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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Biondillo, Gianni

7 Novembre 2007

Per cosa si uccide

“Per cosa si uccide”

Ugo Guanda Editore, pagg. 288. Euro 4,90

Ci si può domandare perché oggi un certo tipo di narrativa vuoi poliziesca, vuoi gotica, esoterica, e così via, continui ad avere un successo di pubblico sempre più crescente. Il fatto che essa penetri nei segreti delle coscienze più complesse e distorte, si può anche dire eccezionali rispetto alla norma, non giustifica del tutto una tale crescita, che vede molti autori contemporanei farsene entusiastici protagonisti, confluendovi spesso da altri lidi. La ragione può risiedere nella constatazione che questo tipo di narrativa, e soprattutto la narrativa poliziesca, consente – nel momento in cui avvita a sé il lettore nella ricerca di quei segni che la realtà sparge quasi invisibili ma indispensabili per lo scioglimento e l’agnizione degli avvenimenti narrati – di trascinarlo con assoluta padronanza per qualunque sentiero l’autore voglia condurlo. Questo genere di narrativa può dunque rappresentare, in concreto, un pretesto, per una offerta di pensiero che altrimenti non arriverebbe più, come in passato, al lettore? Credo di sì, e infatti sono pochi i romanzi che, definiti esoterici, gotici, polizieschi, noir, e così via, lo siano per intero. In effetti, essi mirano ad altro.

“Per cosa si uccide”, del 2004, è il primo romanzo del milanese Gianni Biondillo, classe 1966, al quale ha fatto seguito nel 2005 “Con la morte nel cuore”. È composto di quattro storie che portano il titolo delle stagioni. Si comincia con Estate, poi Autunno, Inverno, per finire con il più lungo: Primavera. Il protagonista è l’ispettore Ferraro e il leit motiv che li unisce è la ricerca di una risposta a questa domanda, che dà il titolo alla raccolta: per cosa si uccide?

L’ispettore Ferraro, “Un nome loffio, senza letteratura.”, separato dalla moglie, sta indagando, nel primo racconto, sulla morte di un extracomunitario, Ahmed, soprannominato il “marocchino”, al quale poco tempo prima era stato sgozzato il cane, colpevole di turbare la quiete pubblica. Lo aiuta nelle indagini il sovrintendente Comaschi. Il fatto accade a Quarto Oggiaro, a Milano, in un casamento abitato da duecento famiglie, la cui bella descrizione ci ricorda quei grossi casamenti del Sud, dove la vita scorre tra liti, cicaleggi, piccoli sotterfugi quotidiani, furbizie suggerite dalla povertà e dalla inevitabile lotta per la sopravvivenza. Vengono in mente “Miseria e Nobiltà” di Eduardo Scarpetta, del 1888, e la bella trasposizione cinematografica di Mario Mattòli del 1954, con lo stesso titolo e con uno smagliante Totò nei panni di Felice, il protagonista.

Alcune battute ricordano proprio Totò, ad esempio quella tra l’ispettore e il maresciallo in pensione Monti: «”Le dico una cosa, commissario.” “Ispettore.” “Ah, non è commissario? Ha una faccia così intelligente… Vedrà che la fanno commissario.” “Per favore, la smetta, mi sembra Totò!” », facendoci intendere che non avremo a che fare con storie truculente, ma con una narrazione divertita e scacciapensieri, nella quale, tuttavia, gli accenni ai problemi sociali quali: povertà, terrorismo, immigrazione, traffico d’armi, droga, pedofilia, movimenti di contestazione come quello dei no global, piani regolatori contrastati, degrado, ingiustizie, espliciteranno un disagio che il libro aiuta a comprendere e a non mai sottovalutare. Il nuovo giallo, ossia, pone al centro della storia, non più il delitto e la sua risoluzione, ma lo sguardo del suo autore (più che del protagonista) rivolto ad estrarre dalla realtà quelle cause – mai una sola – vere mandanti di qualunque delitto, sia esso materiale che ideologico: “Fateci caso: una ricca borghese milanese gira per il centro in bicicletta, usa la città come fosse il cortile di casa sua. Provate ad immaginare una ragazza che viene in bici da Gratosoglio, per far compere in via della Spiga, e capirete la differenza.”

Possono, dunque, essere numerose le ragioni che conducono al delitto. Banali e assurde come nel caso dell’omicidio di Ahmed e del suo cane, oppure legate al mondo degli affari e soprattutto del malaffare, come nella seconda storia, nella quale troviamo un altro delitto che lì per lì ha l’apparenza di un incidente stradale. Un ricco uomo d’affari, “un uomo di potere”, Francesco Donnaciva, infatti, viene investito da un’auto e muore. Il vicequestore Zeni affida il caso a Ferraro e al collega Lanza. I figli della vittima, Marietto e Luisa, non avevano simpatia per il padre, il primo a motivo della poca considerazione in cui era tenuto (“Faceva di tutto per farsi notare da lui”); la seconda a causa della grettezza del padre, arricchitosi a dismisura ma rimasto un uomo rozzo, e considerato nell’ambiente dell’alta finanza un parvenu (“Mio padre era un parvenu ai loro occhi, nonostante i soldi che possedeva.”). La vittima aveva in mente di costruire un nuovo quartiere, “un pezzo di città”, “tra Quarto Oggiaro e Vialba” e aveva chiesto finanziamenti a “soci stranieri”. Dunque, se la Polizia non pensava ad un incidente stradale provocato da “un pirata della strada”, era tra costoro che andava cercato l’assassino.

La scrittura di Biondillo è agile, va dritta al sodo e ci dà la sensazione di immergerci in un’atmosfera da commedia più che da thriller. Ogni tanto, lungo il percorso tracciato dalle indagini di Ferraro, ci imbattiamo in divertenti descrizioni, che poi sono punture su di una realtà contorta, infida, sottosopra, come quella dei nostri giorni. Leggete che cosa scrive sulla categoria degli agenti immobiliari: “Gli agenti immobiliari sembrano tutti dei Killer. Prendono il loro vestito della cresima e lo trasformano in una uniforme. Lo fanno perché così credono di sembrare persone più attendibili, degne di fede. Poi però se li guardi in faccia ti spaventi. C’è chi si mette l’orecchino, chi gli occhiali a specchio, chi ha la faccia butterata, chi ancora si tinge i capelli di biondo, chi tutte queste cose insieme.” Siamo solo al principio di un ritratto divertito e al contempo impietoso, perfino irritato: “Trovava assurdo che guadagnassero sia su chi vende sia su chi compra.” Sulle “prime” della celebre “Scala” leggiamo che “donne con lampadari in testa e strascichi piumati fanno a gara con colleghe che indossano pellicce di tigri del Bengala e monili appartenuti a sacerdoti incas.” Quando – siamo alla commemorazione della vittima dell’incidente stradale, Francesco Donnaciva – compare Ferraro che indossa il suo abito nero migliore, quello del suo matrimonio: “lì in mezzo a tutti gli altri appariva come quello che non aveva fatto in tempo a tornare a casa per cambiarsi ed era venuto così come si trovava direttamente dalla miniera.” La comicità e la pungente ironia di Biondillo esplodono quasi sempre nella parte finale della descrizione, con una iperbole che fa proprio della esagerazione lo spunto improvviso per divertire. Si può fare quest’altro esempio. Siamo sempre in casa Donnaciva in occasione della commemorazione del defunto. Una donna fa la corte all’ispettore: “indossava una fasciatura nera che metteva in evidenza le forme del corpo con una scollatura mozzafiato che le scopriva la schiena fino all’attaccatura delle chiappe.” E ancora di seguito: “Il problema è che probabilmente aveva superato la settantina da almeno un secolo e la sua schiena sembrava ormai, non ostante la palestra, il lifting e l’estetista, una riproduzione, tridimensionale e in scala, dei monti Urali.” Nel cinema una caratteristica di questo tipo, la troviamo nel regista John Ford, che nei suoi film migliori alleggerisce ed anche arricchisce la storia con personaggi osservati con la lente del sapido divertimento. Il riferimento a Ford, o meglio ad una sua opera “Ombre rosse” (1939), verrà nel capitolo 44, e non è un caso che Biondillo ricordi proprio la particolare attenzione che il grande regista pone nei ritratti dei passeggeri della leggendaria diligenza: “un microcosmo di vite vissute”. Come non ricordare, inoltre, “Omicidio!” di Alfred Hitchcock, del 1930, con quell’esilarante passerella degli attori che stanno recitando una commedia nel bel mezzo di un’indagine e vanno e vengono tra palcoscenico e dietro le quinte dove sono interrogati a singhiozzo dalla polizia; non solo, anche la caratterizzazione di alcuni personaggi della giuria riunita per emettere il verdetto, così simile, nello spazio circoscritto in cui si ritrova a discutere, alla caratterizzazione surricordata che John Ford fa di alcuni passeggeri chiusi nella diligenza. Non si dimentichi, tuttavia, che una tale pratica ci giunge da molto lontano e, per fermarci a ritroso soltanto al XVI secolo (passando dalla tavola del conte Attilio di manzoniana memoria, dove stavano seduti “due convitati oscuri” “che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse.”), basti ricordare William Shakespeare, ad esempio nel dramma “Enrico V” (1599), allorché all’inizio del secondo atto, introduce le divertenti figure di Bardolfo e Pistola.

Tornando a Biondillo, questo è il ritratto di Alexej Baginov, ucraino, “nuovo astro nascente della nuovissima economia orientale”, che ha relazioni d’affari con la famiglia Donnaciva: “Baginov non era alto, non era biondo, non aveva un’espressione criminale nel volto, non portava medaglioni pacchiani di oro massiccio, non aveva denti istoriati di diamanti, non indossava occhiali a specchio, non sembrava avesse una fondina sotto l’ascella.”

Al modo di Agatha Christie, l’autore raduna intorno alla vittima i personaggi che possono aver avuto interesse ad ucciderlo. Ce li presenta un po’ per volta e infine ci suggerisce di fare attenzione e di seguirli, come se fossimo noi l’ispettore Ferraro. Prima conosciamo Marietto e Luisa, i figli che hanno ereditato un po’ della ferocia del padre, un autentico “squalo”, poi il geometra Carlo Minelli, Stella Artois, il cui vero nome è Valeria, amante della vittima e poi del figlio Mario, il finanziere ucraino Baginov, il maggiordomo Ambrogio.

Come nella serie televisiva del Tenente Colombo noi sentiamo spesso nominare sua moglie, senza mai vederla, così qui Biondillo mette in bocca al divorziato Ferraro il nome della figlia Giulia, che non vedremo mai, se non nel finale per una ragione molto forte, che indurrà il protagonista ad una scelta coraggiosa. Ma Ferraro è così irregolare che compirà un’azione che un ispettore di polizia non dovrebbe mai compiere, va a letto con una donna “teste fondamentale per la sua indagine”, quando, per citare un celebre personaggio del genere giallo, sappiamo bene che resiste al corteggiamento l’ispettore Philip Marlowe ne “Il grande sonno”.

Il caso si chiude abbastanza presto. Vi è stata anche la morte violenta di Mario Donnaciva ma gli assassini sia del padre che del figlio vengono scoperti con relativa facilità. A Biondillo non interessa tanto, in questo inizio, dunque, costruire una trama che ci porti a spasso per individuare chi sia o non sia l’assassino, ma desidera disegnare il ritratto di una società confusa, violenta, dove la vita umana può essere sacrificata a qualunque ambizione, lecita o illecita che sia. Armandino, un personaggio che compare appena nella terza storia e ci commuove per il suo candore, rassegnato ma sereno nella sua povertà, privo di rabbia e di risentimento, viene ucciso nel corso di una rapina ad un supermercato. Tanto era ingenuo che non si rendeva nemmeno conto di ciò che stava accadendo. Vede a terra l’ispettore Ferraro, disteso come tutti gli altri clienti del supermercato, e va per aiutarlo ad alzarsi: “Mo’ stai tu per terra, aspetta che ti do una mano…” Al suo funerale, Ferraro indossa il solito vestito nero del suo matrimonio. Quando è il momento che la bara è calata nella fossa, pensa a chi abbia in mano il destino degli uomini, a “chi avesse la responsabilità di decidere la mattina quanto si doveva scavare nella giornata. Come facevano la contabilità dei morti prossimi venturi? Se era un martedì o una domenica cambiava qualcosa?” Quella morte, pur essendo avvezzo ad incontrarla nella sua vita, lo trascina per la prima volta dentro una realtà diversa ed invisibile, che sta in disparte ma non indifferente, bensì cinica e cattiva, la quale si diverte a mettere in atto un beffardo piano di annientamento, come a ricordare l’effimero e il nulla che siamo: “chi più si sarebbe ricordato di Armandino?” Ferraro non solo è uno che va a letto, come si è visto, con una teste importante, ma, nel corso della sepoltura di Armandino, cava di tasca la bottiglia di vino che il poveretto gli aveva regalato, ne tracanna buona parte del contenuto e il resto lo versa sulla bara. Si ubriaca. Ferraro è incline a violare il modello classico del poliziotto, che abbiamo imparato a riconoscere integerrimo almeno sul lavoro. Biondillo lo sta modellando nella creta, sapendo già che non riuscirà mai a contenerne per intero l’anima. Ferraro è un modello aperto, un personaggio continuamente “in fieri”. Non sono tanto la sua intemperanza e la sua idiosincrasia alla disciplina a caratterizzarlo, quanto proprio la sua imprevedibilità assoluta: “non era logico, non era neppure particolarmente intelligente.”

È tempo, ora, di mettere insieme i personaggi disegnati dall’autore, oltre ovviamente all’ispettore Ferraro: Luisa Donnaciva, Armandino, Mimmo “‘O Animalo” sono i più rilevanti, ve ne sono altri appena schizzati ma efficaci, come l’ispettore capo Lanza, la bella Stella Artois, Marietto Donnaciva, l’ucraino Baginov, talché il mondo che gira attorno a Ferraro si va animando di un colore che non è mai orientato al buio dell’ombra e del delitto, ma declina un chiaroscuro in cui negli individui non emerge mai il lato cupo e tragico, bensì quello comico e grottesco. Biondillo ha l’accento dell’autore che gioca le sue carte attraverso il divertimento, e nel porsi il serio interrogativo del per cosa si uccide, ci fa intendere la inutilità di un gesto, quello appunto di uccidere, che non porta in nessuna direzione, mentre lo stroncare una vita lacera il tessuto di una società dentro la quale tutto sommato sarebbe possibile vivere accettabilmente. Per cosa si uccide è un interrogativo, dunque, sull’irrazionalità che è in noi, la cui causa può dipendere dallo stesso male radicato nella società e mai estirpabile del tutto, ma anche da un male oscuro insito nella nostra natura, anch’esso invincibile come l’altro, al punto che non si può, ancora una volta come l’altro, spiegare, ma solo raccontare.

Se è vero che in un giallo che si rispetti, il movente conduce al colpevole, in Biondillo esso ha un valore intrinseco assai maggiore di quello di riuscire a far emergere l’identikit del colpevole, il quale può essere chiunque, non ha importanza. Importante è mostrare quale sia la causa scatenante che può possedere chiunque, e qualunque sia – buona o cattiva – la natura di chi ne è colpito. Più che il colpevole, è, perciò, il movente al centro delle storie di Biondillo: mostrare, ossia, la trappola che la società dispone per ordire i suoi inganni, nella quale tutti noi, nei nostri cupi momenti di debolezza, possiamo cadere.

Intonata alla Primavera, la quarta indagine di Ferraro, la più complessa, ci fa partire da Palermo, anni fa, su di un treno affollatissimo di gente che va verso il Nord, convinta di potervi cullare una speranza. Tra i passeggeri c’è Francesco Paternò che, oggi invecchiato, offre a Biondillo l’ispirazione per un bell’incipit: “Si chiamava Francesco Paternò ma tutti oramai lo chiamavano Don Ciccio. Era altoalto, un lampione, magro da far paura, sembrava ondeggiasse, come se il peso della testa producesse un carico di punta sull’asta del corpo al limite dello sbandamento. I capelli s’erano fatti bianchi ma ancora a sprazzi sporchi del giallo ricordo di un biondo giovanile; gli occhi di ghiaccio, cerulei da pura razza ariana.”

Sono passati quarant’anni dal quel viaggio e Don Ciccio decide di tornare a far visita alla sua isola insieme con la nipotina, un po’ come aveva fatto, ma in treno anziché in aereo, Silvestro Ferrauto, il protagonista del romanzo di Elio Vittorini, “Conversazione in Sicilia”. Solo che qui si tratta di una vacanza che dura giusto il tempo per acquistare una casa “nel borgo natio” e dare disposizioni per ristrutturarla e farla “mettere a posto”. È a Milano, nel suo negozio di frutta, che egli continuamente ripercorre il suo lontano viaggio verso il Nord e assapora il suo ritorno al Sud, ormai prossimo. Sono passati da quel viaggio con la nipotina cinque anni, ed ora manca poco tempo per ritirarsi in pensione (“Io chiudo alla fine del mese e me ne vado in penzione” – penzione è nel testo, giacché nei dialoghi Don Ciccio usa il dialetto siciliano). Il desiderio del ritorno si fa, perciò, sempre più forte. Ma che accade? Accade che “ogni giorno, da due settimane, ogni mattina, nel bancone ad esposizione sulla strada, rubavano la mela più bella.”

Don Ciccio ha tenuto nella sua bottega, quando era ancora bambino, Ferraro, proprio lui, l’ispettore, al quale confida, dunque, ciò che gli accade.

In quel momento, l’atmosfera nella città non è delle migliori. Gli affitti delle case di proprietà dell’ALER vengono aumentati, fino anche del 100%. Le manifestazioni di protesta crescono e si fanno pericolose. Una di queste, che Biondillo descriverà molto bene a partire dal capitolo 35, è temutissima. Al commissariato si predispongono le opportune misure precauzionali, alle quali deve prendere parte anche Ferraro.

Se non che una donna di ottant’anni, Matilde Serrano, viene trovata morta strangolata e Ferraro è dirottato a dirigere le indagini. Raggiunge, perciò, i colleghi Lanza e Comaschi, già sul posto. Lanza, sebbene tra i tre sia l’ispettore capo, ossia il superiore, viene descritto da Biondillo come un buontempone che Ferraro mette a tacere ogni volta che si prova ad esporre delle osservazioni del tutto fuori posto. Ciò nonostante Lanza, come vedremo, si mostrerà pure generoso nei confronti di Ferraro.

La quarta storia risulta senza dubbio la migliore, non tanto per il fatto che si avvicina di più al genere, quanto a motivo dell’occasione che offre a Biondillo di distendere con il massimo piacere la sua limpida scrittura. Senza questa quarta storia, inoltre, il contenuto delle altre si perderebbe nel nulla, le quali, paradossalmente le meno importanti sul piano narrativo, sono quelle che dànno il significato più intimo al titolo del libro. Essa rappresenta il momento in cui Biondillo assume l’autorevolezza di uno scrittore in grado di raccontare. Oltre all’incipit, infatti, già citato, vi sono, in quest’ultima storia, altre pagine memorabili, come quelle dedicate al ricordo di una Milano che fu, “una città d’acqua, una Venezia nel cuore della pianura”. Una Milano che si fa, non cornice della storia, bensì protagonista: in primavera “di botto, dalla sera alla mattina, Milano diventa un’immensa passerella dove le ragazze sfilano, una più bella dell’altra.” Si ha perfino la sensazione che Biondillo racconti questa storia per raccontare in realtà Milano, una città amata: “E poi ci sono le commesse dei negozi, la quintessenza della femminilità milanese.” Una tale bellezza è frutto anche dell’incontro tra il Nord e il Sud, del rimescolamento, ossia, delle razze, che ha rinvigorito “una razza fin troppo nebbiosa e algida”. È un inno, dunque, un canto che si leva all’improvviso a celebrare una bellezza che promana da un mondo liberato da confini e da pregiudizi: “hanno figliato e mandato le loro bimbe a studiare. Ed eccole che a diciassette anni sembrano tutte uscite dalle mille e una notte, belle come nelle fiabe.”

L’omicidio della donna sembra essere maturato nell’ambiente del contrabbando di sigarette. Anche la palestra appartenente a Davide Cassi – figlio della vittima e di Luigino Cassi, il realtà il patrigno, che ha alle spalle una bella “carriera nelle patrie galere” e abuserà del ragazzo – è stata bruciata. Si sospetta di Domenico Jodice, detto Mimmo “‘O Animalo”, al quale la donna, ultima arrivata nell’ambiente, stava sottraendo clienti. “‘O Animalo” è stato amico d’infanzia di Ferraro, ed è il solo che continua a chiamarlo (lo farà poi anche Luisa Donnaciva, appena verrà a saperlo) con il soprannome che l’ispettore aveva da ragazzo, Chiodo. In un incontro segreto, gli giura di non essere stato lui ad assassinare la donna. Ferraro gli crede e fa di tutto per minimizzare i sospetti che si accumulano sul suo conto: “Mentire a Comaschi era una vera vigliaccata; aveva voglia di sputarsi in faccia.”

Lanza, pur sospettando l’irregolare rapporto tra Ferraro e “‘O Animalo”, lascia a Ferraro la direzione delle indagini, che proseguiranno con la collaborazione del solo Comaschi.

Don Ciccio, Mimmo Jodice detto “‘O Animalo”, í€ntimo Rotunno detto “Ommemmè”, sono i personaggi attraverso i quali si arriva a sciogliere gli enigmi della storia, tutti meridionali, e tutti impregnati delle caratteristiche degli uomini del Sud, i quali restano, dunque, secondo un’interpretazione che ci fa intendere l’autore, immutabili anche dopo tanti anni di convivenza al Nord: “pensavo fossero cose che succedevano solo in Sicilia”. Biondillo si mostra capace di commenti sarcastici fulminanti, tali da suscitare il sorriso e rendere la storia divertita e divertente ad un tempo: “E mentre lo diceva gli cresceva il naso a dismisura.”; “L’alibi perfetto di uno stupratore”; “A questo punto non era più gastrite. Era un’ulcera perforata.”; “Ferraro avrebbe voluto farsi speleologo e visitare il centro della terra.”; “O forse aveva problemi alla tiroide, chi lo sa.”; “La sua maglietta era ormai da lavanderia.”; “Ferraro si ritrovò a fare il vigile urbano.”, e così via. Diventano il connotato specialissimo del suo stile; la manifestazione di una intelligenza che è lì ad osservare per estrarre, pur da una vicenda tragica, quella grottesca comicità che è sparsa evidentemente, secondo l’autore, a piene mani nelle azioni degli uomini.

Ma il commercio di sigarette, vedrete, nasconderà un commercio ben più illecito, orribile, sconvolgente; e sarà quell’ “Orrore” la causa dell’omicidio.

La collaborazione tra i poliziotti e i carabinieri – guidati da un capitano Gerini gentiluomo (“forse era un vero signore; uno di quelli d’altri tempi”) che ricorda il capitano della serie televisiva “Il maresciallo Rocca” – sarà determinante per risolvere il caso. Giulia, la figlia, la ricordate? Non compare mai, proprio come la moglie del tenente Colombo. Salvo che nel finale. Perché sarà lei ad aprire gli occhi a Ferraro e a cambiargli la vita: “Due coppie di ciliegie le incorniciavano il volto a mo’ di orecchini e una specie di corona di fiori di pesco e di arancio le decorava il capo. Pareva un angioletto rinascimentale.” E sarà un po’ anche grazie alla presenza della figlia che Ferraro scoprirà finalmente il ladro che rubava ogni mattina la mela più bella a Don Ciccio. Una sorpresa anche questa.


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Bart