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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

De Roberto, Federico

7 Novembre 2007

I Viceré    
Ermanno Raeli

“I Viceré”

Newton Compton, pagg. 416. Euro 3

Comincia con il trambusto provocato dalla morte della vecchia e autoritaria principessa Teresa Uzeda il romanzo che seguirà le vicende di questa nobile famiglia siciliana, ricca e rispettata.  Teresa Uzeda, in realtà, è colei che ha sposato Consalvo VII, quando lei ne aveva trenta e lui diciannove, e il matrimonio era servito al principe Giacomo XIII, “che spendeva e spandeva regalmente”, a rimpinguare le casse quasi vuote della famiglia. Gli Uzeda, infatti, “non avrebbero dato Consalvo VII alla figlia d’un semplice barone contadino, se costei non avesse colmato coi quattrini la distanza che la separava da un discendente dei Viceré.” Sono, quindi, gli Uzeda, i Viceré del titolo, di cui facciamo conoscenza con ritratti superbi, in particolare quello del benedettino don Blasco, cognato della defunta, dalla lingua che taglia e cuce, sempre pronto a criticare e a mettere zizzania, non perdonando al padre Giacomo XIII di averlo costretto al convento, e che “aveva seminato figliuoli in tutto il quartiere, e manteneva tre o quattro ganze”, tra cui la “Sigaraia” donna Lucia, la preferita.

A differenza e a completamento del Verga (del quale assorbe il culto della “roba”), il mondo che viene eletto a soggetto della vicenda è quello dell’aristocrazia meridionale, che vive in antichi palazzi attorniata da molta servitù onorata di trovarvisi a servizio da più generazioni, e dal popolo minuto che ancora le riconosce il diritto e il privilegio di una esistenza superiore.

Come ne “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa noi udiamo la cantilena del rosario recitato nella casa del principe Salina, così qui avvertiamo l’odore dei ceri accesi attorno alla bara della defunta, i pianti delle prefiche, la ressa e la curiosità della folla che non può mancare ad un evento così importante. I tempi vengono scanditi lentamente e minutamente sono osservate le vicende. Sono già palesi in queste prime pagine le misure ampie di un affresco poderoso che l’autore si accinge a disegnare per noi, che tramandi il ritratto di una Sicilia che, attraverso l’allegoria della morte di una donna austera e venerata, depositaria di privilegi che hanno sorretto una civiltà durata secoli, si prepara ad un ineluttabile mutamento.

Lo sfondo, infatti, è quello della Sicilia scossa dalle idee liberali e dai conseguenti moti rivoluzionari del 1848, che creano divisioni e crepe nella solida aristocrazia locale (la storia ha come città di riferimento Catania) e soprattutto nel casato degli Uzeda, penetrandovi come un subdolo aculeo che a poco a poco, più che nelle questioni di successione pur sorte tra gli eredi di donna Teresa, s’insinua nelle vecchie e rugginose chiusure non più resistenti a sostenere gli assalti di un’era nuova.

Una delle qualità del narratore De Roberto salta agli occhi sin dalle prime pagine, quando inizia, senza darne a vedere, i ritratti dei componenti dell’antica e nobile famiglia siciliana, e mentre il racconto va avanti, egli si sofferma a dipingere con mano quasi carezzevole i ritratti dei suoi personaggi, intrisi, come i comuni mortali, di inquietudini, gelosie, amorucoli, tradimenti, paure, ipocrisie, ritratti che andranno sempre di più esaltandosi nei contorni con l’avanzare della storia, confluendo in una vera e propria galleria di impareggiabile raffinatezza. Così a poco a poco noi entriamo nella vita della famiglia Uzeda, come se li conoscessimo assai bene, e addirittura fossimo qualcuno dei cosiddetti “lavapiatti”, ovvero quei nobili ammessi in casa Uzeda, spesso pranzando con loro, per tenere compagnia e rendersi utili in qualche servigio. La quale casa vantava perfino un antenato che era stato convinto dai monaci a sposare, con tanto di cerimonia e scambio di anelli, la Madonna! E non solo, ma si “gloriavano perfino d’una santa in cielo: la Beata Ximena”, della quale l’autore riassume da maestro, al modo delle storie sacre, la vita E a proposito di monaci, il capitolo 6 della prima parte (il romanzo è suddiviso in tre parti) ci riserva un superbo ritratto del convento di San Nicola, dove viene rinchiuso, come si usava tra le famiglie di alta nobiltà, l’irrequieto e ambizioso principino Consalvo per ricevere un’adeguata educazione. Il lusso e la lussuria (“I monaci infatti facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso”) vi spadroneggiano, congiuntamente alle gelosie e alle divisioni politiche tra liberali e borbonici, in una densa atmosfera barocca che culmina nella descrizione opulenta dei riti della Settimana Santa. Ci troviamo di fronte a pagine memorabili, di rara bellezza. Brevi ma altrettanto efficaci quelle dedicate alla Festa del Santo Chiodo, con l’antica processione della sera del 14 settembre, in cui la Santa Reliquia donata da Re Martino ai monaci nel 1393 fa il giro della vasta piazza dinanzi alla chiesa.

Sono gli anni in cui il vento liberale che proviene dalla Francia e passa per il Piemonte di Cavour continua a spirare soprattutto laddove la restaurazione degli antichi privilegi della nobiltà stride con le speranze e le illusioni coltivate soprattutto dalla borghesia arricchitasi nel frattempo. Così le dispute tra le due fazioni assurgono a simbolo di una transizione che non sarà poi tanto breve e vedrà il succedersi del prevalere quando dell’una e quando dell’altra. Perfino nel convento di San Nicola, alimentate dal sanguigno don Blasco, zio del principe Giacomo, le discussioni non mordono il freno e rischiano di accendere furiose liti tra i monaci. Due farmacie, quella di Timpa e quella di Cardarella, ospitano, la prima, i “fedeli” al re di Napoli, la seconda “i rivoluzionari” che guardano alla Francia e a Cavour. Come si è detto, queste divisioni passano anche in casa degli Uzeda, ad esempio tra il monaco benedettino don Blasco e il fratello maggiore don Gaspare, duca d’Oragua, che diverrà una specie di eroe liberale, contagiando in qualche modo gli altri. Griderà don Blasco, il cui carattere violento lo porta sempre a seminare zizzania ovunque si trovi, in casa Uzeda o in convento, dove è rinchiuso anche don Lodovico, suo nipote e fratello del principe, che gli ha soffiato, sapendosi meglio barcamenare tra le opposte fazioni, il posto di Priore: “Io non ho fratelli! Non ho parenti! Non ho nessuno: com’ho da cantarvelo?…” Oppure: “Chi è Garibaldi? Non lo conosco!…” furiosa affermazione pronunciata poco prima dello sbarco a Marsala, nel maggio del 1860, dell’Eroe dei due mondi, con il quale fa il suo ingresso nel romanzo il Risorgimento, visto con gli occhi di chi quelle terre le abitava da secoli, attraversato da feroci vendette dei vincitori sui vinti e finito, quando Garibaldi più tardi s’insedierà a Catania – addirittura acquartierato nel convento di San Nicola! – per proseguire, contro la volontà dei piemontesi, alla volta della conquista di Roma, con “la fuga generale dei nobili e dei ricchi”, allo stesso modo in cui fuggiranno dal colera, che a più riprese farà la sua apparizione nel romanzo.

“Sogno di Dante e Machiavelli, sospiro di Petrarca e Leopardi, palpito di venti secoli”, l’annessione della Sicilia al Piemonte costituirà motivo profondo di spaccatura tra le due fazioni di casa Uzeda, senza che i vinti, va da sé, rinuncino a sperare nel ritorno dei borbonici: “don Eugenio dimostrava, con la storia alla mano, che la Sicilia era una Nazione e l’Italia un’altra.” Don Eugenio è un altro degli zii del principe Giacomo, ossia fratello di don Blasco, ma, a differenza di lui, era riuscito a sottrarsi al convento a cui era stato destinato ed ora s’interessava, senza gran profitto, di archeologia, numismatica e “arti belle”. Sarà lui a scrivere quella bizzarra e incomparabile lettera circolare relativa all’uscita della sua opera “L’Araldo siculo”, che incontriamo al principio della parte terza del romanzo, e che lo trasformerà in un arruffato questuante. E frutto dei mutamenti sarà anche il coraggio di un piccolo borghese di provincia, Benedetto Giulente, un “avvocato”, schieratosi tra i “savoiardi”, di chiedere nientemeno che la mano di Lucrezia Uzeda, la sorella del principe!

Fa meraviglia di trovare in questo corposo romanzo una scrittura ancora persuasiva e moderna, mai noiosa o pedante, nonostante la prima stesura dell’opera risalga alla fine dell’800 e agli anni ’20 quella definitiva, e priva di quel romanticismo alla Stendhal di cui opere di questo genere spesso si adornano – si pensi all’occasione offerta dalla storia d’amore della principessina Teresa – ed anzi anticipatrice, forse più del Verga stesso, nell’uso sapiente e versatile di espressioni e termini popolari che tanto vanno di moda oggi, e che qui non sono mai impiegati in modo neutro. Di esempi se ne potrebbero fare a iosa, bastino questi: quando, nella parte terza, si descrive la nuova sala consiliare: “nel mezzo di tutta la baracca, sopra un’alta predella, il seggiolone sindacale dorato e scolpito” e quando si prepara il comizio di Consalvo – vero gioiello di artifizio politico – dell’8 ottobre 1882; “una coccarda grande come una ruota di mulino” era quella che giganteggiava sul petto dell’ex maggiordomo di casa Uzeda, Baldassarre. Tutto vi è di godibile, dunque, dagli sguardi indiscreti sui personaggi, fino ai sontuosi affreschi barocchi della società del tempo, ivi comprese quelle che agli occhi del lettore e dell’autore stesso sono le deboli e confuse resistenze di un mondo che sta per scomparire, a cominciare da quelle opposte dalla stessa “frateria” all’interno del convento di San Nicola, il quale assurge, colpito com’è duramente dalle nuove leggi liberali, a simbolo forte del mutamento.

Si legga anche questa frase che il principe, subito dopo l’elezione dello zio Gaspare a deputato del nuovo Parlamento italiano, dice al figlioletto Consalvo, che non la dimenticherà mai più: “Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il parlamento, lo zio è deputato!…” Uno zio che è una figura assai riuscita per rappresentare come meglio non si può la nuova abilità dei politici a temporeggiare e a districarsi sempre da ogni situazione, e con la quale l’autore pare perfino divertirsi. Si veda qui: “egli teneva il centro della strada, quasi ne fosse il padrone, ascoltato devotamente da quanti gli stavano a fianco, aspettato da tutta una corte intenta a tessere e a ritessere le sue lodi quando, per un piccolo bisogno imperioso, egli s’accostava ad un cantone.”

È il romanzo delle divisioni, dunque, anche e soprattutto: sull’eredità (non solo quella di Teresa Uzeda, vedrete), sulla politica (che vi occupa gran parte, magistralmente condotta, non solo quella nazionale, ma anche la locale, perfino in ragione di feste paesane), sugli amori contrastati (ad esempio quelli tra la biliosa Lucrezia e Benedetto, e specialmente tra la sottomessa e sventurata Matilde e il capriccioso Raimondo, “il contino” un po’ scapestrato, cocciuto e donnaiolo, che dà agio all’autore di comporre quegli straordinari capitoli 4 e 5 della parte seconda, vera e propria summa dell’intrigo, che si avviano allorché il cocchiere Pasqualino Riso racconta in giro come sono andate le cose tra il suo padroncino e la consorte, ovviamente nella propria esilarante versione dei fatti), e il cicaleggio, oltre che il pettegolezzo, che ne derivano – di cui don Blasco, vero cultore della “roba”, disposto a mutare idee per essa e divenire sacrilego, e la sorella usuraia, “zitellona”, donna Ferdinanda (“i fiutoni” li chiama l’autore) sono autentici campioni – riflettono la migliore qualità di De Roberto, arguto e fine osservatore della vita di tutti i giorni, sia nelle grandi che nelle minute cose, e quando si giunge alla fine del romanzo, noi respiriamo l’aria stessa di casa Uzeda, come fossimo finalmente uno di loro, e ci muoviamo come a casa nostra tra quelle stanze e conversiamo coi personaggi come fossero persone vive, e avvertiamo intorno a noi l’ombra, la mano nera, silenziosa, ambigua, e tuttavia avida e prepotente del superstizioso, fino alla ossessione, principe Giacomo. Alla fine, il mutamento sociale, sia pure lento e contrastato, avvolgerà anche casa Uzeda, e – autentici camaleonti – non vi sarà più personaggio rimasto quello di prima, e Consalvo, il principino erede, orgoglioso ed avido pure lui, ma più che di denari, di onori, saprà presto misurare i limiti che nessuno vedeva, ma c’erano: il provincialismo e gli impacci del proprio avito casato, e troverà presto il modo, guardatosi intorno come un redivivo Machiavelli, di applicarsi duramente e astutamente a diventare, sotto altri panni, un moderno “Viceré”. Un romanzo capolavoro che non si può dire di leggere tutto d’un fiato solo a causa della sua mole, e che si desidera appassionatamente, ogni volta che se ne s’interrompe la lettura, di riprenderla quanto prima, a cui ci pare debba quasi tutto l’altro capolavoro della nostra letteratura “Il Gattopardo”, al punto che si potrebbe pensare che senza “I Viceré”, e specialmente senza la lezione superba di quell’ultimo capitolo, esso non sarebbe neppure nato: “Chi batteva la solfa, sotto l’antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso!”. E, proprio in quell’ultimo capitolo: “Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dal Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto…”

Anche “I fuochi del Basento” di Raffaele Nigro non nasce forse da una costola di questo romanzo? Quanta riconoscenza a De Roberto, dunque, che ha fissato nel bel firmamento della nostra letteratura degli ultimi due secoli una stella luminosa e perpetua destinata a brillare accanto a quelle altrettanto splendide e durature che si chiamano: “I promessi sposi”, “I Malavoglia”, “Il mulino del Po”.

“Ermanno Raeli”

Ci siamo già occupati di De Roberto (nato a Napoli il 16 gennaio 1861, morto a Catania il 26 luglio 1927) scrivendo de “I Viceré” nel libro “Generazioni a confronto nella letteratura italiana”, uscito per Marco Valerio editore nel 2006.
Ermanno Raeli” precede di cinque anni “I Viceré”, considerato il suo capolavoro, e fa seguito ad una raccolta di poesie, “Encelado” del 1887, e due raccolte di novelle, entrambe uscite nel 1888: “La sorte” e “Documenti umani”. La prima edizione di “Ermanno Raeli” riporta la data della sua ultimazione: “Autunno del 1887″.
In occasione della ricorrenza del ventennale dalla morte, uscì su “Il Mattino di Sicilia” del 3 agosto 1947 un articolo intitolato “Federico De Roberto”, a firma di Francesco Geraci, nel quale, circa la personalità dello scrittore, si legge: “Egli apparteneva al valido manipolo dei più personali scrittori italiani del secondo Ottocento – il gran secolo della nostra civiltà – Scrittori di primo piano, robusti e delicati, insie ­me, che erano anche degli aristocratici nel pensiero, nel co ­stume e nella vita: Verga, De Roberto, Capuana, Bracco, Praga, Pirandello, Fogazzaro, Rovetta, Fucini, Zuccoli, e due donne, la Serao e la Deledda. Romanzieri, novellatori e au ­tori drammatici che riscatta ­rono il romanzo e il teatro dal servaggio straniero.
… [De Roberto] trascorse tutta la sua vita a Catania da dove, di tanto in tanto, si assentava per andare a trovare a Milano gli amici delle comuni prime battaglie d’Arte. Ugo Ojetti, che lo conobbe nel 1894 a Mi ­lano – e proprio alla vigilia di pubblicare «I Viceré » – così lo descrive: «È un gio ­vane di appena trent’anni, bruno, elegante, ha il mono ­colo. Parla con accento sicilia ­no… in questo mio soggiorno egli è stato uno dei tre o quat ­tro compagni più cortesi e più cari e più assidui… De Roberto mi dice: «Il lettore che apre un libro per leggerlo e non per anatomizzarlo e criticarlo, in tutti i moderni romanzi, specialmente nei romanzi co ­sì detti psicologici, ritrova sem ­pre presso a poco la stessa cucina, lo stesso tema, e se ne annoia: e dal suo punto di vi ­sta ha ragione. Quindi io cre ­do che non vi sia salvezza che nel romanzo di costume e il romanzo che sto per pubbli ­care è un romanzo di costume: «I Viceré ».
[…] Al contrario (di Verga. bdm), De Roberto più si avvicinava al turbinoso vivere mondano e più sentiva il bi ­sogno di isolarsi per trovare e sviluppare gli elementi essen ­ziali alla sua opera. Egli era uno studioso. L’isolamento dal ­la vita effimera gli aveva per ­messo di farsi una cultura, va ­sta, solida, organica e profon ­da, letteraria e filosofica. Questa preparazione culturale lo ren ­deva spesso alquanto scettico al momento di terminare un romanzo. Egli si sentiva sem ­pre perplesso di fronte al pub ­blico. Sentiva – forse esagera ­tamente – la grande respon ­sabilità dell’opera d’arte. Ecco perché il nostro romanziere possiede la speditezza e la disinvoltura del Verga, la incom ­parabile e piana semplicità del Capuana, e qualche volta può anche sembrare monotono. Perché il De Roberto è sempre preoccupato, e la sua analisi psicologica meticolosa, rigida ­mente pensata, e controllata, al pari dello stile che egli cura con una pazienza da umanista, riflette appunto la personalità dello scrittore.”

Parole che valgono tanto per “I Viceré”, quanto per “Ermanno Raeli”.

Il quale Ermanno Raeli, piccolo di statura, ma non brutto, “di salute malferma e cagionevole fino all’adolescenza”, nel suo carattere paga lo scotto di essere figlio di padre siciliano e di madre tedesca, per cui in lui agiscono due personalità diverse, che lo rendono indeciso in tutto, perfino nel parlare giacché gli si presentano sempre alla mente i due differenti modi di esprimersi nelle lingue che conosce: l’italiano e il tedesco: “Di qui, una difficoltà di rendere con evidenza molte impressioni, di definire precisamente molte idee, e particolarmente una mancanza di carattere e di colorito nel suo dire.”
Il narratore ci racconta dell’incontro avuto con questo personaggio, che lo interesserà a tal punto da seguirne la vita: “A poco a poco, riuscii a conquistare la sua intimità, a leggere in quell’anima ed a comprenderne i modi d’essere e di sentire.”
Ermanno vive un dramma che appartiene, è appartenuto e apparterrà a chissà quante generazioni: “Ciò che mi aveva detto circa le intenzioni poetiche delle quali era pieno e l’inattitudine all’espressione, aveva particolarmente attirata la mia attenzione”.
Non riuscire ad esprimere ciò che si muove dentro di noi è uno di quei fenomeni psicologici che possono condurre alla follia, e sempre conducono all’irrequietezza e ad una sorta di menomazione. La vita si trasforma in un continuo inseguimento dietro ad un fantasma di belle forme, che non riusciremo mai a raggiungere e dunque a toccare e possedere.
Ermanno, per di più, è incline alla poesia. Compone versi che non lo soddisfano. La sua tendenza è quella di sfuggire alla realtà.

Viaggia. Va anche a Parigi, dove si parla di Zola e di Dumas figlio. Il romanzo di quest’ultimo lo colpisce, avverte il fascino e la bellezza dell’amore, che, anziché gioia e entusiasmo, gli genera, in un primo momento, malinconia.
Le lettere che scrive all’amico narratore sono intrise di un romanticismo che attinge al Foscolo e a Stendhal.
De Roberto lo asseconda con una scrittura, tuttavia, sorvegliata, quasi che voglia darci il segnale di uno spirito di morte che può essere contenuto in quella pericolosa corrente di pensiero. Ermanno, infatti, non è dissimile, in   quegli anni della sua vita, dai molti giovani che fanno della malinconia il filo conduttore della propria esistenza, una specie di passaggio obbligato, di prova cui si è tenuti, e da cui si potrebbe essere vinti. Non dimentichiamo che Byron e Shelley erano già divenuti autentici eroi romantici.
L’incontro a Vienna con la bella Stefania Woiwosky, “Slava ardente e spregiudicata”, provoca in lui un capovolgimento delle proprie convinzioni. Preso dal fascino della donna, come accade quando ci si è sempre cullati in un pensiero avverso, egli si lascia irretire e trascinare dalla novità del proprio sentimento: “Tutto era per lui ragione d’amarla, ed egli l’amò con la veemenza del temperamento paterno accresciuto dalla lunga castità, e con tali invenzioni di sentimento, con tanta squisitezza di pensieri, con tanta poesia d’espressione, che ella, avvezza ad un mondo molto diverso, ne restò stupefatta ed estasiata, benché senza troppo capirle.”
S’instaura presto un amore ad una sola direzione, quello di Ermanno, a cui la donna corrisponde non come egli vorrebbe, anzi, sempre più stancamente. Ma la nuova esperienza è così forte e totalizzante nel giovane che egli, pur avvertendo il crescente distacco della donna, si sforza di nasconderlo ai suoi occhi per paura di essere travolto dalla delusione e dallo smarrimento. Egli “negava talvolta la stessa evidenza.”
Il romanzo mette al centro della sua storia la disperazione dell’amore, o meglio ancora la possibilità di crederci e di riconoscerlo. E così Ermanno vive la vita come continua ricerca e negazione dell’amore. Si domanda se esso non si riduca al solo “appagamento dell’appetito bestiale” e “Riconosceva finalmente la sua illusione, l’inganno di qualche cosa che era soltanto dentro sé stesso, nella sua immaginazione, nel suo desiderio, nella sua pazzia, e che mai, mai, avrebbe potuto afferrare…” Avverte, ossia, un tremendo abisso tra ciò che sente e ciò che può offrirgli la realtà: “e una ruga precoce, indelebile traccia della tempesta, solcò la sua fronte.”

Ma l’amore non si arrende di fronte a questo ostinato misogino (“era troppo singolare, usciva troppo dall’ordinario“) e due donne affascinanti gli compaiono innanzi al suo ritorno a Palermo. Una è la contessa Rosalia di Verdara, moglie dell’amico conte Giulio di Verdara; l’altra è una sua giovane amica venuta da Parigi, Massimiliana (Maxette) di Charmory.
Non vi è dubbio che si respira un’aria stendhaliana sempre più intrigante in questo romanzo, in cui lo stile pressoché sorvegliatissimo, sicuro, ben temperato rende piacevole la lettura. Nel dramma di Ermanno si inserisce, ossia, una certa qual musicalità delle forme, siano esse costituite dalle figure dei personaggi, o dalle vaporose atmosfere degli ambienti eleganti della società siciliana. Un esempio del riuscito controllo sulla scrittura – in questo libro tendenzialmente romantica – può essere dato dal seguente brano: “La muta armonia del tramonto, dell’adorabile mistica ora nella quale, come a lenti giri, la luce sembra ascendere le cerule scale degli spazii infiniti, riecheggiava in lui; tutto l’essere suo vibrava come in un’ebbrezza.”
Conosciuto specialmente per il suo capolavoro “I Viceré”, De Roberto mette a segno con questa sua precedente opera un risultato per niente disprezzabile, e resta una qualche amarezza ove si pensi che essa è pressoché caduta nell’oblio. Devo all’amico Giorgio Bárberi Squarotti, incomparabile conoscitore della nostra letteratura, se sono arrivato a scoprire questo piccolo gioiello, rientrando nel novero di coloro che ne hanno potuto gustare i pregi.
Nonostante il suo scetticismo nei confronti dell’amore, la presenza e la frequentazione della giovane Massimiliana di Charmory introduce in lui delle piccole ma costanti modificazioni a cui, pur tentando di sottrarvisi, soggiace a poco a poco. Il pensiero di lei è già di per sé sufficiente a farlo sentire   “diventato veramente un altro uomo.” Ma per colmo di   sventura, i rossori, le timidezze di Ermanno vengono scambiate dalla contessa Rosalia Verdara quali segni inconfondibili dell’amore del giovane per la sua persona, “poiché, suo malgrado, ella si era accesa d’amore per lui.” La contessa ha avuto numerosi ammiratori, ma vi ha sempre fatto fronte acquistandosi la fiducia del marito e una reputazione, come la signora de Renal de “Il rosso e il nero”, “di rigida onestà e quasi di frigida indole, che aveva contribuito anch’essa a preservarla da attacchi ulteriori.
De Roberto, a riguardo delle schermaglie e degli intrecci psicologici tra i personaggi invischiati in una storia d’amore e di gelosia, quale, appunto, quella che lega tra loro Rosalia, suo marito (“Indifferente in apparenza, il conte si era accorto da un pezzo della simpatia di sua moglie per l’amico”), Massimiliana ed il conteso Ermanno, non ha niente da invidiare a Stendhal. I risvolti psicologi sono, pur nella loro sottigliezza, densi di umore e di passione. Ermanno non ne è, tuttavia, ancora preso. Ciò che avverte, specialmente nei riguardi di Massimiliana, è un desiderio di accordo spirituale, di “unione delle anime. La sola cosa della quale avesse bisogno era comprendere ed esser compreso da un’altra creatura”; “L’idea dell’amplesso fisico era per lui insoffribile; egli non poteva ammettere che il candore del giglio fosse macchiato, che la purezza della fronte adorata fosse offesa.”
Un po’ dell’amore cortese, una eco degli stilnovisti medioevali arricchiscono il crescere di un sentimento che, dall’abisso in cui il protagonista era sprofondato, lo riporta alla vita. Ciò che avverte Ermanno a fianco di Massimiliana è una sorta di rinascita che lo colloca al principio di un percorso che egli deve di nuovo intraprendere con tutta l’innocenza e il candore propri di una giovinezza che era stata da lui dissipata se non addirittura disconosciuta. Vi si muove con una esperienza nuova, anzi, rinnovata, e tuttavia adolescenziale, esposta a tutti i pericoli, senza le pur minime difese che accompagnano, invece, la crescita di una gioventù che, tanto più è serena e spensierata, tanto più è spavalda e sicura.
Massimiliana gli resiste non perché non l’ami, ma in forza di un segreto che non ha ancora la forza di confidare né a lui né alla contessa. È un segreto che si porta dietro da tempo e che l’opprime e suscita in lei il convincimento: “che ella è indegna di quell’amore, che mai ella avrebbe potuto accostarsi all’altare!…” Un segreto che l’ha gettata nello sconforto e nella tristezza, negandole la felicità. Si tratta di un stupro, della violenza subita dal padre della viscontessa d’Archenval, il duca Gastone di Précourt, un giocatore e un vizioso incallito che, dopo aver consumato il suo proposito, è sparito. L’amore sincero di Ermanno, di cui si è accorta sin dai primi sguardi e a cui ha tentato di non corrispondere, ora le procura un’angoscia insostenibile. Dovrebbe confessargli tutto, o altrimenti sarebbe complice di un terribile inganno.
Una fosca aria di tragedia s’insinua a poco a poco nel romanzo. Noi avvertiamo nitidamente che il romanticismo che nutre il suo autore è della specie più crudele. Ci accorgiamo di essere costretti da De Roberto ad addentrarci dentro uno dei mali sociali non ancora – ai giorni nostri – risolto: la violenza nei confronti della donna, moltiplicatasi in ragione del prolificare del progresso e delle occasioni. Circa sessant’anni dopo, il romanzo di Anna Banti, “Artemisia”, uscito nel 1947, riprenderà lo stesso drammatico tema.

In tutto questo intrigo, la contessa Rosalia diventa il focus, l’elemento in grado di far prendere agli avvenimenti una direzione o la contraria. In lei ragioni di gelosia e di una sottile malvagità la indurrebbero a svelare ad Ermanno il segreto confidatogli da Massimiliana con una lettera disperata, ma la trattiene il pensiero del dolore che una tale rivelazione provocherebbe nel giovane. La trattiene inoltre “la naturale sua rettitudine” che “le rappresentava come un’indegnità il trarre profitto per sé, per i suoi fini inconfessabili, della confidenza che un momento di terribile angoscia aveva strappato alla disgraziata…”
Nulla accade al momento e Massimiliana è presa sempre di più d’amore verso Ermanno, che ancora non sa: “Spirito ingenuo, che le prove dell’esperienza impressionavano senza ammaestrarlo”. Di questa momentanea quiete sembra beneficiare la mente della giovane che si lascia accarezzare da speranze e sogni.
Pare di rivivere le atmosfere inquietanti di “Tess dei d’Urberville”, che   Thomas Hardy scriverà nel 1891, ossia appena due anni dopo.
C’è un confronto che De Roberto pone tra l’ambiente frivolo da una parte (Palermo è chiamata “porta dell’Oriente”), in cui i due innamorati arrivano a parlarsi e che dà la possibilità ad Ermanno di fare la sua dichiarazione d’amore e, dall’altra, l’intensità e la drammaticità di un rapporto tra i due che Massimiliana, pur non desiderandolo, cerca di fuggire.
La storia continua a giocarsi molto sulle qualità e sensibilità di rappresentazione psicologica raffinata proprie del loro autore. I personaggi si muovono, infatti, come camminando su di un filo sospeso a mezz’aria da cui si può cadere da un momento all’altro: “si leggeva nell’imbarazzo del suo contegno, nell’amarezza espressa dall’increspamento di un angolo del labbro, la lotta interiore che si combatteva in lei.”
In particolare, Massimiliana, Rosalia ed Ermanno sono composti più che di carne, di complessi ed indistricabili labirinti della mente. Paure, gelosie, indecisioni, dubbi li restituiscono al lettore senza una loro precisa fisionomia fisica, bensì unicamente attraverso una loro identità spirituale ed intima.
Compare una frase, nell’ultimo capitolo, quando il romanticismo delle espressioni si fa più accalorato, che dà la chiave dei processi psicologici che si intrecciano nella tragica storia. È la domanda che Massimiliana pone a se stessa: “C’era dunque qualche cosa di più terribile del dolore; l’idea del dolore del quale si è causa?” Sarà questo convincimento, infatti, a sciogliere gli intrecci e a permeare il romanzo di un cupo e amaro sapore, che non troveremo così intenso nemmeno nel capolavoro di De Roberto: “I Viceré”, di appena cinque anni dopo.

Un’appendice, proposta sotto la finzione di una lettera inviata all’autore da un anonimo, riporta in una manciata di pagine “la vera fine di Ermanno Raeli” ed alcune sue poesie (quelle che poi confluiranno nell'”Encelado”). Il finto anonimo ad un certo punto scrive: “Non avete voi taciuto la verità vera per il torto che essa può fare alla memoria del nostro amico?” Così che si può concludere che l’appendice proposta da De Roberto nell’edizione Mondadori del 1923, ci vuol mostrare quanto la risposta che ciascuno di noi può dare alla vita sia sempre incerta ed enigmatica.


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4 Comments

  1. Commento by alphonse doria — 25 Settembre 2009 @ 19:45

    una giusta prospettiva letteraria, condivido pienamente

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 25 Settembre 2009 @ 20:02

    Grazie.

  3. Commento by alphonse doria — 6 Ottobre 2009 @ 19:28

    Da oggi ho iniziato la pubblicazione a puntate sul mio blog lo studio de IL CICLO DEGLI UZEDA di Federico DE ROBERTO invito la lettura:http://alphonsedoria.splinder.com/post/21443024/L'ULTIMO+UZEDA+-+Introduzione

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 6 Ottobre 2009 @ 21:03

    Visto il tuo lungo scritto. Da quel che scrivi un autore che dovresti leggere è Carlo Alianello.

    Un assaggio qui, nelle mie letture:
    https://www.bartolomeodimonaco.it/?p=551

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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart