordo dell’Irlanda, appare tutto il debito verso gli scrittori americani. Allorché la rabbia dell’impotenza si attenua – e succede spesso nel corso del racconto – sono lo sberleffo, il gioco, il divertimento ironico che la spuntano, cosicché il lettore attraversa la palude delle sabbie mobili della vita come se qualcuno gli avesse disvelato i punti solidi di attraversamento, però attento a non perdere l’equilibrio, divertendosi, perciò, ma guardingo, ché il prezzo di una distrazione sarebbe fatale: “non si trova mai un medico disposto a mettere sulla carta la constatazione che sei ancora vivo.” Bianciardi è un avventuriero della vita, che sa mascherare il dolore che porta dentro di sé, che non lo dà a vedere, giacché a nessuno importa, tutti presi come sono dalle medesime occorrenze avide, egoistiche, vibratili ed impellenti della nostra scombinata esistenza (in una Milano dipinta nei dettagli di cose e di uomini da un toscano attento scarnificatore). Avventuriero della solitudine, anche, in un formicaio di pseudo viventi. Avventuriero del disincanto isterico, mentre si muore per strada e nessuno ti aiuta. Avventuriero dell’illusione, con il suo programma mistico – rivoluzionario. Avventuriero dell’incredulità, anche se ci troviamo negli anni del boom economico, il cosiddetto “miracolo italiano”. “Io mi oppongo”, ma con quali forze, se quelle (“la vita è agra, lassù”) che mi restano mi bastano appena “per non farmi mangiare dalle formiche.” Perfino con la morte è irriverente, e l’uomo – ci dice – non sta combattendo, nel momento estremo, contro di lei, ma contro la vita: “Poi, appena morto, lo vedete distendersi, riposare e sorridere ironico. Ora – così par che dica – arrivederci a tutti e sotto voialtri, io stavolta vado in pensione sul serio.”


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Bart