Alianello, Carlo6 Novembre 2007 L’alfiere “L’alfiere”Einaudi, 1944, pagg. 638 È l’alfiere dei Cacciatori regi, il barone Giuseppe (Pino) Lancia, il protagonista di questo romanzo che fece conoscere in Italia il suo autore, nato a Roma, ma intriso di meridionalità quanto altri pochi. La rivoluzione liberale, le gesta dei piemontesi e di Garibaldi, e le loro conseguenze nel meridione sono i temi che lo appassionano sin da questo primo lavoro, e torneranno nelle opere successive, come “Soldati del re” del 1952 e soprattutto nel suo capolavoro “L’eredità della Priora”, del 1963. Pino si trova in mezzo alla battaglia. Piombano sui regi i garibaldini; tra loro, con un manto chiaro, sta Garibaldi. Alianello si avvale di una scrittura stretta, con rapide descrizioni, che non riesce a nascondere, tuttavia, in questo inizio, le influenze retoriche del tempo, anche se vigilate. Esse ricompariranno, e in maniera addirittura più evidente, nel romanzo successivo: “Soldati del re” nelle prime due parti, che si devono considerare, perciò, strettamente legate alla scrittura de “L’alfiere”, mentre nella terza ed ultima parte si annuncia nettamente l’acquisizione di una maturità stilistica che si mostrerà compiuta e di grande qualità nel capolavoro del 1963. Il generale Landi, nonostante l’avvicinarsi della vittoria, fa ritirare tra il mugugno e l’incomprensione dei soldati, le truppe regie di fronte ai garibaldini. Siamo a Calatafimi, in Sicilia. Qualcuno mormora al tradimento, per il fatto che il generale Landi è stato un carbonaro. Nella ritirata, nei pressi di Partinico, molti vengono massacrati dai civili, contadini e pastori soprattutto: “I Partinicesi – poca gente – cercavan di sfuggire al corpo a corpo, saltando da un tronco all’altro, lasciandosi cadere da un greppo a un cespuglio e si chiamavan fra di loro con grida e lunghi fischi. Si fermavano ogni tanto a sparare e subito sgusciavan via. Raggiunti, si difendevan a coltello e, se non rimanevan lì al suolo, pur di non darsi prigionieri, si gettavan giù dal pendio a corpo moto.” Notiamo il copioso uso dell’infinito tronco che caratterizza questa scrittura e la caratterizzerà anche in “Soldati del re”. È una prosa, tuttavia che, nel mentre manifesta la sua temporalità , riesce ancora oggi a farsi seguire con interesse, grazie all’abilità del raccontare e all’ampia scenografia che la scrittura rievoca nel lettore. I siciliani parteggiano per Garibaldi (“Galubarde? Uomo grande è.”), che sta ormai per occupare tutta la Sicilia. Pino se ne rende conto quando si reca al porto di Palermo per salutare Renata Rodriguez, la “sua innamorata”, che il padre conduce a Napoli, giacché ormai Garibaldi è alle porte e i borbonici abbandonano in fretta e furia Palermo: “Perché quell’astio, improvvisamente esploso contro la sua uniforme, contro la sua terra? Che ci ha questa gente contro i Napoletani? Tanto odio c’era nascosto sotto terra e in un momento è scoppiato…” Renata, “capricciosa e bella”, anche lei gli procura un po’ di tristezza in quanto lo fa illanguidire nel suo amore senza incoraggiarlo. È una sognatrice che va alla ricerca d’un eroe “che avesse un ideale grande, fiammeggiante e, con quello, senza speranza di vittoria, osasse traversar solo e altiero la turba della gente comune… Un ribelle, un conquistatore, mesto e terribile. E alla sua lotta trascinasse anche me, riluttante… e che avesse l’inferno nel cuore”. Non solo Pino, ma molti degli ufficiali coi quali si trova a contatto, sono convinti che l’avanzata di Garibaldi sia dovuta alla “gran paura che hanno di vincere” i generali, prima Landi, poi von Moechel, ora Lanza! È una tesi che l’autore svolge con particolare accanimento: “Han paura d’impegnare i battaglioni, per covarseli sotto, e così, un dopo l’altro, a spizzichi, li fanno massacrare senza concluder niente, perché ogni volta la gente non basta.” E ancora: “In quei giorni l’esercito del Re, ancora intatto e bene armato, capitolava ignobilmente disponendosi a uscir da Palermo con armi e bagaglio.” Come con particolare cura descrive nei dettagli le scaramucce, gli scontri, le battaglie tra le due parti, indugiando anche nella descrizione di morti e feriti a sottolineare l’efferatezza e la cecità della guerra (“zuppa fratricida e sporca”): “Il proiettile sfiorò l’alfiere, batté contro il soffitto obliquo e rimbalzò a fracassare il mento d’un cacciatore, un gradino più in basso. Questi cadde giù con un ululo, subito spento da un fiotto di sangue che gli riempàla bocca. Allora i soldati balzarono su, premendosi l’un l’altro protendendo avanti le baionette fra spalla e spalla, fra anca e anca.” E ancora: “un proiettile batté furiosamente contro il cornicione, staccò una scheggia di sasso e rimbalzò nel vuoto.”; “Fra tutti quei calzoni azzurri dei cacciatori i pantaloni rossi del Marra e del Chinnici facevan un bellissimo vedere.” Ma di esempi se ne potrebbero fare molti. Nonostante la guerra, Pino è uno che “non poteva risolversi a odiare.” Ed è un po’ Gerardo e un po’ Andrea de “L’eredità della Priora” per quella fedeltà scossa e inquieta al re di Napoli: “al cospetto di tanti grandi eventi, il dovere, la fedeltà , il vivere come si deve o il morire, gli pareva cosa orrenda che qualcuno potesse dubitare ancora, transigere e calcolare.[…] E ora dubitava anche di quella forza, di quel potere dello stato e dell’esercito che, gettato contro il nemico, qualsiasi nemico, in qualunque terra del regno, avrebbe imposto con la giusta violenza, l’ordine, il rispetto al Trono, alla persona del Re, ch’era l’eletto di Dio e ai diritti della S. Religione.” Gli dirà il sergente Lo Russo, “antico camorrista”: “Ci hanno venduto come pecore al beccaio.” Palermo è tutta illuminata dalle luci che Garibaldi, ormai signore della città , ha ordinato di accendere alle finestre e, tuttavia, è anche squassata dai colpi di cannone sparati dai borbonici e “le fiamme ora s’alzavano più gialle e sanguigne dai cento incendi che il fuoco delle navi e del forte avevano disseminato per tutta Palermo.” La Sicilia di Alianello, non solo Palermo (“Palermo la bella si disponeva a morire avvolta in un barbaglio d’oro”), esce da questo romanzo tutta rigata di sangue, come percossa da un’unica grande battaglia. La coralità dell’affresco è davvero grandioso e riesce a dare, attraverso le minute descrizioni degli avvenimenti locali, la visione di una più vasta guerra fratricida seminatrice di ferite e di lutti che colpiscono non solo il corpo ma anche la coscienza. Più che nei successivi romanzi, la religione qui gioca un ruolo importante, chiamando spesso, l’autore, Dio sopra gli avvenimenti, dando voce a preti e frati che, anche se schierati in opposte fazioni, non mancano di esprimere su ciò che sta accadendo la loro opinione. Fra Carmelo è uno di questi, il quale, lasciato il suo convento, si mette in cammino per unirsi ai garibaldini. È tra i protagonisti di uno dei capitoli, l’ottavo, tra i più belli del libro, dove la scrittura non ha incertezze e la meridionalità si manifesta con un gusto assai denso e vivace, allorché padre Carmelo è chiamato da Speranza ad assistere il padre, “compare Nunzio Barabba, il più mafioso fra i bravi!”, massacrato dai liberali perché considerato “surciu”, sorcio, ossia spia dei borbonici. Nel cimitero, dove si sono ritirati, padre Carmelo, mentre dorme, ha in sogno una visione di morti che stanno attendendo vicino al fiumiciattolo Oreto altri morti che sono in cammino per giungere lì, uccisi dalla guerra. Si tratta di una descrizione con tinte assai delicate, di un lindore e di una trasparenza simili a quella diafana dei morti. È da questo momento che l’autore darà al suo stile una vivacità ed una asciuttezza nuove (bella la descrizione de “‘o munaciello”, il folletto napoletano; o la passeggiata di Pino con gli amici e le amiche, e il giro delle serenate alle ragazze, quando si trova a Tito, in Basilicata), anticipatrici sicuramente di ciò che sarà la sua scrittura ne “L’eredità della Priora”. È già in questo romanzo, infatti, più che nel successivo “Soldati del re”, che si devono rintracciare le premesse al suo capolavoro. Se Pino ricorda un po’ Gerardo e un po’ Andrea, infatti, la disinvolta Speranza non ci fa pensare all’irrequieta Juzzella? Convalescente per la ferita ricevuta a Palermo, Pino torna a Napoli da suo padre, un influente personaggio della città . Vede Renata, ma la ragazza ancora si fa pregare e gli confida apertamente che lo preferirebbe schierato dalla parte di Garibaldi, piuttosto che vedergli indossare la divisa dei soldati di Francesco II. La dichiarazione della ragazza lo lascia esterrefatto (il padre di lei è un “colonnello di marina”) e indignato. Alianello mette ora a fuoco i due personaggi coi quali intende procedere nella tessitura del romanzo: Pino e padre Carmelo. Mentre il primo, finita la convalescenza si accinge a far ritorno in Sicilia, il frate, al contrario, se ne allontana. I due viaggi dà nno, così, l’occasione di esaminare in un ampio spettro la guerra (Napoli, Sicilia, Calabria, Basilicata) partendo da punti di osservazione ben distinti, l’uno vicino ai liberali ma intriso di una religiosità popolaresca ed effervescente, se pure inquieta; l’altro, di una solida fede borbonica tentata e minacciata da un amore, quello di Renata, dispettoso e superbo. Renata non è la sola figura femminile di un certo peso nel romanzo. In Basilicata, a Tito, compare un’altra ragazza, Titina Lecaldani, che mostra una certa simpatia nei confronti di Pino il quale, nel corso della sua convalescenza, scopre che i suoi amici, tra cui il fratello di Titina, Tiro Ulisse (MimÃÂ), simpatizzano tutti per Garibaldi che, dopo Calatafimi e Palermo, sgominati i borbonici anche a Milazzo, ormai dilaga nell’isola. È una parentesi, ad ogni modo, questa sua permanenza a Tito, che fa scoprire usanze di vita contadina che tuttora sopravvivono nel Sud, come la processione dell’Assunta, il 15 agosto, e la vendemmia. Titina sta al centro di esse, con la sua partecipazione solerte e il suo alacre dinamismo, la sua vitalità . Mimàconfiderà a Pino che, se la sua famiglia è ancora molto ricca, lo si deve alle cure di Titina, saggia amministratrice del patrimonio dei Lecaldani. È da questa vivida descrizione, mentre balla la tarantella durante la festa della vendemmia, alla luce di “una falciola rosea di luna” e con la musica della zampogna e del piffero, che ella si afferma nel romanzo: “Titina era estasiata. Seguiva il tempo col muover del capo, con l’ondeggiar involontario del corpo, che fremeva ritmico a quel suono, e strisciava leggermente i piedi, accennando al ballo. Infine non resse più: gettò in aria balzando le babbucce di panno rosso ed entrò nel circolo. Per un istante si aggirò fra le coppie con un braccio levato in aria e l’altro al fianco, ma subito un bel fusto di agricoltore giovinetto lasciò lì la sua dama e le si fece incontro danzando. L’invitava timidamente col tenderle la mano, e lei la prese e gli girò attorno attorno leggera e agile, mentre quello poneva un ginocchio a terra per far la figura.” Non troveremo mai più nella produzione di Alianello un ritratto popolare così suadente e colorito. Non a caso è proprio nel vederla in questa immagine che Pino se ne innamora. L’antipatia, la diffidenza che s’erano addensati intorno a Pino per la sua fede borbonica, esplodono proprio a quella festa, proprio nel momento della sua massima felicità , in cui scopre l’amore. I fermenti rivoluzionari si sono accesi anche in Lucania. Dalla Sicilia, Garibaldi sta muovendo verso la penisola, e così a Tito fan presto ad insorgere e a dichiarare la loro fedeltà ai piemontesi. Prima che la notte della festa trascorra, lo zio don Celestino, così apparentemente “il più mite, il più imbelle” nella sua veste di arciprete appassionato di poesia, e invece un capo dei ribelli, MimÃÂ, Filippo, Mario, suoi amici sin dall’infanzia, gli si fanno intorno e lo prendono prigioniero. Lo terranno rinchiuso per qualche tempo, finché la rivoluzione non sarà finita, nel caso che ci sia bisogno di lui per uno scambio di prigionieri. Con l’aiuto della sfortunata Titina, riesce a fuggire, invece, e torna a Napoli, a casa sua, dove l’anziana governante, “siè Rosa”, un po’ indovina e un po’ maga, leggendogli la mano, gli dice che Renata conserva una parola magica che lo riguarda: “Lei non lo sa di conoscerla forse, ma ve la dirà . Voi fatela parlare e tenete mente a tutto quello che vi dice: tutto, parola per parola. E poi venite da me che vi spiego io…” Non dimentica, Alianello, che siamo a Napoli, e cosa c’è di più napoletano di una fattucchiera che leva il malocchio o evoca l’innamorata che Pino non riesce a rintracciare? Oppure l’incontro con una maliziosa ragazza che chiede l’elemosina per le anime del Purgatorio e somiglia stranamente a ‘o munaciello che l’alfiere aveva sognato qualche tempo prima? Di Renata, che non incontrerà mai più, verrà a conoscere più tardi, per bocca del cugino Totò, le sventure del padre fattosi disertore: “tutta la marina ha tradito fin dal primo giorno. Fino dallo sbarco di Marsala.” La convalescenza di Pino, dunque, che è giunta quasi al termine, dà all’autore l’occasione di aprire uno squarcio dentro la guerra per intriderla di quell’anima antica che aleggia invisibile in mezzo al dolore e al sangue e, al contrario degli uomini, non muore mai. La seduta spiritica a cui lo sottopone la governante e nel corso della quale fa la conoscenza con una bella ragazza, Ginevra, nipote della fattucchiera, racchiude tutto il sapore di una napoletanità che si trascina dietro da secoli l’intreccio, forse unico al mondo, di malizia, capriccio, gioco, superstizione, credulità . La stessa figura di Garibaldi ne è contagiata: “se voi gli sparate addosso, non lo pigliate, se lo afferrate, le braccia vostre si fanno molli e lui scappa e, se avete in mano bianco e quello dice nero, nero diventa.” Son come lampi, bagliori, luccichii, rapide presenze fuggitive le ragazze che incontra Pino, da Renata a Titina a Ginevra, quasi che la guerra imprimesse sugli animi un senso di aleatorietà della vita, e perfino l’amore, sentimento nato con l’uomo e forse il più antico, non riuscisse più a ritrovarsi. Come, del resto, la fedeltà al proprio ideale. Napoli, infatti, si sta trasformando da capitale borbonica a città del tricolore: “Le vetrine dei negozi eran piene di gale e nastri tricolori, bianchi, rossi e verdi e tutti portavano in mostra il ritratto di Vittorio Emanuele, Re d’Italia e di Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie, artisticamente adagiati sulle pieghe dei bandieroni “tricolorati” ch’eran di sfondo. I fornitori della Real Casa, gli ultimi, che i più ci avevano pensato prima, calavano giù dalle mostre in fretta e in furia gli stemmi coi gigli borbonici. E Re Francesco II era ancora a Napoli e le sue truppe occupavano tuttavia i forti e le caserme.” Il libro è permeato da questa aria di tradimento e di volatilità . Pino ne viene scosso sempre di più, finché anche a lui il tradimento degli altri non provoca più l’indignazione di prima, che si è trasformata in delusione, in pena. Quando suo cugino Totò, di ritorno entrambi dal commiato a Francesco II e alla bella regina che abbandonano Napoli per non scatenare la guerra nella città , gli annuncia che si dimetterà dall’esercito, Pino ha la sensazione ormai di essere rimasto l’unico a mantenere la sua fedeltà e che gli eventi lo stanno per travolgere. Da una convalescenza che gli ha regalato momenti di piacevolezza e di distacco dalla guerra, nascondendogliela come dietro un sipario, ecco che si spalanca improvvisamente davanti a lui il dramma della dissoluzione di un regno e di una fede, che potrebbero diventare anche la sconfitta e la dissoluzione della sua coscienza. In Pino, più che in Andrea e Gerardo de “L’eredità della Priora”, il mutamento che colpisce la sua terra viene vissuto in modo vibrante, profondo, inquieto. Gli domanderà Ginevra: “Ma è vero che voi dei cacciatori vi passano tutti nei bersaglieri? […] Così avrai il pennacchio in testa e sarai bello lo stesso.” Intorno al re, che si è ritirato a Capua, sono davvero rimasti in pochi. Tra i suoi amici: “Il capitano La Cava aveva disertato a Palermo, Ruotolo, Sarracino, Aurilio e vari altri erano dimissionari, nell’attesa di passar all’esercito piemontese.” Solo il cugino Totò era ritornato sui suoi passi, restando fedele al re. Pino sa che “bisognava rifarla l’anima sua, che gli si accartocciava tuttavia torbida, incapace di slanci e come freddolosa.” Alianello lo chiama a questo grande sforzo di volontà , ancora più eroico nel momento in cui vicino a lui tutto sta naufragando e mantenere la fedeltà al re vuol dire quasi certamente correre verso la morte. Una parte importante della storia d’Italia, nei minuti dettagli, scorre nel romanzo: le battaglie di Calatafimi, Palermo, Milazzo, del Volturno presso Capua non sono fredde come sui libri di storia, ma palpitano delle vite dei combattenti, spesso pastori, montanari, contadini, artigiani, che da una parte e dall’altra avanzano sui teatri della guerra in cerca di una vittoria che sarebbe in ogni caso più a profitto di altri che di loro stessi: “Fra le due parti contendenti ne sprizzavan spesso di queste fiammate torbide, di questi tumulti contadineschi, che al grido di viva il Re o di viva Garibaldi, miravano ad un altro ordine, a un’altra forma sociale che né l’uno né l’altro dei due antagonisti gli poteva dare: pane e giustizia, ch’era il bisogno vero e sentito del popolo.” Sul Volturno, Pino, mentre avanza contro i garibaldini, accorgendosi del timore dei suoi uomini, si rivolge loro con parole ferme e terribili: “se c’è qualcuno che non si fida di me, rimanga pur qui, che non lo voglio. Però chi m’accompagna ha da venir con me sino all’ultimo. E se c’è un vigliacco nel mio plotone che tentenna o fugge e a me i garibaldini non m’ammazzano, io lo ritroverò dovunque si nasconda, magari a casa del diavolo, con questo qui che ci son cinque palle per lui, – e mostrò il revolver, ultimo prodigio in fatto di armi, che aveva ricevuto in dono da Lo Russo. – Però se voi vedeste che sto per cadere prigioniero in mano al nemico e da solo non mi posso salvare, correte a me o sparatemi addosso. Vivo non voglio che mi prendano.” Lo Russo, il suo ex sergente che è passato ai piemontesi e fa il commissario di polizia, è un camorrista che gli è rimasto affezionato e lo ha aiutato a ritrovare il suo reggimento. Alianello annota che i piemontesi, per mantenere l’ordine nelle città conquistate, assoldano uomini della camorra, ai quali affidano incarichi anche importanti, sicuri che riusciranno a tenere a bada l’ordine pubblico, come infatti accade. La battaglia del Volturno, soprattutto, è così avvincentemente narrata che mi ha ricordato quella di Waterloo descritta da Victor Hugo ne “I miserabili”. La scrittura di Alianello è indubbiamente maturata nel corso della storia e la sua capacità di rendere gli avvenimenti vividi e fecondi di suggestioni ha ora una sua naturale spontaneità e spigliatezza. Le immagini che scorrono davanti a noi di Pino (che, non dobbiamo dimenticare, ha venti anni) e dei suoi uomini che di notte si appostano di guardia sulle rive del Volturno hanno la qualità di prosa d’arte: “Pino scelse il posto della guardia a tasto, come fanno i ciechi, ché la notte per quanto stellata non gli faceva scorgere gran che del terreno oltre il cerchio di luce della lanterna, si tirò lungo la riva i piccoli posti, stabilì le sentinelle e i turni di guardia, designò i caporali di posa, fece spegner le lanterne e infine si sedette sulla sponda, fra l’erba e i cespi di canne e di lì guardò l’acqua nera e poi il cielo. Non c’era luna, ma di stelle ce n’erano a mucchi come chicchi di grano in fondo al vaglio. Ed era un tremolio, un fremito minuto, continuo, leggero, che pareva che il cielo si gonfiasse a ondate larghe e lente.” E così pure quando, subito dopo, sale sulla barca, che procede piano piano, e si mette a cantare “Fenesta ca’ lucive e mo’ non luce”, ricordando Titina: “Forse Pino piangeva, ma la sua voce non lo seppe e non si illanguidì, ché si levava limpida e forte per quelle sponde ove il giorno c’era stata battaglia. Qualche ferito forse sperduto fra l’erba fradicia, lo udì, e sull’altra riva c’erano i garibaldini a sentirlo. Intanto la barca appariva nera adesso alla prima luce e camminava lenta, ma nessuno sparò. E ai pionieri che remavano parve un bellissimo scherzo che il signor tenente si levasse il gusto di cantare in faccia al nemico.” Da ragazzo, quando trascorrevo le mie vacanze nel Sud, ricordo di essere stato proprio a vedere il Volturno presso Capua. Qui si svolse la battaglia tra borbonici e garibaldini, mi disse un mio cugino, ed io guardai con trepidazione quelle due rive ricche di vegetazione e la mia fantasia cercò di immaginare lo scontro tra spari di fucileria e grida di guerra, di feriti e di morti. Alianello mi ha dato con questo libro l’opportunità di vivere quegli istanti un momento prima che – ancora palpitanti dei tremori che suscitano l’incertezza e l’oscurità del proprio destino – si trasformino e si acquietino nell'”orrido gelo della morte” e nella fredda, irrevocabile luce della storia. I due viaggi distinti di padre Carmelo e di Pino si congiungono, infine, quando si incontrano nel paesino di montagna “chiamato Castellonorato”, nella casa del prete, don Giacinto, che offre ospitalità al frate (nominato nel frattempo cappellano dell’esercito borbonico, proprio lui che era partito per raggiungere Garibaldi, ma non aveva potuto rifiutare l’offerta di assistere i malridotti soldati del re) nonché alla piccola truppa comandata da Pino, che decimata nella battaglia alle foci del Garigliano, si stava ritirando per ricongiungersi al proprio battaglione. La conversazione che si apre tra i due mette a fuoco gli orrori della guerra, dei quali Pino non sa darsi ragione, mentre padre Carmelo cerca di lenire quella disperazione con la forza e la persuasione della fede. Le differenti strade percorse dai due protagonisti risultano diverse, perciò, anche per il modo di interpretare gli avvenimenti. Dirà il frate: “E muoiono i vecchi giusti e i bimbi innocenti di guerra… e questi pagan la follÃÂa di tutti, che se no, lo sdegno di Dio a fuoco lo metterebbe questo mondo pazzo e malvagio. E così si fa la Giustizia e noi non sappiamo vederla…” Tra Pino e padre Carmelo nasce una simpatia che non deriva solo dai loro caratteri, il primo essendo napoletano e il secondo siciliano, ma da una qual comunione di fede religiosa che non ha mai abbandonato Pino, pur in mezzo ai tormenti e alle avversità della guerra. Un tale sentimento è molto accentuato in questo romanzo più che nei successivi, e non è un caso che tutti i preti e i frati che incontriamo abbiano un ruolo sempre significativo, da frate Fazio a fra Pantaleo, a don Giuseppe Buttà , a frate Carmelo, all’arciprete don Celestino, a don Giacinto. Quando Alianello si avvia a concludere e nella fortezza di Gaeta, assediata, fa ritrovare insieme Pino, suo cugino Totò, il capitano Enrico Franco, vi include anche padre Carmelo. Riflettono sulla guerra e sulla bellezza di tener fede ai propri ideali. Dirà Franco, a proposito dei liberali: “Non mi piace la loro libertà , ché quando te la vengono a imporre con le baionette, non è più essa.” Padre Carmelo è lì, come Padre Cristoforo nel Lazzaretto, nel momento in cui tutto sta crollando intorno a loro, per infondere coraggio e fede nelle loro coscienze disperate e dare un significato più alto alla sconfitta. “Soldati del re”Edizioni Osanna Venosa, pagg. 152. Euro 7,75 Questo romanzo è del 1952, viene dieci anni dopo “L’Alfiere” (1942) e undici anni prima del suo capolavoro: “L’eredità della Priora” (1963). Sono gli anni della rivoluzione liberale a Napoli. È il 14 maggio 1848. Mentre Violante, “un’attricetta comica”, è affacciata al balcone, e ha a fianco Peppino, il suo corteggiatore (“Il figlio del notaro Falcone, il più ricco di Avellino e che ora sta a Napoli per terminare gli studi di avvocato!”), nel quartiere di Toledo si vedono rosseggiare dei fuochi. Sono le barricate che i liberali – di cui Peppino è simpatizzante, come pure Orazio, il padre di Violante, un attore pure lui, impegnato a scrivere una tragedia in versi – stanno alzando in vari punti della città , ribellandosi al re Ferdinando. Alianello ha caro questo tema e torna ad affrontarlo, come vi tornerà , con esito felicissimo, nel suo capolavoro. Non vi è ancora lo stile sicuro e pulito, asciutto, che troveremo ne “L’eredità della Priora” e qualche compiacimento romantico indugia sulla scrittura (tra cui, l’uso diffuso dell’infinito tronco), dalla quale, tuttavia, traspare una napoletanità assai viva, legata alla tradizione delle rappresentazioni popolari. Nei dialoghi soprattutto si può intravedere una tale rilevante ascendenza. Abbiamo un alfiere dei lancieri, l’ufficiale del re don Ugo Catalano, che viene comandato di portare un messaggio “importante” alla Fortezza di S. Elmo. È l’alfiere che già abbiamo incontrato nel primo romanzo dal titolo omonimo. Ma l’impresa non è facile, giacché Napoli è strapiena di barricate e di rivoltosi che innalzano la “bandiera verde, bianca e rossa”. Due suoi compagni sono uccisi e lui stesso rischia la vita e si salva per miracolo. Impazzito e furioso “come un bufalo ferito”, il cavallo lo conduce al gran galoppo oltre le barricate, lui “steso e abbrancato al collo della bestia”, finché questa stramazza a terra, sbalzando il cavaliere, che finisce stordito sotto la finestra di Violante, richiamata “a spiar dalle imposte” dal “galoppo faticoso del cavallo”. La ragazza lo soccorre, facendolo entrare in casa e gli presta le prime cure, aiutata dal padre, che tuttavia lo considera un nemico e vorrebbe anche ucciderlo, sennonché quando il giovane riprende conoscenza e loda la sua bravura di attore: “Don Orazio, quello famosissimo? Il Pulcinella preferito dal re?”, la musica cambia. Nel leggere il romanzo, pare di assistere ad una rappresentazione teatrale imbevuta del macchiettismo napoletano, nel quale Alianello è tutto immerso, lontano dallo spirito severo e tagliente del suo capolavoro. Tanto “L’alfiere” quanto “Soldati del re” si rivelano, perciò, assai preparatori e propedeutici al romanzo maggiore, lungo un percorso che libererà la scrittura da quel sentore di manierismo decadente che data e fissa le due opere agli impacci romantici del primo Novecento. Un momento prima dell’episodio dell’alfiere se ne svolge un altro, nel momento che precede lo scoppio della rivoluzione. Uno studente lucano, Angelo Capece, ha in mano il suo schioppo, “un tromboncino”, e si avvia alle barricate, quando, ancora notte, nel buio una donna lo urta e gli cade tra le braccia. Si tratta di Olimpia, una famosa e bella ballerina, che gli chiede di essere condotta anche lei a combattere per la libertà , “quasi una Armida guerriera”. La spinge al gesto una delusione d’amore, però, giacché è stata abbandonata da un capitano svizzero che ora lei vuol vedere ucciso: “‘o vulisse vedé acciso…” Come prima eravamo spettatori di quanto accadeva tra i realisti, ora siamo dentro le barricate. Tutto si sta svolgendo tra le ultime ore del 14 maggio e la giornata del 15 maggio 1848. Napoli è scossa da boati di cannone, scoppi di fucili, grida: “rombava, strepitava, schioccava”. I soldati contro cui devono combattere sono mercenari svizzeri, “le truppe svizzere di Sua Maestà Borbonica”, che parlano e dà nno ordini in tedesco. Olimpia fa da trait d’union tra queste due situazioni, con il suo amore disperato per un capitano svizzero che, nel marasma della battaglia, fa uccidere da Federico, un giovane liberale. Questo intreccio tra le parti in cui è diviso il romanzo appare la scelta più interessante. Anche l’ultima parte, infatti, ha un collegamento con le altre due, ed è una scrittura, quella qui contenuta, già avviata a perfezionarsi e a definirsi verso una compiuta maturità . Non vi è confronto con la parte prima e seconda circa la padronanza dello stile, che riesce qui a disegnare un quadro, un apologo, di gusto e proprietà raffinati allorché Rocco Sminuzzo si trova all’altro mondo sottoposto ad un processo per aver ucciso un uomo. Il fuciliere Rocco Sminuzzo ha ricevuto, infatti, la consegna di far la guardia alla caserma di S. Potito, sempre a Napoli, nella “terribile rivoluzione” del 15 maggio 1848. Siamo di nuovo tra i soldati del re, dunque. Mentre sta compiendo il suo dovere viene canzonato da tre “galantuomini e non plebei”, che cercano di forzare la sua consegna, talché il povero fuciliere è costretto a far fuoco e così uccide uno dei tre. Costui altri non è che Peppino Falcone, lo spasimante di Violante. Il cerchio si chiude, dunque, e Alianello ci ha portato, partendo dalla finestra dove stava affacciata la bella Violante, in giro per le strade di Napoli in un giorno, il 15 maggio 1848, in cui le barricate dei liberali e le cannonate dei realisti squassavano la città in un succedersi di avvenimenti tanto concatenati e grotteschi da rappresentarci con mestizia e trepidazione una umanità confusa e disperata. Il giudizio finale che assolverà il povero fuciliere e l’ultima possibilità che viene offerta a Peppino sono un tentativo di seminare un po’ d’amore e di carità laddove l’odio deturpa e inaridisce la coscienza. “L’eredità della Priora”Feltrinelli, 1963, pagg. 598 Siamo nella seconda metà dell’800. Gerardo Satriano ha le mani inguantate; siede al bar, si preoccupa di non aver in tasca abbastanza soldi per pagare il conto, quando lo avvicina un vecchio amico, Massimiliano (Max) Schaub, “non più un giovanotto” e “uno che sa il fatto suo.” Ce li hai i soldi per pagarmi il conto? Non devi preoccuparti di nulla, gli assicura Max, piuttosto ti piacciono le polacche? Le femmine polacche? Comincia così questo romanzo del 1963 di uno scrittore quasi dimenticato (Roma 1901-1981), che ha dedicato molta attenzione alle problematiche del sud Italia, sia con questo libro che, ad esempio, con “L’alfiere” (1943) e “Soldati del re” (1952). L’ambientazione è a Napoli e poi, per la parte più consistente, in Basilicata, nella provincia di Potenza, e Alianello farà uso abbondante, non soltanto nei dialoghi, del dialetto napoletano e potentino che, come si vedrà , daranno un saporito profumo ed un vivace colore al suo stile. Da poco il “Reame” delle Due Sicilie è passato sotto Casa Savoia, ma non tutti hanno accettato l’esito del plebiscito. Max tra questi. La polacca di cui ha parlato con Gerardo è Katia, “‘A iatta”, la gatta, una cospiratrice, insieme con altri, che vuole ripristinare il vecchio ordine. Nella sua casa si riuniscono alcuni congiurati, tra i quali il duca di Pepoli, don Carlo Tucco. Trascinatovi per caso, Gerardo a poco a poco viene coinvolto. Gli dirà Max: “Guagliò, qui stiamo giocando con la corda al collo. Non so se ancora te ne sei reso conto.” Dialetto e linguaggio popolare, dunque (“lo raccolse quella donna alta che le avevano ammazzato il marito.”; “Se dovesse arrivare qualcuno, i cani lo sentono da lontano e guaiolano”; “la Priora continuava a guardarlo un po’ appenata, come se volesse vedergli quello che ci ha dentro.”), contraddistinguono lo stile di Alianello, che li fonde in un modulo espressivo di grande efficacia e originalità , in cui si racchiude tanta parte della bellezza del romanzo. Originalità che resta nonostante che Gadda avesse già impresso una svolta decisiva alla libertà dello scrittore con i suoi romanzi maggiori. “La cognizione del dolore” esce, infatti, nello stesso anno de “L’eredità della Priora”, ma era già stato pubblicato in parte su “Letteratura” dal 1938 al 1941, e “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” lo aveva preceduto nel 1957 (ma già apparso, sempre su “Letteratura”, nel 1946-47). I piemontesi lo cercano, Gerardo è rimasto “un borbonico sporco!” Una spiata, e manca poco che non cade nella trappola. Ci pensa il cavaliere don Michele Cataldo, che abita lo stesso pianerottolo, ad aspettarlo nascosto in strada e a dargli l’avviso. I suoi famigliari stanno bene, anche sua madre, ma lui non può tornare a casa. I piemontesi sono lì per arrestarlo. Con Katia va da Madame, la tenutaria di un bordello di lusso, anch’essa tra i simpatizzanti del vecchio regime (“madame è dei nostri: tutta per il Trono e l’Altare”), che ce l’ha con Garibaldi e i piemontesi, che si son portati al Nord tutte le ricchezze e il denaro: “Voi sapete che l’oro che noi tenevamo prima della guerra nei due Banchi, di Napoli e di Sicilia, era il doppio e più di quanto ne possedevano tutti gli altri stati d’Italia messi insieme”. Tocca a lei e alle sue allegre ragazze di farlo ritornare, quel denaro: “Qua noi sole salviamo la situazione… Se non ci fossero le cosce delle donne, povera Napoli!” L’atmosfera che si respira è quella delle cospirazioni segrete, ma anche la mollezza di Napoli si adagia sul lettore nelle lente situazioni che si sviluppano e nei personaggi: “Nella luce, un tavolo, tre sedie e un uomo. Questi era lungo e segaligno, tutto calvo e glabro in viso, fuorché due grosse basette arricciate che gli coprivano le mascelle; dalla fronte spoglia al mento incavato, su tutta la faccia legnosa, ostentava l’espressione annoiata e sprezzante dell’uomo di mondo.” L’uomo, che ha un monocolo all’occhio e sfoggia un abbigliamento eccentrico, è don Alfredo de Curtis, “un mammamia che veste all’inglese. Ora mammamia vuol dire un grosso camorrista.” E don Giustino Catello, “una montagna di carne”, che ha “un ditone come una salciccia” e “se la dormiva ronfando leggero leggero”, che si trova anche lui nel bordello di Madame, lo hanno illuso che, ripristinato il vecchio Reame, sarà nominato nientemeno che “ministro e segretario di stato alle finanze…”, in realtà è un “pachioco, così si chiama a Napoli il balordo che i furbi sfruttano, il quale, per l’ambizione di diventare ministro, ora si lasciava piacevolmente mungere.” Aianello ha già messo in risalto, non solo qui, ma pure in occasioni precedenti (si veda lo stesso Max) il collegamento tra i cospiratori e gli uomini di malaffare, e soprattutto i briganti, che hanno, anch’essi, tutto l’interesse a ripristinare il vecchio mondo, dal quale avevano ricevuto benefici e dove avevano intessuto relazioni consolidate e fruttuose. I piemontesi, secondo loro, stanno impoverendo Napoli: “manco e bastimenti possono sbarcare la merce a Napoli, perché qui ci hanno messo tasse altissime e a Genova no… Nuie pavammo; curnute e mazziate.” È sempre don Alfredo che parla, e conclude: “mille volte meglio brigante!” Dirà più avanti il canonico don Vincenzo Stella: “Banditi sì, camorristi no…” Il brigantaggio, si sa, ha proprio le sue radici, nel Sud, generate e alimentate da questo malcontento, connesso all’arrivo dei piemontesi, considerati “invasori”. Gerardo li sente come tali e la parola brigante lo scuote e lo attrae. Ma prima ancora che la storia prenda l’abbrivo, noi già possiamo misurare di questo autore un talento espressivo che non è facile saper rendere a questo livello. Un esempio piccolo piccolo: “La monaca si tirò appresso l’uscio e volò via, biascicando di sotto il velo, ma il mento irto di verruche e di peli bianchi si vedeva: “Nu mumendo.” Quel “si vedeva” a fine proposizione è come la firma del pittore in calce ad un suo quadro. Oppure: “un po’ di sonno, molto sonno.” Leggete questa frase che riassume molte delle qualità particolari della scrittura di Alianello: “La stanza era accogliente: un gran fuoco rombava nella focagna e una luce incerta, riflesso candido di neve, appena appena risicava, forzando l’impannata, di fare lì dentro chiaro.” Gerardo è inviato in missione a Potenza, rifornito di denari, con il grado di capitano dell’esercito borbonico, però lavorerà in incognito con un documento che lo qualifica come “ingegnere delle acque e delle foreste”. Ma a Potenza l’autore ci fa incontrare un nuovo personaggio, la cui vicenda si intersecherà con quella di Gerardo, un giovane di trent’anni circa, il barone Alberto Guarna, che arriva nella città anche lui per servire Francesco II. È attraverso la sua visita al convento carmelitano che noi conosciamo per la prima volta la Madre Priora: “Dietro un tavolino e su un seggiolone a braccioli, più rigida dell’alto schienale al quale non s’appoggiava, stava una vecchia suora a guardarlo fisso, con occhio benevolo. Il velo le ombreggiava il viso, ma non glielo copriva, cosicché le fattezze ci apparivano tutte e le rughe anche. Un viso, più che vecchio, antico, ma bello ancora per il caldo pallore, la finezza dei lineamenti, e un certo che di dignità riservata e signorile, d’una pace duramente conquistata forse, ma pace, d’una vita mai incisa da passioni, né sconvolta da errori.” Che è descrizione delicata e bellissima. Il suo nome è suor Agnese di Gesù, è un po’ sorda e viene assistita da madre Giovanna di Santa Teresa, di circa cinquant’anni, “ricevitrice nella comunità ”. Il loro modo di parlare, così come già abbiamo visto in altri personaggi, fonde armoniosamente insieme lingua e dialetto, rimarcando una meridionalità di antiche e profonde radici. Della Priora si leggerà più avanti che era “una santa con tanti difetti.”; “na vera capa tosta…” Come Gerardo, pure Andrea, pure la Madre Priora sono assaliti da continue riflessioni, come se parlassero, in quel momento, a voce alta con se stessi. Una sottolineatura di Alianello per offrirci più di una chiave di lettura dei suoi personaggi, quasi li volesse collocare in una zona fuori del suo dominio. Liberi e più vicini a noi piuttosto che all’autore. Andrea introduce la devozione e il sentimento religiosi nel romanzo (lo zio-cugino don Matteo, dirà di lui: “Tutto clericume è.”), più ancora, e forse più intimi, almeno fino ad un certo punto, di quelli provati dalla Madre Priora, di cui è parente, sebbene alla lontana. La Priora, che – come più avanti farà il canonico Stella nei riguardi dell’indifferenza e del mutismo della Chiesa – non manca di lanciare frecce contro la corruzione del clero (“Sacerdoti veri ne conosco sì e no uno o due”), trova il modo di farlo restare a Potenza, non in incognito e vestito da capraio come si era malamente presentato a lei, ma con il suo titolo e nel suo vero aspetto. La scusa è che i piemontesi fra poco chiuderanno i conventi e lei, zia di Andrea, ha bisogno, ritirandosi nel suo palazzo, che “un congiunto si curi di me.” Eppoi, da poco è morto suo fratello Donato (lo troveremo verso la fine con il nome di Tommaso), che ha lasciato una appetibile eredità . Perciò è naturale che un Guarna sia venuto a Potenza per “badare ai suoi interessi”, visto che “voi siete l’unico mio parente utile”. Il fratellastro Don Matteo, ateo, liberale e frammassone, schierato dalla parte dei piemontesi, ma con una odiosa ambiguità , si staglia, infatti, all’orizzonte come colui che lotterà fino in fondo – e lo si vedrà nel momento in cui la Madre Priora si deciderà a fare testamento (“Quella, ci fa l’ultimo scherzo”; “Io mi dovrei rassegnare?”) – per assicurarsi tale eredità , che consiste, come dice il canonico don Vincenzo Stella in “qualche masseria, molte difese per il pascolo, greggi, un po’ d’armenti, qualche vigna e qualche casale. È agiatezza, per quel poco che la campagna rende, ma ricchezza no.” In realtà , sapremo più avanti che si tratta in tutto di un valore di circa cinquecentomila ducati, “una somma grossa.”, e lo stesso don Vincenzo ammetterà : “È un’eredità considerevole in terre, fabbricati, beni mobili e immobili.” La storia passa ininterrottamente attraverso il romanzo, con il suo bene e il suo male, ed anzi ne diviene presto protagonista, più delle vicende dei singoli personaggi, e quando al convento carmelitano si presentano le autorità per prendere possesso, per conto del Demanio, dell’edificio religioso, non possiamo trattenerci dal pensare ai corsi e ricorsi vichiani. La coralità dell’affresco si allarga proprio nel momento in cui la Madre Priora, ritiratasi nel palazzotto avito, comincia a tessere, quasi invisibile e immota, la sua tela di padrona abituata a comandare. Sarà ricorrendo a lei che spesso i personaggi troveranno una risposta alle loro ansie, incertezze e paure. Nella stessa casa vive anche il fratellastro don Matteo, che ha una figlia, Isabellina, che “aveva il naso piccolo, dritto, con le narici un po’ aperte, sensibili, e gli occhi cupi, fondi, che guardavano dritto, franchi, ma senza cordialità .” La Madre Priora ricorda al fratellastro la sua condizione di figlio nato dal secondo matrimonio del padre (il quale “Figuratevi che avrà lasciato al mondo cinquanta o sessanta figli, un pizzico qua, un pizzico là , per ogni casa del paese. Non qui a Potenza, al paese.”), con “la figlia di un cafone”, nonché i suoi trascorsi di liberale che avevano indotto il padre a diseredarlo e privarlo del titolo nobiliare. Ebbene, lei può rimettere in gioco tutto, ossia fare testamento e nominare sua unica erede Isabellina, se questa si accasa. Per esempio: sposando il cugino Andrea, che è barone e può ridarle anche il titolo. Gerardo, di cui avevamo perso le tracce, intanto è arrivato a Potenza e marcia in groppa ad un “cavallino di Puglia, dal piede agile”, in testa a “una truppa di cafoni” che provengono da Ripacandida (da cui discende il ramo baronale di Andrea) e da Avigliano, cafoni che, annota l’autore lasciando un segno degli usi e costumi del tempo, “si riconoscevano dalla differente foggia del corpetto.” Sono i territori e i tempi che saranno esplorati più tardi da Raffaele Nigro e, così, quando leggiamo i nomi dei fiumi Bradano e Basento, riusciamo a rievocare anche le gesta narrate da questo bravo scrittore lucano. I percorsi di Andrea e di Gerardo, dunque, sono destinati ad incontrarsi. Ripacandida è una delle prime terre che si ribella ai piemontesi e innalza di nuovo la bandiera gigliata dei Borboni. A liberarla, come arringa alla “plebe tumultuante” Crocco, un “gigante nero”, “alto, massiccio, enorme” “battendosi il petto, sotto la grande barba corvina”, è la massa “dei zappaterra”, armati di bastoni, falci, pennati, schioppi, accette: “Guagliò, mò fernisce la rivoluzione dei galantuomini e comincia quella della povera gente… Comincia qua, la rivoluzione delle pezze al culo!” Dovunque arrivino gli zappaterra (“detti anche caini, siccome sono razza maledetta”) fanno paura; sono determinati a ripristinare il vecchio reame, convinti che i piemontesi sono venuti al Sud per impoverirli. Del resto, anche tra i liberali, i latifondisti, “i capintesta”, i “sopracciò”, ossia quelli “che tengono in mano il pane di tanta gente”, serpeggia del malumore nei confronti dei nuovi padroni, e qualcuno non è del tutto convinto di essersi schierato dalla parte migliore, dopo che per generazioni la sua famiglia era stata fedele ai Borboni. Come all’orizzonte di Andrea spunta la figura, non ancora ben definita, di Isabellina, all’orizzonte di Gerardo appare una ragazza delineata magistralmente da Alianello, che subito ci conquista, Juzzella, Juzzella Esposito, “una bella figliola”, “bella davvero”, la quale fa la serva in casa di don Gennaro Coronato, uno dei maggiorenti più rispettati, un “sopracciò”, il quale ne dispone facendola giacere la notte con gli ospiti importanti della sua casa. È per questo motivo che la notte in cui Gerardo è ospite da don Gennaro lei bussa alla porta ed entra nella sua stanza “E senza arrossire, compostamente, cominciò a sciogliersi i legacci del corpetto.” L’affresco che Alianello compone va sempre più somigliando a un grande mosaico le cui tessere sono rappresentate da minimi episodi come questo, quasi sussurrati; non vi si incontra mai il grido, l’asprezza dell’urlo e della disperazione, ma un disegno compiuto con lenti tratti, amati e accarezzati sempre al loro apparire, come al realizzarsi di un desiderio nascosto che prende forma, un sogno che si tramuta e si può toccare grazie alla magia della parola. Un altro esempio, lo possiamo fare, tra i tanti: il pranzo in casa di don Pasquale Forogna, un maggiorente che ha invitato Gerardo con lo scopo di ingraziarselo, come già aveva fatto don Pasquale, visto il titolo e l’incarico con cui si è presentato a loro. I ritratti dei commensali sono di una fattura squisita e così l’atmosfera che vi regna: “finché giunsero gli antipasti e gli strascinati, ché allora cambiò scena, la cortesia fu messa da parte e la gente riprese ognuno la sua faccia ch’era stizzosa e impensierita. Occupati a mangiare, non si nascondevano più.” Più avanti troveremo un altra tavolata ben descritta, allorché i cospiratori borbonici si ritrovano, di sera, sotto la pergola in casa di Roccuzzo Sfregola per organizzare, guidati da don Ciccio Ventura (“che è come il fato, come Dio”), la resistenza ai piemontesi (“Adesso ci tocca fare come prima facevano i liberali.”) nonché punire i traditori, coloro che hanno venduto il meridione agli invasori: “di questa mala razza, fossero pure mio padre o mio figlio, non uno ha da sopravvivere.” Si è già detto che dalla scrittura e dai vividi dialoghi è disegnata tutta la meridionalità dei personaggi e dell’ambiente. Basterebbero da soli a darci un’idea assai puntuale e precisa di com’era la vita in quegli anni di fine Ottocento, e di come lo sia ancora oggi da qualche parte. Leggete che cosa dice un servitore a Gerardo: “Gli uomini sono usciti tutti, Eccellenza; e allora chiudono dentro le femmine e gli lasciano il cane.” Al pranzo che Gerardo ha consumato in casa di don Pasquale, “non c’erano donne a far servizio”, ma solo uomini, e anche sedute a tavola c’erano soltanto donne anziane, mentre le giovani erano tenute nascoste: “non ne avevano per casa o per prudenza, per decoro o secondo l’usanza, le avevano mandate a mangiare in cucina.” Il lettore che ami circondarsi anche delle atmosfere che palpitano intorno ad una storia, qui trova il suo habitat più rigoglioso e fecondo, tanto da richiamare alla mente romanzi più famosi, come, ad esempio, “I Viceré” di Federico De Roberto e “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di fronte ai quali, tuttavia, la tessitura e la cura che qui vi prodiga l’autore non sono certo da meno, egualmente degne di annotazione. Le furberie, la codardia, le paure, i voltafaccia dei “gattopardi” di questo lembo di terra lucana, esplodono con l’arrivo dei reazionari. Il popolo assiste impotente, rassegnato dalle ragioni prevaricatrici della storia: “Per la strada la gente era poca; qualche donna sull’uscio col bambino in braccio; una frotta di monelli che correva su e giù, ma frettolosa, senza strilli, come chi si muove ad eseguire un ordine, non a giocare; uomini qua e là coi visi chiusi e con le grinte dure, che pareva bighellonassero, ma si guardavano attorno e improvvisamente sparivano nei vicoli.” Sono pronti tuttavia ad acclamare il vincitore, come a Rapolla, dove arrivano i borbonici: “gran festa di popolo.[…] La gente urlava: ‘A morte i gatti! Morte ai liberali! Viva Francesco II!'” e ad armarsi per ingrossare le file degli insorti: “I cafoni che avevano svaligiato l’armeria della guardia nazionale, avevano tutti il loro fucile a tracolla o bilanciato su una spalla e la giberna coi fregi dei Savoia e le due lettere d’ottone G.N. che gli sbattevano sulle natiche.” Oppure a Melfi: “Morte a Gallibardo!” Tutto questa esultanza è comunque “l’eco d’una interminabile agonia”, giacché si sa che “il nuovo regno d’Italia fino a quel punto non aveva mosso che un minimo della sua vera forza, esercito e gendarmeria, contro la massa sbracata e stracciona dei cafoni che si facevano chiamare reazionari, patriotti o partigiani e la partita vera ancora doveva cominciare”. A Melfi, le strade di Gerardo e di Andrea s’incontrano. Non è la prima volta che si vedono, apprendiamo. Andrea ha il grado di maggiore ed è infastidito dalla troppa confidenza che il capitano Gerardo si prende nei suoi confronti, visto che è un suo superiore. Comincia il momento delle battaglie, dello scontro tra i piemontesi e l’esercito dei cafoni, che avviene alle porte del paese di Barile. Alianello osserva la scena dalla parte dei cafoni (gli “scutariani, che sono gli abitanti di Barile), alcuni dei quali sono asserragliati nella casa di un cacciatore, Carminuccio. Quando questi, unitosi ai borbonici, viene colpito e muore, il canto funebre (“i guatimmi”) della moglie (“quasi bella, come un’immagine antica, prima dei romani, dei greci, forse…”) si leva straziante per la casa e reca con sé l’orgoglio e la disperazione della povera gente: “Che te credive, né? Che te credive? Pò vince lu cafone, Carminuccio?” Stancone, un cafone che ha i gradi di colonnello, spiega ad Andrea, che vorrebbe tenere a freno la truppa sguaiata dopo la momentanea vittoria sui piemontesi: “Se al cafone non gli lasci fare ammuina, stanotte, lui piglia e se ne va. Voi siete un signore e ste cose non le potete capire.. Lui, per questo… il cafone per questo combatte e magari ci lascia la pelle… per rifarsi”. Alianello è in questo modo, attraverso soprattutto i dialoghi, che ci presenta le ragioni di una ribellione del popolo meridionale al nuovo regno d’Italia. Dopo Gerardo e Andrea, è un amico di quest’ultimo, Ugo Navarra, “primo tenente dell’esercito del Re”, ad occupare la scena. Ha l’animo del poeta, imbevuto di classici, conosce il latino e ogni tanto cita qualche autore del passato, come Orazio, nativo di quelle parti. Sono, i tre, personaggi che rappresentano altrettante sfaccettature di quella guerra che si oppone al cambiamento, e reclama il diritto a perseverare in una condizione e stratificazione sociali consolidatesi nei secoli: perfino in quei miti e in quelle superstizioni che si perdono nella notte dei tempi, come quella che coinvolge Ugo, il quale, avendo baciata la moglie di Carmelo, Maria Palumba, quando questi era disteso morto sul letto, per ciò stesso viene considerato dalla donna “Marito mi sei, perché mi hai baciato avanti all’uomo mio morto e sulla tua bocca io ho accolto il suo respiro e sulla bocca tua isso m’ha ditto addio. Poi t’ha ripurtà a me, cca, al posto suo, nel letto dell’amore, pé sempe.” Sono scandagli significativi coi quali l’autore riesce a farci entrare nello spirito di quel popolo considerato di straccioni, ma che conserva, più dei signori, il peso e l’orgoglio di una storia millenaria. Anche Ugo quindi si trascina dietro di sé una figura di donna, Maria, come già avevano fatto Gerardo con Juzzella e Andrea con Isabellina. Queste donne, soprattutto Juzzella (“teneva la testa bassa col mento sul petto e rispose sussurrando quasi, ma la voce era ferma, ostinata: ‘So’ asciuta perché non voglio essere più la serva di nisciuno.'”) e Maria (“gli cantilenava nenie di consolazione o di sortilegio perché lui s’addormisse”), incarnano più degli uomini l’anima del sud, nel suo essere, piuttosto che rassegnata, strumento del destino, e per ciò stesso mai piegata, mai vinta; orgogliosa e forte. Esse sono le più somiglianti alle descrizioni di una natura aspra, vibrante di superbia e di solitudine, con le quali Alianello non manca di punteggiare la sua storia: Juzzella ha “un corpo snello, sodo, un senso di vita e di ferinità quasi, che nessuna stanchezza era riuscita a sciogliere o a piegare.”; Maria: “Qui soltanto Maria Palumba gli piace, perché anche lei è tutta natura, più delle altre donne che ha conosciute o ha sognate, che pure sono natura, ma immiserita e frivola.” Ugo è un liberale; sta però coi borbonici perché i piemontesi gli hanno ucciso la sorella Marietta e il marito Sandrino, una coppia di giovani sposi che il maggiore generale Ferdinando Pinelli, ospite nella loro casa, ha fatto fucilare perché avevano in un cassetto “lu ritratte di Re Francisco e la riggina Sufie, ca don Sandrine e donna Marietta se li erano scurdate là dinto.” Sono troppo più forti i piemontesi e la ribellione di Rionero, Barile, Melfi, Ripacandida, Rapolla, Lavello, Venosa, dura appena “un lungo mese”; presto i capibanda, come Stancone, vengono arrestati mentre tentano la fuga, e non oppongono resistenza: “si sono fatti mettere le manette, ché non han neppure fiatato…” Dirà più avanti Andrea alla Madre Priora: “La rivolta contadina ci può giovare, ma non potrà mai sconfiggere un esercito regolare da sola…” e ancora: “il popolo basso, se nessuno lo tocca, se ne starebbe quieto per altri cento anni.” Ma i piemontesi si muovono come vessatori (“Quasi nisciuno dei carcerati sape perché l’hanno messo in corsia.”), assetati di denaro e di sangue, rinnegatori e dissacratori di Dio, della religione degli avi, ossia (“Poi c’è stato lu fatto della religione, frati sfratati, vescovi scacciati…”), e allora il contadino, lo zappaterra, quando occorre, sa sparare e combattere anche “senza altre armi che accette e falci”. Sugli errori dei piemontesi contano, infatti, uomini come Gerardo, Andrea e Ugo. Lo spaccato delle lotte che hanno portato all’unità d’Italia viene fuori tutto intero, crudele, esasperato ed implacabile, con le prevaricazioni, le ingiustizie, la ferocia che le hanno contraddistinte, un po’ come sarà per la guerra partigiana portata alla luce, grosso modo in quegli stessi anni, da Beppe Fenoglio nel suo “Il partigiano Johnny”. Il romanzo di Alianello (che, ricordiamo, è del 1963), in realtà , pur prendendo in esame un periodo storico diverso e più lontano e che riguarda il Sud dell’Italia, ha molto in comune, nell’intenzione che vi è racchiusa, con il capolavoro di Fenoglio. Vi si trova descritta la delusione che ogni guerra, specialmente se fratricida, porta con sé, e come ne “Il partigiano Johnny” ci sono delusione e tristezza per taluni crimini partigiani, nel romanzo di Alianello esse si manifestano nei confronti del comportamento tenuto dai piemontesi: “l’Italia unita l’hanno voluta i letterati. Libertà , eguaglianza, fraternità . Guardatevi attorno e ditemi dove stanno. Voi siete venuti qua come dentro l’Africa selvaggia senza sapere niente e ancora v’ostinate a non voler sapere niente. E avete stabilito che siamo inferiori a voi, soltanto perché siamo differenti.” E ciò risveglia l’orgoglio di un popolo antico e nobile: “Noi siamo italici e voi… nu poco ‘e tutte cose… francesi, tedeschi, alpini, magari svizzeri, ma italici no. Abbiamo dormito, è ‘o vero, quanto tempo? Mille anni e più. Embè, ci siamo riposati. La fatica di Roma fu fatica nostra… e mo’ priate ‘o Pataterno che nun ce vulimmo sveglià n’ata vota.” Non v’è dubbio che Alianello partecipa e dà voce appassionata a questa fierezza meridionale, mostrando quanto la verità della storia sia sempre unicamente ed iniquamente quella dei vincitori, spesso colpevoli di: “violenze che qui da noi finora nessun soldato del Borbone aveva osato mai.” Gli stessi garibaldini sono autori di molte atrocità : “li garibbaldesi se spassavano a nce piglià alla mira, nuie senz’arme, meschini, pé se sfizià a lu bersaglio.” Quando si arriva alla caccia ai fuggitivi da parte dei piemontesi e dei carabinieri, Alianello apre un pertugio, e come ammaliati da uno scenario che non ci aspettavamo di sorprendere, noi lo ascoltiamo raccontarci una straordinaria e tragica storia d’amore, quella tra Ugo e Maria: “Core mio… lu bosco m’ha fatto tradimento… ma tu fuie… vai, vai via…” Ugo e Maria rappresentano il profondo di quanto sta accadendo. Se si odono come in superficie i colpi delle fucilerie, gli assalti tra eserciti e bande rivali, lo strazio dei morti, noi riusciamo tuttavia ad assorbirne la tragicità scomposta, assurda, cattiva, inquieta, odiosa e vigliacca, attraverso queste due figure che sembrano così differenti l’una dall’altra, quasi contrapposte, e invece infiggono la loro natura nella stessa matrice, fatta “di occhi, di occhi fulvi, neri, verdi, che ammiccavano e dal torrente altri occhi balenavano pel cristallo liquido dell’acqua, tra i sassi, dalle rughe dello scoglio.”, che altro non sono che la quintessenza misteriosa e imperscrutabile della vita. A Isabellina Guarna, cugina di Andrea, tocca un ruolo di donna diversa da Juzzella e Maria. Sebbene il padre abbia perso il titolo, è pur sempre una nobile, anche se non ha tutti “i quattro quarti di nobiltà ”, e, per giunta, ha studiato in Svizzera, a Ginevra. Per Alianello è giunto, dunque, il tempo di presentarci anche questo carattere della femminilità meridionale. È “saputa”, Isabellina, e mostra un distacco quasi irritato nei confronti del cugino. Sa che la Priora si è espressa per un matrimonio tra i due, che metterebbe a posto anche le questioni di eredità , che stanno tanto a cuore a don Matteo (“ch’è traditore nato, faccia di Giuda.”), padre di Isabellina e fratellastro della Priora, ma ciononostante, anzi proprio per questo, si mantiene sdegnata e altezzosa. Inizia una schermaglia tra i due giovani nella quale Alianello mostra la sua bravura nel saper cogliere gli aspetti più segreti e intimi della femminilità : “Isabellina non disse niente. Scivolò giù dal divano e se ne andò a passetti rigidi, col busto eretto, serissima in volto.”; “È una bambina, pensò Andrea; che giuoca a fare la grande donna.”; “se sposerò Andrea dovrò sposare anche il suo Dio… E perché no?” Così noi possiamo, a questo punto, fare una nuova osservazione sulla struttura del romanzo, che è questa: a differenza delle donne protagoniste, che si distinguono tutte l’una dall’altra per sfumature psicologiche, in realtà non così secondarie come parrebbe a prima vista, gli uomini come Gerardo, Andrea e Ugo, soprattutto quando si rinserrano nei loro pensieri, mostrano una uniformità quasi calligrafica, che ne giustifica, peraltro, lo schieramento dalla medesima parte, sia pure avvenuto per motivazioni diverse. Se all’esterno possono tenere comportamenti che paiono differenti, nell’intimo si somigliano come gocce d’acqua. La storia tra Andrea e Isabellina si dipana senza la forza e l’irruenza delle altre che abbiamo conosciute. È sulla punta del fioretto che si va aprendo un varco tra i due, attraverso il quale, se passano l’ironia e l’abilità di Andrea, da esse vengono a poco a poco scalfite la presunzione e l’arroganza di Isabellina, che ritrova infine nel rapporto con Andrea una fiducia nel prossimo che l’educazione calvinista aveva resa sterile: “le venne addosso una gran voglia, fanciullesca, giuliva, d’entrare sul momento in quel regno dove Andrea vive, di cui vive…” Su questa capacità di Alianello di tessere l’intimo femminile, leggete la descrizione, tutt’altro che oleografica, che fa della serva della Madre Priora: “s’affacciò una cafona di Avigliano, come indicava la teletta gialla, tesa da due bacchette che quella portava sulla testa. Pareva vecchia, ma forse aveva soltanto passato la gioventù, come appaiono le contadine, dopo la prima figliata, massicce e tozze, se il lavoro della zappa le squadra. Aveva un faccione rosso, bozzuto e diffidente, da can mastino.” La donna, che si chiama Apollonia, apre l’uscio ad Andrea allorché si reca a visitare la Madre Priora, che ora vive ritirata nel suo palazzotto (“Ma qui avete rifatto il convento, Madre Priora!”) da quando i piemontesi l’hanno cacciata, circa due mesi prima, dal convento. In quel faccione c’è tutto il segreto, il vissuto e l’intimo di questa donna. Ma se ne possono indicare altre: “C’era anche un gobbo, piccolo, secco, nasuto, che pareva fatto anche lui di ragnateli come quella vecchina che li aveva accolti. Eppoi un omaccione sbracato, ridanciano, dal mostaccio cordiale e nero di barba malfatta. Il gobbo vestiva tutto di nero e da persona civile, mentre l’altro portava il farsetto, i calzoni al ginocchio e le calze bianche dei popolani.” Oppure: “Comparve la medesima donnetta che aveva un viso tondo di mela, ma di quelle non giunte a maturazione e già avvizzite, mezze verdi e mezze gialle.”, la quale ha “occhi di cane mite”. Alianello sa che il lettore si aspetta l’evoluzione di un rapporto che già aveva intuito sin dal principio tra Gerardo e Andrea, suo superiore. Saranno amici per la pelle? Diventeranno rivali? E cosa fa? Fa incontrare le loro donne: l’aristocratica e presuntuosa Isabellina e la popolana, istintiva Juzzella. Gerardo, tornando a casa, un giorno trova Juzzella “seduta a terra, come una cagna, che strillava e singhiozzava perché voleva l’ingegnere suo…” I baroni Rovecchia, che l’avevano mantenuta in casa loro, a Melfi, sono stati arrestati dai piemontesi, e così Juzzella è fuggita andandolo a cercare, a piedi, fino a Potenza, e chiedendo di essere ospitata da lui. Ma la padrona, madama, vedova, è gelosa e non vuole altre donne in casa sua, e allora Gerardo chiede ad Andrea di prenderla nel suo palazzo, dove vive anche Isabellina. Alianello tenta l’impresa, dunque, di un confronto al femminile assai più stimolante di quello tra gli innamorati delle due donne: “Juzzella s’era alzata e guardava quella signorina che le parve bionda, così fine, così diversa, con un sguardo lungo e dubitoso, dove non c’era ostilità , ma diffidenza sì.” Si resta stupiti dal comportamento di Isabellina, la quale, scalfita nella sua rigida personalità dall’amore per Andrea, “le infilò un braccio sotto il suo.” Nella casa, come si sa, vive anche la Madre Priora, che ne è la padrona. Tocca a lei di decidere se accogliere o meno la ragazza. E mentre sono presso la monaca, e Juzzella proclama la sua determinazione di non lasciare più Gerardo, nonostante che la sua presenza rappresenti un pericolo per lui, ricercato dai piemontesi, Isabellina “Guardava Juzzella e si riconosceva in lei: quel grido di donna ferita è anche il suo grido che finora ha tenuto nascosto e compresso.” È, dunque, l’amore furioso, caparbio di Juzzella che entra nel sangue di Isabellina e si fa, per miracolo, tenero, tremebondo e spalanca alla superba Isabellina le porte di un mondo nuovo e radicalmente diverso da quello in cui aveva vissuto fino ad allora. Si tratta di un passaggio notevole, che si insinua, pur in mezzo al pianto e alle grida di Juzzella, dentro il silenzio che sempre accompagna il contatto tra due anime, passaggio che si ripeterà con maggior forza la notte che le due dormiranno una vicina all’altra. Qualche debolezza romantica (che compare, in realtà , anche in altri punti del romanzo), non ne riduce peraltro la valenza, che resta superlativa. Ma Isabellina non è Andrea. La sua apparente fermezza è in realtà insicura e fragile. A cospetto di Andrea, paga lo scotto di una educazione formatasi lontana dal mondo. Deve maturare ancora, fare molta strada. Con tale immaturità si confronta duramente Andrea che, in questo scontro, mette in risalto una differenza, prima nascosta, tra lui e Gerardo. Quest’ultimo è deluso dall’andamento della guerra, trova che i suoi capi sono indecisi e ambigui. Non vuol restare a Potenza, diventata troppo pericolosa per lui, e desidera far ritorno a Napoli. Lo confida ad Andrea e lo prega di salutare per suo conto Juzzella, “che si trovi un bravo marito che le dia tanta felicità , con la protezione della Priora e… digli che le ho voluto bene…” Se ne fuggirà travestito da frate, dopo che ha ucciso due carabinieri. Quell’uccisione, in realtà , lo riporterà al suo dovere di combattente. È solo un momento di sconforto, quindi, in Gerardo, più sanguigno, più istintivo e quindi più vulnerabile, che manca in Andrea, il quale è consapevole e determinato nella sua scelta (Gerardo si sente più mercenario che idealista: “Io me ne fotto. Io nun tengo da pensà a niente. Non voglio che un’idea grande mi diventi tra le mani un fatto di sangue. Questo lo lascio ai fanatici. Io sono soldato mercenario.”). Pur essendo di estrazione nobile, Andrea non accetta che la povera gente sia vessata e fucilata perché “Non hanno voluto che il loro campo fosse devastato, le loro donne fossero violentate, i loro beni rubati in nome dello stato”. A Isabellina, che non si prova nemmeno a capirlo, lui scrive che resta a combattere “perché termini questo omicidio di tutto un popolo, uomo per uomo, minuto per minuto.” È un passaggio che crea ora una gerarchia tra i tre uomini che abbiamo incontrato: Ugo, quindi Gerardo, quindi Andrea, che diventano come le tre facce di uno stesso protagonista. Toccherà a Gerardo mostrarci la battaglia sul torrente Volina – descritta minutamente, e con mano sicura, da Alianello – tra i piemontesi e l’esercito degli straccioni comandati da Crocco, “alto, grande, col dorso nudo e i potenti muscoli guizzanti.”: “I piemontesi erano già arrivati alla sponda opposta del torrente. Ogni dieci passi, facevano ginocchio a terra, sparavano con calma, mirando accuratamente, poi si levavano su e ricominciavano la marcia.”; qua invece siamo nel campo dei borbonici: “Passava sul loro capo un turbine di piombo; le pallottole fischiavano finché non trovassero un bersaglio qualunque, albero, terra, carne d’uomo. Tagliavano ramoscelli, sfrondavano frasche, si configgevano nei rami più grossi che ne tremavano e restavano così vibranti per un po’ e ne veniva giù una pioggia di rametti, di foglie, di bricioli di corteccia.” Juzzella, l’abbiamo lasciata in casa della Priora. Viene a sapere che il suo Gerardo, che ha ucciso due carabinieri, si è rifugiato nel campo di Crocco ed ora è ricercato dai piemontesi, che vogliono fucilarlo. Per lei è l’occasione per sentirsi la donna di Gerardo, una brigantessa a fianco di un brigante: “E già si vede, con la pistola alla cintola, la carabina a tracolla, galoppare sul suo ginnetto, a fianco di Gerardo per burrati e valloni; coricarsi con lui nei cespugli, preparargli le armi e far l’amore sempre, mangiando e bevendo, al sereno sotto il cielo grande, o in fondo a una grotta o nel fitto di una foresta.” È il momento in cui la figura di Juzzella cresce e si eleva sulle altre che abbiamo incontrate: Maria e Isabellina. Lo stacco si ha nel momento in cui fugge da quella specie di “quasi convento, un mezzo convento”, “‘o cunventino”, che è diventato il palazzo della Priora. Non ha incertezze o paure, Juzzella (“impaurita e subito senza paura, disperata e con una speranza nuova nata a quel punto.”), come, tra gli uomini protagonisti, non ne ha Andrea, che sa sempre trovare, ricorrendo alla sua formazione di soldato (“Il tradimento non è il suo forte e neppure la furberia”), una risposta ai suoi dubbi, tra i quali: “che me ne faccio di me?”, e infatti, se si eccettui la sorte di Ugo e Maria, sarà il solo di cui, insieme con Isabellina, conosceremo il destino. La determinazione di Juzzella è il risultato della selvatichezza del suo amore. I suoi istinti sono legati alla terra, più di quelli di Gerardo; la sua poesia è grido e lamento insieme della natura, più che in Ugo e in Maria. Arrestata, viene presa in casa di un piemontese, il delegato don Firmino Rua, come serva, ma soprattutto per profittare della sua bellezza. A Gerardo “Sta femmena gli sta mettendo nu cuofano ‘e corna con don Firmino ‘o delegato!”, “non ne può più di stare lontana da Gerardo e di questo schifoso che se la tiene per sua puttana e lei neppure lo capisce quando parla.” Sono le tappe di un cammino acerbo, duro, ma forte e deciso: “Vuoglio àaddò Gerardo mio, vuoglio Gerardo mio, Gerardo!” e ancora: “Tutto è mieglio della luntananza…” e leggete questa confessione che fa a Isabellina: “Ah! signoria! Gerardo mi fiorisce in corpo come na rosa, a me…” Anche se poi la vita non è d’accordo, vedrete, coi suoi propositi. Alianello ferma la sua guerra alle porte di Potenza, quando i reazionari sono dati ormai per vincitori. Tutto è pronto per accoglierli. Ma non arrivano. Andrea li attende invano con la sua terza compagnia pronta a sostenerli. Ma quella vittoria non piaceva al brigante Carmine Donatello Crocco, ecco perché non arrivano. A lui della politica interessava poco. Interessava il suo avvenire, e se i reazionari avessero vinto, prima o poi si sarebbe fatta la secessione e il Sud si sarebbe separato dal Nord, e i borbonici di uomini come Crocco non avrebbero saputo più che farsene. “E chi sarebbe tornato a comandare? I signori, i nemici eterni, che vogliono l’ordine per godersi in pace la proprietà . E della sua rivoluzione, quella delle pezze al culo, che ne sarebbe avvenuto? Finita, morta, schiacciata dai gendarmi e dai soldati la rivoluzione dei poveri. Sarebbe ricominciata quella dei ricchi.” Perciò convince i capibanda a rinunciare alla presa di Potenza e si vende al nemico, patteggiando la prigione contro la morte. E così, ci fa intendere Alianello, la grande storia è passata attraverso questo piccolo, sconosciuto brigante. Sarà l’intuizione della Priora (“Era una che vedeva più lontano”) a tentare, invece, attraverso il lascito della sua eredità , di costruire un ponte per cancellare gli orrori della guerra civile e unificare tra loro vinti e vincitori. Una considerazione particolare, infine, va fatta sui molti vocaboli insoliti, ma estremamente felici, di cui Alianello cosparge come gocce di profumo il romanzo: ammontonato, mence, interito, stramazzo (per giaciglio), ammartenati, springava, attorceva, sconocchia, tonfano (per pozza d’acqua), bruttare, pacchebotto a vapore, indolito, appetare, sfessata, abballinata, chiercuti, appaura, grifo, scandolezzato, per fare qualche esempio. Un bel libro, dunque, ingiustamente dimenticato e da recuperare. E certamente, per le crude verità , scomodo a tanti. Letto 4388 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||