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Burocrazia inossidabile

9 Maggio 2013

di Francesco Giavazzi
(dal “Corriere della Sera”, 9 maggio 2013)

Uno dei motivi, forse il principale, per cui il governo guidato da Mario Monti non è riuscito a tagliare la spesa pubblica è stata la scelta di mantenere al loro posto, quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri.
Il nuovo governo ha tempo fino al 31 maggio per decidere se confermare gli alti dirigenti dei ministeri: capi di gabinetto e degli uffici legislativi, capi dipartimento, direttori generali. Chi non verrà esplicitamente confermato, automaticamente decadrà. È una delle scelte più importanti delle prossime settimane.
Accadde qualcosa di analogo con il primo esecutivo Berlusconi. I nuovi ministri della Lega che scesero a Roma nel 1994 – Giancarlo Pagliarini, Vito Gnutti, Roberto Radice – erano uomini concreti, abituati a gestire imprese, inesperti di burocrazia romana. Al suo primo giorno di lavoro il neoministro del Bilancio, Pagliarini, dopo aver letto un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile, disse: «Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno ».

Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia. Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello Stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l’interesse a mantenerlo. Hanno anche l’interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare. E così quando arriva un nuovo ministro, animato dalle migliori intenzioni, a ogni sua proposta la burocrazia oppone ostacoli che appaiono incomprensibili, ma che i dirigenti affermano essere insormontabili. Giancarlo Pagliarini perse la sua battaglia con la Ragioneria e in quel 1994 nulla cambiò.

Mario Canzio, l’attuale Ragioniere generale dello Stato, entrò in Ragioneria nel 1972, 41 anni fa, come funzionario dell’Ispettorato generale del Bilancio, l’ufficio che ha il controllo della spesa pubblica. Da quel giorno la spesa pubblica al netto degli interessi è cresciuta (ai prezzi di oggi) di circa 200 miliardi, dal 32 al 45 per cento del Pil. Da quando, otto anni fa, fu nominato Ragioniere generale, è cresciuta di oltre 30 miliardi.
I sindaci durano in carica cinque anni, con la possibilità se rieletti di un solo secondo mandato, il Governatore della Banca d’Italia sei, il presidente della Bce otto. Il Ragioniere generale a vita. Andrea Monorchio rimase tredici anni, con dieci diversi governi.

Sono tutti ottimi funzionari dello Stato, ma se non sono riusciti ad arginare la spesa pubblica per quarant’anni saranno davvero le persone più adatte per gestire una spending review ? Non è venuto il momento di affrontare il ricambio della burocrazia? E di farlo per davvero, ponendo un termine alla perenne rotazione da un ministero all’altro, da un ministero a un’autorità indipendente e da questa ancora a un ministero? Non c’è ricambio se si abbassa l’età media dei ministri mentre la struttura sotto di loro resta immutabile.
Cambiare i vecchi burocrati è certamente costoso perché un nuovo dirigente ci metterà un po’ a prendere in mano le redini del ministero. Ma è un costo che val la pena pagare. L’alternativa è continuare a non fare nulla.


Ma il Cavaliere non farà saltare il governo
di Marcello Sorgi
(da “La Stampa”, 9 maggio 2013)

Attesa e in qualche modo scontata (l’avvocato-deputato Ghedini ci aveva pure scommesso su), la condanna in appello di Silvio Berlusconi nel processo per frode fiscale sui diritti cinematografici Mediaset appesantisce, certo, l’insieme delle pendenze giudiziarie del super-imputato leader del Popolo della Libertà. Ma non altrettanto, e non necessariamente, il quadro politico e il percorso del neonato governo delle larghe intese.

Da una settimana, infatti, il Cavaliere ha inaugurato un nuovo corso della sua condotta processuale.
La chiamata, al fianco dei suoi abituali legali impegnati anche in politica, del professor Franco Coppi, un professionista puro, legale di Andreotti nel «processo del secolo » per le accuse di mafia, dovrebbe preludere (ma con Berlusconi non si sa mai) a un maggior rispetto per i magistrati chiamati a giudicarlo e alla fine della commistione tra ruolo politico e condizione giudiziaria, che aveva portato, solo due mesi fa, il Pdl all’occupazione del Palazzo di Giustizia di Milano.

Berlusconi insomma non farà saltare il governo, come pure erano in molti a temere, in attesa della sentenza, nei corridoi di Montecitorio, e come lui stesso aveva minacciato martedì, dopo il doppio siluramento del suo candidato Francesco Nitto Palma alla presidenza della commissione giustizia del Senato. Ottenuta la quale, seppure con un giorno di ritardo, si metterà invece ad aspettare l’esito della Cassazione. Al proposito circolano una voce maliziosa e un dato di fatto. La prima è che la nomina, decisa con una spaccatura del Csm, al vertice della Suprema Corte, del dottor Giorgio Santacroce, magistrato che in passato era stato sentito, in relazione ai suoi rapporti con l’ex ministro berlusconiano Cesare Previti, dalla principale inquisitrice di Berlusconi Ilda Boccassini, non sarebbe affatto una cattiva notizia per il leader del centrodestra. E il secondo è che la Cassazione, prima di esaminare la sentenza d’appello, dovrà prendere atto di un altro giudizio della Corte costituzionale, che potrebbe concludersi a breve con l’annullamento parziale o totale del lavoro fatto fin qui dai giudici di Milano. Il complicato intreccio di competenze e interventi delle diverse magistrature porterebbe, o a rifare da capo interamente il processo, o almeno in secondo grado. E Berlusconi, in caso di nuova condanna, potrebbe ancora rivolgersi alla Cassazione, aspettando la scadenza dei termini di prescrizione il prossimo anno.

Questo spiega perché, malgrado la sentenza porti con sé anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che se confermata chiuderebbe d’imperio la carriera parlamentare, se non proprio quella politica, del Cavaliere, la reazione dello stato maggiore del centrodestra, salvo qualche acuto della Santanchè, è stata controllata. Niente manifestazioni, nessun tavolo è stato rovesciato. E i legali del Pdl, Ghedini in testa, hanno accolto il verdetto con rassegnazione.

Berlusconi, in altre parole, si sta innamorando del suo nuovo ruolo: è diventato l’azionista di riferimento del governo, non passa giorno che chieda e ottenga quel che vuole, ieri s’è concesso il lusso di cancellare, dichiarandola inutile, perfino la Convenzione per le riforme istituzionali. I ritardi e gli intoppi che inevitabilmente si presentano, di tanto in tanto, sulla strada del governo, li mette in conto al Pd. Un partito impallato nei propri guai, in difficoltà a scegliersi un segretario, dopo le dimissioni di Bersani, e diviso al contempo sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’esecutivo guidato dal proprio vicesegretario. Il Cavaliere assiste gongolando alle contorsioni dei suoi ex avversari, divenuti nuovi alleati. Ai quali, tra l’altro, se non vogliono essere loro a mettere nei guai Letta, adesso toccherà digerire anche la sua ultima condanna. A denti stretti, senza applausi né esultanza, al contrario di tutte le volte precedenti.


“Cav delinquente”. Mediaset, tutti i dubbi e le forzature di una sentenza lampo
di Filippo Facci
(da “Libero”, 9 maggio 2013)

Se anche la legge fosse uguale per tutti, la discrezionalità nel disporre le pena cambia da uomo a uomo. E i giudici sono uomini, pare. Ecco: nel caso della reiterata condanna di Berlusconi, diciamo così, è davvero difficile non scorgere una determinazione e una volontà che prescindono da considerazioni giuridiche: e che paiono umane, molto umane. Verrebbe da dire che un certo rito ambrosiano, ormai, prescinde anche da Berlusconi, come ben sanno tanti avvocati meneghini: Milano da tempo è divenuta la sede meno ambita da chiunque debba affrontare un processo, fosse pure l’ultimo dei poveracci. Nel caso di Berlusconi che poveraccio non è, vediamo che i profili critici si moltiplicano. Anzitutto i tempi: meno di cinque mesi per un appello (la sentenza di primo grado è del 26 ottobre) e quindi un «privilegio » che trasformerebbe la nostra giustizia in una lepre, se fosse applicato a tutti.

L’impostazione notarile dell’Appello – che è sembrato, più che altro, un mero controllo di legittimità del primo grado – si è specchiata in un calendario di udienze da tour de force e, soprattutto, nella decisione di non ammettere nuovi documenti né nuovi testi, compreso l’uomo accusato di essere socio di Berlusconi nella frode, lo statunitense-egiziano Frank Agrama. Non stiamo neanche a citare la mancata volontà di trasferire a Brescia questo e altri processi: non ci credeva nessuno. Già diverso è il discorso che riguarda l’attesa sentenza della Consulta sul conflitto di attribuzione legato alla mancata sospensione di un’udienza, un ricorso avanzato dalla difesa tempo fa: la presidenza di Montecitorio si era rivolta alla Consulta dopo che il tribunale milanese aveva rifiutato il rinvio di un’udienza nonostante Berlusconi fosse ufficialmente impegnato in attività di governo. Era il marzo 2010. E che i giudici non aspettino la decisione della Consulta può anche accadere, ed è accaduto anche in primo grado: ma resta raro. A dirla tutta, è prassi che i giudici si fermino poco prima di una sentenza in attesa di una decisione che appunto riguarda quello specifico processo; se la Consulta decidesse che nel 2010 vennero violate le prerogative del premier, del resto, la sentenza di ieri potrebbe uscirne azzerata. Ma è un’eventualità che a Milano nessuno considera.

L’interdizione
Gli aspetti più significativi, infatti, restano altri. I giudici hanno confermato la condanna a 4 anni per frode fiscale (che scenderebbero a un solo anno grazie all’indulto del 2006) ma soprattutto hanno confermato i 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e i 3 anni di interdizione dagli uffici direttivi: una scelta che se confermata dalla Cassazione – ma è lecito dubitarne: la Cassazione, per ora, non è ancora a Milano – potrebbe allontanare definitivamente il Cavaliere dalla politica. È anche vero che a essa, alla politica, spetterebbe comunque l’ultima parola attraverso la giunta autorizzazioni del Senato: ma ora non fa testo. Lo fa che la fama di «scontifici » delle Corti d’Appello ha trovato l’ennesima smentita milanese: la pena è stata sì confermata, ma in primo grado i pm avevano chiesto una pena addirittura inferiore: 3 anni e 8 mesi. Non si citano neanche i dieci milioni di risarcimento da versare all’erario: quelli erano «in via provvisionale » e Berlusconi ha già dovuto pagarli.

Corsia veloce
La sentenza-fotocopia riguarda anche le sorti del presidente di Mediaset Fedele Confalonieri: assolto con formula piena. E riguarda anche le sorti del citato produttore Frank Agrama, presunto socio occulto di Berlusconi: 3 anni di carcere, come in primo grado. Non l’hanno neppure ascoltato, Agrama: e tutto dichiaratamente per correre, per scongiurare lo spettro della prescrizione.

Velocità batte completezza, al punto che il Procuratore generale ha addirittura rinunciato alla replica. La prescrizione, tuttavia, dovrebbe scattare nel settembre-ottobre 2014 (i calcoli non sono ancora precisi) e quindi c’era e resta tutto il tempo per arrivare in giudicato, eventualità che il citato «privilegio » goduto da Berlusconi non potrà che favorire.

Nell’attesa, resta il calco fedele di una sentenza di primo grado che il presidente del collegio della Prima sezione penale, Edoardo d’Avossa, aveva letto accludendone immediatamente le motivazioni: una procedura d’urgenza decisamente rara e che gli consentì di ravvisare in Berlusconi «una naturale capacità a delinquere mostrata nella persecuzione del disegno criminoso », disse. In italiano: un delinquente.


Sentenza impresentabile
di Alessandro Sallusti
(da “il Giornale”, 9 maggio 2013)

La Corte di Appello di Milano ha confermato la condanna (4 anni di carcere e 5 di interdizione dai pubblici uffici) per Silvio Berlusconi, imputato nel processo sui diritti Mediaset, cioè l’acquisto nei primi anni Duemila di diritti per film americani da proiettare nelle sale e nelle tv italiane. Al gruppo Mediaset, che all’epoca dei fatti era il primo contribuente italiano, viene imputata una presunta evasione fiscale di pochi milioni compiuta da dirigenti infedeli (beccati e licenziati in tronco all’epoca dei fatti). Berlusconi è l’unico capitano d’industria che per i giudici non poteva non sapere che cosa combinavano i suoi manager, privilegio invece concesso quando nei guai sono finite le aziende, per esempio, degli Agnelli, dei De Benedetti e di importanti banchieri.

Continua dunque il doppio binario della giustizia. Quello riservato all’ex premier prevede procedure anomale, esclusione di testimoni chiave, non rispetto dei diritti della difesa, pene sproporzionate e tempistiche regolate per interferire sulla vita politica. È lo stesso film da 18 anni, e ancora non si vede la fine. Perché così come è successo in passato ben 32 volte su 32, difficilmente una sentenza così sgangherata supererà l’esame finale della Corte di Cassazione. Da oggi quindi riprende fiato il coro giustizialista che vorrà portare questa sentenza sul piano politico per fare saltare governo e pacificazione, un tranello dal quale mi auguro Berlusconi e il Pdl stiano alla larga, affidandosi alla saggezza dei giudici superiori. Una scommessa rischiosa, ma che vale la pena affrontare pur urlando forte la propria innocenza e l’affronto subito come è nel diritto di qualsiasi cittadino che si ritiene condannato ingiustamente. Lo fece, a ragione e tra lo scherno dei più, Enzo Tortora. È capitato più di recente al ministro Saverio Romano, massacrato da un’inchiesta infamante dalla quale è uscito alla fine completamente pulito. È successo, parliamo di pochi giorni fa, all’affarista Coppola, arrestato, perseguitato e rovinato da pm impazziti per poi ritrovarsi, a distanza di anni, prosciolto per non aver commesso il fatto.

Non è vero che ciò che viene deciso in aula di giustizia è la verità a prescindere. Alcuni pozzi sono avvelenati da tempo e in queste ore c’è chi continua a inquinare l’aria. Per esempio sostenendo che Nitto Palma non è persona degna a ricoprire la carica di presidente della Commissione Giustizia della Camera. Che cosa avrebbe di indegno? Vediamo. È un ex magistrato, come il neopresidente del Senato Grasso, è un ex magistrato ed ex ministro, come la Finocchiaro, ritenuta invece abile a occupare posizioni ben più prestigiose. E allora? Una differenza c’è: non è di sinistra ed è stato eletto nelle liste di Berlusconi. Così vanno le cose, ancora oggi, in questo Paese.


Barbara Palombelli ricorda Giulio Andreotti
(da “il Foglio”, 9 maggio 2013)

Ci davamo del tu. Ci conoscevamo da più di trent’anni. C’era perfino una lieve parentela, fra noi, scoperta pochi anni fa. Un suo zio Falasca, generale dei granatieri, aveva sposato la zia di mia madre. Le storie romane antiche lo divertivano come il calcio e i cavalli. La biblioteca vaticana era un suo rifugio molto amato, “i diari dei cardinali morti all’improvviso sono una miniera di notizie”, era curioso di tutto e di tutti. L’ho intervistato ovunque, sempre in luoghi strani e diversi.

Nel suo ufficio in piazza Montecitorio, la prima volta, al mattino presto. In sala d’attesa, il sindaco di un paesino e l’ambasciatore degli Stati Uniti, “se non ci fosse quel sindaco, non ci sarebbe l’ambasciatore”. In Cina, quando disse “siamo venuti qui con Craxi e i suoi cari”, alludendo al Jumbo Alitalia carico di amici e famigliari di Bettino. All’ippodromo di Capannelle, mentre scrutava i cavalli di Luciano Gaucci con un binocolo minuscolo.

Su un volo fra Mosca e Vienna, scortati dai Mig sovietici, con una turbolenza folle, il mio registratore in bocca. In televisione, in radio tante volte, mai le stesse parole. Non amava le interviste in ginocchio, venne volentieri a “Samarcanda” – prima edizione, ’87-’88 – e rispose a tutto. Al premio Fiuggi, seduta fra Gorbaciov e Sophia Loren, scrissi per il Corriere di Ugo Stille un pezzo sul tovagliolo.

Con Andrea Barbato – su RaiTre, 1992, nella trasmissione “Italiani” – gli chiesi, mostrando l’articolo di un giornale americano, cosa aveva da dire sui rapporti con la mafia. Non ha mai preteso domande scritte o piaggerie molto in voga da qualche anno. Non aveva addetti stampa, se non per un breve periodo a Palazzo Chigi l’ex Radicale Stefano Andreani.

Bastava la signora Enea, mitica segretaria in grado di dare ogni appuntamento con semplicità assoluta. Tutti i miei direttori mi spedivano da Giulio Andreotti (e dal suo braccio destro Franco Evangelisti) a cercare sempre un titolo, qualcosa che rimbalzasse e facesse discutere. E così era, praticamente sempre.

Il più andreottiano fu Claudio Rinaldi, scomparso troppo presto e molto rimpianto. Quando dirigeva l’Europeo, istituì una sorta di appuntamento con i diari di Franco Evangelisti: mi scapicollavo, anche di domenica, nella casa di via Ezio a trascrivere quello che Giulio non poteva dire e Franco sì.

Claudio, repubblicano convinto e avversario leale della Dc, affidò una rubrica fissa proprio al democristiano più chiacchierato: domò un’assemblea di redazione infuocata spiegando loro che l’Europeo era un settimanale “corsaro” che doveva farsi largo tra Espresso e Panorama a ogni costo e aggiunse che Andreotti vendeva molti libri e scriveva benissimo, “meglio di tanti di voi”.

Il giudizio storico, l’analisi dei suoi diari e delle sue vicende processuali sono consegnati a chi vorrà studiarli. Vederlo ieri, nella piccolissima bara nello studio, faceva impressione. Il viavai continuo in quella casa di famiglia che non è mai stata un salotto e mai ha ospitato la politica pubblica rendeva omaggio ad una classe dirigente che ha certamente maneggiato segreti inconfessabili e intrattenuto rapporti oscuri e misteriosi con organizzazioni interne ed internazionali, ma che ci ha comunque governato in anni complicati e difficili. Sapranno fare di meglio quanti sono oggi al potere? Gli sguardi smarriti dei romani che sostavano in corso Vittorio Emanuele sembravano alla ricerca vana di una risposta.


Travaglio su Andreotti e le larghe intese, qui video.


Letto 1795 volte.


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Bart