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Caso Napolitano. Continua il silenzio di Corriere, Stampa e Repubblica

9 Agosto 2012

Zero Tituli

di Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 agosto 2012)

Il regime dei Cinque dell’Apocalisse (Quirinale, Avvocatura dello Stato, Procura della Cassazione, Csm e Governo) che assedia la Procura di Palermo può ritenersi soddisfatto. La notizia anticipata dal Fatto sul procedimento disciplinare contro i pm Messineo e Di Matteo, rei del terribile delitto di intervista, ha raccolto l’audience mediatica auspicata: omertà assoluta di politici, giornali e tg. Fa eccezione il Foglio che, per quanto clandestino, fa il suo sporco mestiere: plaude al Pg della Cassazione e lo esorta a radere al suolo la Procura, “luogo di mille abusi”, anche con processi penali per “violazione del segreto istruttorio”.

Pazienza se il segreto istruttorio è stato abrogato nel 1989 e se per le toghe – lo dimostreremo domani – rilasciare interviste non è illecito disciplinare, ergo l’unico “abuso” è proprio il procedimento disciplinare contro Messineo e Di Matteo. Quanto agli altri quotidiani – direbbe José Mourinho –, “zero tituli”. Compresi il Giornale e Libero che forse, per la prima volta nella storia, provano un filo d’imbarazzo. Ma anche Repubblica, sempre in prima linea a protestare quando i governi B. promuovevano od ottenevano azioni disciplinari contro i pm più impegnati (nelle indagini su B. & his band).

Munendosi di microscopio elettronico, si rinvengono su Repubblica alcune righe riservate alla notizia, pudicamente nascoste in fondo a un articolo dedicato a tutt’altro dal titolo “Caso Mancino-Quirinale, no alla legge ad hoc”, per evitare che qualcuno le noti. Problemi di spazio, probabilmente, in una giornata dominata da notizione come il pensiero di Brunetta su Monti, “Porcellum, la battaglia solitaria del soldato Giachetti”, “L’Italia dei borghi a 5 stelle”. Sul Corriere, neanche tre righe camuffate dietro la siepe: in compenso, ampio spazio al pensiero di Follini, alla gigantografia della famiglia reale Giorgio & Clio sulla sdraio a Stromboli, agli alti lai del nuovo Pellico, il ciellino Simone detenuto per corruzione dunque “prigioniero della politica e dei magistrati”.

Seguono le polemiche sullo spot agreste di Aldo, Giovanni e Giacomo e gli scoop del giorno: “La collanina del primo amore” dello scrittore Buzzi, “Il gossip non è più quello di una volta”, “Gli ultimi ciak dei Soliti idioti” e la “caccia ai polpi di Ponza”. Roba forte, altro che la caccia ai pm della trattativa. Non manca, sul Corriere, il diario di un cane che risponde all’angosciante interrogativo: “Perché nascondono sempre il mio osso?”. E non è mica l’unico cane a scrivere sui giornali. La Stampa regala un paginone su “le vacanze misurate degli onorevoli”, poi s’avvicina pericolosamente alla trattativa: “Tanti indagati, poche condanne”. Allusione a Stato e mafia? No, ai finti ciechi, vera emergenza nazionale. E volete mettere, poi, la ricomparsa del “maschio alfa fra i lupi dei Monti Sibillini”? Si dirà: almeno l’Unità, con la sua centenaria tradizione antimafia, gliene dirà quattro a chi vuol fermare i pm. Invece no. Siccome non c’è peggior Sardo di chi non vuol sentire, c’è ben altro in menu: “Bersani: i progressisti non si chiudono nell’autosufficienza”, “Sui valori della Carta d’intenti si può ricostruire la politica”, “Geografie dell’utopia” (ma anche, volendo, utopie della geografia) e l’imprescindibile “Elogio del ‘non so’”. Più che un titolo, un piano editoriale.

da Il Fatto Quotidiano del 9 agosto 2012Il regime dei Cinque dell’Apocalisse (Quirinale, Avvocatura dello Stato, Procura della Cassazione, Csm e Governo) che assedia la Procura di Palermo può ritenersi soddisfatto. La notizia anticipata dal Fatto sul procedimento disciplinare contro i pm Messineo e Di Matteo, rei del terribile delitto di intervista, ha raccolto l’audience mediatica auspicata: omertà assoluta di politici, giornali e tg. Fa eccezione il Foglio che, per quanto clandestino, fa il suo sporco mestiere: plaude al Pg della Cassazione e lo esorta a radere al suolo la Procura, “luogo di mille abusi”, anche con processi penali per “violazione del segreto istruttorio”.

Pazienza se il segreto istruttorio è stato abrogato nel 1989 e se per le toghe – lo dimostreremo domani – rilasciare interviste non è illecito disciplinare, ergo l’unico “abuso” è proprio il procedimento disciplinare contro Messineo e Di Matteo. Quanto agli altri quotidiani – direbbe José Mourinho –, “zero tituli”. Compresi il Giornale e Libero che forse, per la prima volta nella storia, provano un filo d’imbarazzo. Ma anche Repubblica, sempre in prima linea a protestare quando i governi B. promuovevano od ottenevano azioni disciplinari contro i pm più impegnati (nelle indagini su B. & his band).

Munendosi di microscopio elettronico, si rinvengono su Repubblica alcune righe riservate alla notizia, pudicamente nascoste in fondo a un articolo dedicato a tutt’altro dal titolo “Caso Mancino-Quirinale, no alla legge ad hoc”, per evitare che qualcuno le noti. Problemi di spazio, probabilmente, in una giornata dominata da notizione come il pensiero di Brunetta su Monti, “Porcellum, la battaglia solitaria del soldato Giachetti”, “L’Italia dei borghi a 5 stelle”. Sul Corriere, neanche tre righe camuffate dietro la siepe: in compenso, ampio spazio al pensiero di Follini, alla gigantografia della famiglia reale Giorgio & Clio sulla sdraio a Stromboli, agli alti lai del nuovo Pellico, il ciellino Simone detenuto per corruzione dunque “prigioniero della politica e dei magistrati”.

Seguono le polemiche sullo spot agreste di Aldo, Giovanni e Giacomo e gli scoop del giorno: “La collanina del primo amore” dello scrittore Buzzi, “Il gossip non è più quello di una volta”, “Gli ultimi ciak dei Soliti idioti” e la “caccia ai polpi di Ponza”. Roba forte, altro che la caccia ai pm della trattativa. Non manca, sul Corriere, il diario di un cane che risponde all’angosciante interrogativo: “Perché nascondono sempre il mio osso?”. E non è mica l’unico cane a scrivere sui giornali. La Stampa regala un paginone su “le vacanze misurate degli onorevoli”, poi s’avvicina pericolosamente alla trattativa: “Tanti indagati, poche condanne”. Allusione a Stato e mafia? No, ai finti ciechi, vera emergenza nazionale. E volete mettere, poi, la ricomparsa del “maschio alfa fra i lupi dei Monti Sibillini”? Si dirà: almeno l’Unità, con la sua centenaria tradizione antimafia, gliene dirà quattro a chi vuol fermare i pm. Invece no. Siccome non c’è peggior Sardo di chi non vuol sentire, c’è ben altro in menu: “Bersani: i progressisti non si chiudono nell’autosufficienza”, “Sui valori della Carta d’intenti si può ricostruire la politica”, “Geografie dell’utopia” (ma anche, volendo, utopie della geografia) e l’imprescindibile “Elogio del ‘non so’”. Più che un titolo, un piano editoriale.


Quando Anm e Csm alzavano barricate
di Antonella Mascali
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 agosto 2012)

Gli scioperi contro la riforma della Giustizia, targata Roberto Castelli, le proteste per gli ispettori facili inviati dallo stesso ministro leghista (a Milano in particolare per le indagini su Silvio Berlusconi); i documenti contro le leggi ad personam, le pratiche a tutela o i comunicati contro gli insulti a pm e giudici. Il sindacato dei magistrati, l’Anm, così come l’organo di autogoverno dei magistrati, il Csm, si sono sempre fatti sentire. Soprattutto dal secondo governo Berlusconi in poi.
Un sostanziale silenzio, però, è calato da giugno, quando le conclusioni dell’inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-Cosa Nostra hanno fatto emergere il “conforto” del Quirinale a un testimone, divenuto poi indagato, Nicola Mancino. Mentre nei confronti dei pm di Palermo, che hanno prospettato (a torto o a ragione saranno i giudici a stabilirlo) una verità su quella famigerata trattativa a cavallo tra il ‘92 e il ‘93, l’unico “conforto” istituzionale che c’è stato è quello di un conflitto presidenziale davanti alla Corte costituzionale e l’avvio di procedimenti disciplinari. Eccezione a questo silenzio, un comunicato dell’Anm che critica la decisione del Csm di aprire un fascicolo contro il procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato per la sua commemorazione di Paolo Borsellino. Nessun comunicato, invece, contro gli insulti al procuratore aggiunto, Antonio Ingroia, definito da Vittorio Sgarbi “uno che si inventa i processi e mette cimici nel c. di Napolitano”; dal senatore condannato per mafia, Marcello Dell’Utri “un ayatollah, un pazzo…” e dal leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, un magistrato di cui avere paura. Né il Csm ha aperto una pratica a tutela. Ma lo stesso Csm, correttamente, di pratiche a tutela di magistrati ne ha aperte parecchie quando Berlusconi e i ministri della Giustizia, Roberto Castelli, prima e Angelino Alfano poi, un giorno sì e un giorno no, insultavano soprattutto i magistrati milanesi che indagavano sull’ex premier. Il Cavaliere nel 2010 li ha definiti “la vera anomalia italiana”.

Ora silenzio e solo silenzio sul tentativo – fallito – del Procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani di far intervenire il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso sui magistrati palermitani, dopo il pressing di Mancino sul Quirinale. Grasso, come ha raccontato al Fatto il 22 maggio, rispose per iscritto a Ciani che “nessun potere di coordinamento” poteva consentirgli “di dare indirizzi investigativi e ancor meno di influire sulle valutazioni degli elementi di accuse acquisiti dai singoli uffici giudiziari”.

Silenzio e solo silenzio anche sull’azione promossa dal pg Ciani, che potrebbe portare a un processo disciplinare davanti al Csm a carico del procuratore di Palermo, Francesco Messineo e del pm, Nino Di Matteo, per un’intervista del sostituto, uno dei titolari dell’indagine sulla trattativa. L”unica voce che si è levata finora è quella dell’Anm locale. Ribadisce “stima e ‘affetto per i colleghi… auspica una rapida definizione della vicenda, certa che il loro impegno proseguirà inalterato”. Una volta, però, l’Anm si è schierata contro un procuratore generale della Cassazione. Quando, nel luglio 2010, il pg, Vitaliano Esposito ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del presidente della corte d’Appello di Milano, Alfonso Marra, coinvolto nella P3, senza chiedere una “misura cautelare”, il trasferimento per incompatibilità ambientale.


41bis. Carta Canta
di Giuseppe Lo Bianco e Valeria Pacelli
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 agosto 2012)

Un ritaglio di giornale dal ti ­tolo “Revocato il decreto ammazza colloqui”, se ­guito da poche righe scritte a mano: “Caro ministro, come di intesa ho già avvertito Parisi e Lauro e a entrambi ho mandato copia del decreto via fax in modo che lo abbia anche il ministro Mancino. A Napoli, dalle prime informazioni, sem ­bra che la reazione del persona ­le dei due istituti sia buona. Spe ­rando in bene, ti abbraccio con affetto. Niccolò” . Parisi è in quel momento il capo della polizia, Raffaele Lauro il suo capo di ga ­binetto: scritto da Niccolò Ama ­to, a capo del Dap, l’ appunto in ­viato nel febbraio del ’93 al mi ­nistro Guardasigilli, Giovanni Conso, è allegato agli atti del processo romano sulle infiltra ­zioni dei “servizi” nel mondo delle carceri. Mancino ha sem ­pre smentito di essere stato av ­vertito dell’attenuazione del 41-bis nelle carceri napoletane, ma l’appunto di Amato offre una conferma cartolare ai magi ­strati che indagano sulla tratta ­tiva mafia-Stato. Un biglietto che assieme al carteggio allega ­to agli atti racconta la storia di un agente di polizia penitenzia ­ria, Pasquale Campanello, ucci ­so tra i brindisi dei detenuti ca ­morristi, mentre sullo sfondo lo Stato si accordava con la mafia.

UNA STORIA che inizia in Campania: è l’8 febbraio 1993 quando due killer camorristi con 14 colpi di pistola cancellano, a Torrette di Mercogliano, in pro ­vincia di Avellino, la vita Campa ­nello, in servizio a Poggioreale, dove, nel padiglione “Venezia” quella stessa sera i boss rinchiusi al 41-bis brindano con spumante all’omicidio. Un delitto “spar ­tiacque” nella storia della “trat ­tativa” tra Stato e mafia, che mo ­stra, più di ogni altro evento, il doppio volto dello Stato pronto per la prima volta ad alternare pugno di ferro e concessioni carcerarie imbarazzanti. Dagli atti del processo romano, infatti, salta fuori un carteggio che racconta l’atteggiamento di funzio ­nari di polizia e ministri di fronte alla ferocia camorrista in un con ­testo in cui la trattativa correva sotterranea nei dialoghi tra Stato e criminalità organizzata. La scansione degli eventi parte pro ­prio da quell’omicidio, che cade a cavallo dell’avvicendamento al ministero della Giustizia tra Claudio Martelli e Giovanni Conso, suo successore. Subito dopo l’omicidio Campanello, Niccolò Amato piomba a Poggioreale e invia un appunto al Guardasigilli Martelli: “Essendomi recato nel ­l’istituto di Poggioreale subito dopo il barbaro omicidio – scri ­ve Amato – ho potuto constatare i sentimenti di costernazione e preoccupazione del personale (…) e la diffusa richiesta generale di immediati e adeguati inter ­venti sulle cause di fondo degli attuali disagi e difficoltà dell’am ­ministrazione penitenziaria”. Così, per i detenuti al 41-bis, Amato propone di mostrare il pugno duro: riduzione dei colloqui, le te ­lefonate, i pacchi e l’ora d’aria per i detenuti pericolosi. E il giorno dopo, il 9 febbraio ’93, Martelli emette il decreto con le restrizioni. È l’ultimo decreto fir ­mato dal ministro che si dimette tre giorni dopo: a via Arenula ar ­riva Conso. Fuori dal carcere, in ­tanto, la tensione sociale cresce. Il 12 febbraio si riunisce al Vimi ­nale il Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica, Parisi e Mancino, sostiene Amato, premono per l’attenuazione del carcere duro. Qualche gior ­no dopo in un documento del 17 febbraio i familiari dei detenuti chiedono che i loro parenti siano “trattati civilmente, non come carne da macello”. E a questo punto arriva la svolta, cambia la politica del carcere duro: il que ­store di Napoli, Umberto Impro ­ta, il 20 febbraio invia un primo fax “urgentissimo” al ministero di Grazia e Giustizia proponen ­do di attenuare il rigore del prov ­vedimento per “stemperare ten ­sioni all’esterno del carcere”, come si legge nel docu ­mento inviato. La richiesta viene immediatamente accolta da Conso che revoca il decreto del 9 febbraio firmato da Martelli, facendo tutta ­via eccezione per i re ­parti di Poggioreale denominati “Torino” e “Venezia”, e per i re ­parti “T1” e “T2” di Secondigliano. E ne dà notizia alla stampa con un co ­municato: “La decisione del ministro nasce dalla constatazione che, nel periodo di vigenza del decreto che imponeva le restrizioni generali, i detenuti hanno mantenuto un comportamento regolare”.

E subito dopo arriva l’appunto scritto a mano da Niccolò Amato e inviato a Conso. Poche righe che, da come scrive Amato, anche Nicola Mancino (indagato a Palermo per falsa testimonianza nell’am ­bito della trattativa) avrebbe let ­to, tramite il suo capo di gabinet ­to Raffaele Lauro. Interpellato da Il Fatto, Niccolò Amato spiega: “Nel mio primo appunto ho pro ­posto a Martelli di fare le restri ­zioni. Poi la revoca di Conso fu fatta non a seguito di una mia propo ­sta. Questo biglietto autografo al ministro è la conferma che la revoca è stata fatta al di là di ogni mia volontà, e su proposta di Improta. Si tratta di un atto amichevole che io inviai a Conso per informarlo che su sua richiesta avevo mandato la revoca anche a Lauro perché non potevo inviar ­lo direttamente a Mancino.”

POI AMATO ricorda un episo ­dio in particolare, di cui ha par ­lato durante un interrogatorio anche Paolo Falco, numero due del Dap in quegli anni, a Gabriele Chelazzi, pm che indagava in passato sulla Trattativa. “Falco racconta di una discussione ve ­race tra me e Conso. Io infatti mi lamentavo quando chiedevo a Conso di applicare il 41-bis, e Conso spesso interpellava Man ­cino. Io ritenevo che non era di competenza del ministero del’interno” .

L’ordine pubblico è salvo, le ten ­sioni rappresentate dal questore si allentano. In un secondo fax inviato sempre il 20 febbraio a via Arenula, Improta aveva raccontato di un in ­contro con i familiari dei detenu ­ti che hanno “rappresentato un profondo stato di disagio corre ­lato alle limitazioni poste in am ­bito dei rapporti tra i detenuti e i loro coniugi, evidenziando che le restrizioni colpiscono tutti i 2600 detenuti ingiustamente ri ­tenuti oggettivamente responsa ­bili per l’omicidio premeditato ai danni dell’agente Campanel ­lo”. Del quale non sono mai stati scoperti né mandanti, né killer.

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Qui l’articolo coi documenti


La verità di Bertolaso. «Ecco cosa vi nasconde Repubblica »
di Barbara Romano
(da “Libero”, 9 agosto 2012)

Guido Bertolaso pone una sola condizione a Libero per rila ­sciare l’intervista. La stessa dettata a Sette e al Fatto Quotidiano: «Che si parli pure del Cuamm, l’ong di medici con la quale lavoro in Afri ­ca e che merita la massima consi ­derazione per la missione che svolge qui da oltre sessant’anni ». L’ex capo della Protezione civile si trova da due mesi a Sud del Sudan, dov’è tornato al suo primo mestie ­re: il medico. Professione che oggi esercita principalmente per de ­bellare la malaria, nell’ospedale materno-infantile di Yrol, dopo averlo ristrutturato e intitolato a Beniamino Andreatta («uomo po ­litico che stimavo e a cui volevo molto bene »). Ma è nella Cambo ­gia di Pol Pot, tra il 1980 e il 1983, che Bertolaso iniziò a indossare il camice bianco, dopo essersi spe ­cializzato in Inghilterra in malattie tropicali.

Lei ha detto che era Napolitano il suo referente, non Berlusconi. Che rapporto c’era tra lei e il capo dello Stato?

«È dai tempi di Pertini, quando con il suo “fate presto” rimproverò i ritardi delle istituzioni nei soccor ­si alle vittime del terremoto in Irpi ­nia ne11980, che la Presidenza del ­la Repubblica dimostra, ad ogni grande catastrofe, un interesse immediato, diretto, partecipato alle vicende della Protezione civi ­le. È accaduto anche con la trage ­dia dell’Aquila. Credo vi sia un feeling fisiologico tra Protezione civi ­le e Quirinale ».

Da cosa deriva?

«Dal fatto che il Presidente della Repubblica rappresenta al som ­mo grado l’unità del Paese, il suo essere Patria di tutti. E queste di ­mensioni condivise del nostro es ­sere italiani sono le risorse di base del nostro sistema di protezione civile, che organizza la mobilita ­zione collettiva di tutti in favore delle vittime di ogni singolo gran ­de disastro ».

La procura di Firenze ha intercet ­tato due telefonate tra lei e Napolitano. Di cosa parlaste?

«Come ovvio, di terremoto. Il Pre ­sidente si rivolgeva al capo della Protezione civile per seguire le vi ­cende fin dalle prime ore dopo l’accaduto, si informava su come andavano i soccorsi. Di telefonate ce ne furono ben più di due. Lui si confrontò con me anche per pia ­nificare la sua visita alla popola ­zione delle zone terremotate. Era preoccupato di non intralciare in alcun modo l’ attività di soccorso ».

Su quelle telefonate il Quirinale non ha chiesto il silenzio, mentre su quelle palermitane sì. Lei che spiegazione si è dato?

«Sul Quirinale, non credo ci sia spazio per grandi retroscena: semplicemente, non si chiede il si ­lenzio a uno che sta zitto ».

E, secondo lei, perché tutti hanno preferito stare zitti e non pubblica ­re le sue conversazioni con Napoli ­tano sebbene lui non abbia posto alcun veto?

«La risposta l’ha data la procura di Firenze. In un articolo comparso solo sull’edizione locale, Repub ­blica riporta una dichiarazione della procura che spiega di aver sospeso le intercettazioni delle mie telefonate, comprese quelle con il Capo dello Stato, tre giorni dopo il sisma del 6 aprile all’Aquila perché «l’indagato parlava solo delle sue attività legate all’emer ­genza terremoto »! La procura af ­ferma di non aver neppure sbobi ­nato quelle conversazioni, che so ­no in un cd rom ».

Ma lei è sicuro che Repubblica le abbia quelle conversazioni?

«Certo che ce l’ha. Ma la linea è stata quella di pubblicare solo gli spezzoni di telefonate utili a sostenere la tesi della mia appartenen ­za alla “cricca”, non quelle che la contraddicono ».

Per esempio?

«C’è un’intercettazione dei fratelli Anemone in cui uno dice: “Berto ­laso ci ha rovinato, ci ha tolto 50 milioni di euro, sono finito ». E l’al ­tro risponde: “Questa è una porca ­ta, adesso andiamo noi da Santoro a fare casino contro Bertolaso”. Ma ce n’è un’altra ancora migliore che Repubblica si è tenuta nel cas ­setto. Se vuole gliela dico ».

Vada.

«L’ex procuratore aggiunto di Ro ­ma Achille Toro, condannato per aver avvertito alcuni indagati dell’inchiesta sui Grandi eventi, alla sorella che gli chiede se ero coinvolto anch’io, risponde: “Ber ­tolaso non c’entra un cazzo eppu ­re lo hanno messo in mezzo lo stesso”. È evidente che Repubblica ha usato lo stesso criterio della procura, giudicando queste inter ­cettazioni di nessun interesse per sostenere la tesi della mia pretesa colpevolezza. Quindi le ha buttate nel cestino ».

Ok, ma perché la procura avrebbe smesso di intercettarla?

«Non riesco a capire il perché di quella sospensione nelle intercet ­tazioni, proprio nel momento in cui, secondo il teorema dell’accu ­sa che mi vuole a capo della “cric ­ca”, disponevo di soldi e poteri co ­me mai prima e potevo, quindi, fi ­nalmente “delinquere” a man bassa. I magistrati di Firenze ave ­vano già ascoltato la telefonata di Piscicelli, quello che rideva del ter ­remoto. Se davvero mi ritenevano colpevole, avrebbero potuto im ­maginare che finalmente era arri ­vato il momento per beccarmi col sorcio in bocca. Invece no, stop-pano tutto ».

Un’idea su ciò che può aver spinto gli inquirenti a tale scelta se la sarà fatta…

«Decidono di sospendere le intercettazioni perché parlavo solo del mio lavoro. Perché se avessero continuato ad intercettarmi, i ma ­gistrati non avrebbero trovato al ­tro che nuovi elementi per avere conferma che i teoremi accusatori erano del tutto campati in aria. Mi pare non sia peregrino il dubbio che mi viene circa i reali motivi dell’indagine e dello spazio dato da alcuni media a tutte le dicerie su di me ».

E quali sarebbero i motivi?

«L’obiettivo era colpire la persona che aveva messo in piedi una struttura straordinaria come quel ­la Protezione civile, e poi smantel ­larla perché dava fastidio, era troppo attiva, troppo presente e ingombrante per quelle che sono le dinamiche di un Paese come il nostro. Ma gli elementi per capire la mia innocenza c’erano già tutti dall’inizio. Alcuni, contenuti in te ­lefonate acquisite e mai rese pub ­bliche. Solo il processo, quando avranno la bontà di celebrarlo, può dimostrare la mia totale estra ­neità alle accuse ».

Il direttore di Libero, Maurizio Bel ­pietro, ha rivolto sei domande a Repubblica sulle sue intercetta ­zioni. Secondo lei, risponderà?

Risata. «Quando nel 2010 quel quotidiano mi attaccò dicendo che ero un corrotto, Eugenio Scalfari mi pose dieci domande su tut ­te le mie presunte malefatte e io gli risposi dopo sei ore, perché sono una persona trasparente, non ho nulla da nascondere. Repubblica, invece, qualche piccolo sche ­letro da nascondere sul mo ­do in cui ha trattato la mia vicenda ce l’ha. E temo che duran ­te la pausa estiva cercherà di far passare nel dimenticatoio le do ­mande di Belpietro. Io spero, inve ­ce, che rispondano e facciano ve ­dere cos’hanno in mano ».

A Monti il presidente della Repub ­blica ha affidato la guida del Paese. A lei quale mission aveva dato?

«Il Capo dello Stato ha responsa ­bilità costituzionali precise per quanto riguarda i governi, non ne ha sulla nomina di un funzionario pubblico a capo della Protezione civile e perciò non può affidare nessuna specifica mission al capo del dipartimento. Può, invece, aspettarsi molto dalla Protezione civile, che nei momenti di gravi emergenze rappresenta la faccia dello Stato che si mostra alle per ­sone colpite e all’opinione pubbli ­ca. Ciò che viene fatto bene è a vantaggio di tutte le istituzioni, gli errori diventano ombre sull’ope ­rato di tutto lo Stato. A questo il Presidente della Repubblica era ed è molto sensibile ».

Vi siete sentiti di recente con Na ­politano?

«Non sento il Presidente da tem ­po, da quando sono pensionato ».

Il capo dello Stato le ha espresso solidarietà o rimproveri riguardo il suo coinvolgimento nell’inchie ­sta sulla cricca?

«So che la vicenda nella quale so ­no stato tirato per i capelli non gli ha certo fatto piacere. Non ho rice ­vuto messaggi di solidarietà: cosa che sarebbe stata impropria, visto che il Presidente della Repubblica è anche il capo del Csm e sarebbe ben strano se, a fronte di un’inizia ­tiva della magistratura, lui espri ­messe solidarietà a un indagato o a un imputato, quale sono io in questo momento. Ritengo sia ob ­bligato dal suo ruolo e dalla sua funzione a stare in silenzio fino a che la stessa magistratura non si esprimerà sulla mia vicenda in modo definitivo, sanzionando uf ­ficialmente la mia estraneità alle accuse costruite contro di me ».

Quindi lei dà per scontata la sua assoluzione.

«Considero la completa assolu ­zione “perché il fatto non sussiste” l’unico esito possibile di questa storiaccia, nonostante il parere espresso dai media. E sono certo che quando questa sentenza arri ­verà, al Presidente farà piacere ».

Con chi è rimasto in contatto in Italia?

«Con molti amici veri, che sono molti meno di quelli che si dichia ­rerebbero tali se io non fossi im ­putato. Le disgrazie aiutano a ca ­pire anche la qualità delle persone che frequenti. A far selezione, a sgombrare il campo dalle presen ­ze che mettono su la maschera dell’amicizia, ma sono attirate so ­lo dalla posizione che ricopri nel momento del favore, quando le cose vanno bene. Rimango in contatto anche con le persone che leggono periodicamente il mio si ­to e seguono le mie attività. Non sono pochi e spesso sentono il bi ­sogno di sostenermi, di esprimer ­mi la loro stima e la loro partecipa ­zione. Rappresentano per me una grande fonte di energia e di forza, e li ringrazio per la costanza nel tra ­smettermi la loro vicinanza ».

Con Berlusconi vi sentite?

«Col presidente Berlusconi ho mantenuto rapporti diretti. Prima di partire abbiamo parlato di Afri ­ca e di possibili progetti. Quando torno gli riferirò della mia espe ­rienza qui. Avrò elementi nuovi e freschi per ravvivare il suo intendi ­mento ad operare nel campo della solidarietà e della sanità nei Paesi del terzo mondo. Sono sicuro che riuscirò ad interessarlo e a convin ­cerlo. Anche perché questa espe ­rienza mi è servita per riprendere la mano e a togliermi di dosso la ruggine prodotta dalle recenti questioni giudiziarie »

Quanto tempo rimarrà in Sudan?

«Fino alla metà di settembre ».

Che farà tornato in Italia?

«Con l’aiuto delle persone di buo ­na volontà che conosco, intendo mettere in piedi un grande movi ­mento che combatta lo scandalo mondiale della malaria, che nel Terzo millennio miete ancora mi ­gliaia di vittime, soprattutto tra i bambini. Un dramma che forse non ci preoccupa quanto lo spread o il Porcellum, ma che ha un valore infinitamente più im ­portante per la vita umana ».


“I pm di Palermo? Corretti. Avrei fatto la stessa cosa”
di Marco Lillo
(da “il Fatto Quotidiano”, 9 agosto 2012)

I pm della Procura di Palermo si sono comportati correttamente. Al loro po ­sto avrei agito allo stesso modo. Le in ­tercettazioni di Napolitano non anda ­vano distrutte d’ufficio e mi sorprende che solo Il Fatto e pochi altri sostengano questa tesi”. A parlare è Antonello Racanelli, con ­sigliere del Consiglio Superiore della Magi ­stratura in quota Magistratura Indipenden ­te: un moderato, non sospettabile di essere un amico della Procura di Palermo. È stato lui il pm che ha chiesto l’archiviazione per Silvio Berlusconi nel caso Saccà e che ha acconsentito alla distruzione delle telefo ­nate imbarazzanti del Cavaliere con le sue amiche in cerca di lavoro in Rai. Racanelli oggi però non si unisce al coro di chi dà ragione al presidente Napolitano: “Da so ­stituto procuratore – dice al Fatto – mi sono occupato più volte del problema della di ­struzione delle intercettazioni non rilevan ­ti e, se fossi stato al posto dei colleghi di Palermo, mi sarei comportato esattamente come loro. Il procuratore Messineo, In ­groia e Di Matteo hanno rispettato la legge. Inutile girarci attorno: la normativa attuale non prevede la possibilità di distruggere gli audio delle conversazioni del presidente con Nicola Mancino al di fuori dell’udienza davanti al Gip alla presenza degli avvocati delle parti e del pm”.

Alcuni giuristi, come Gianluigi Pellegrino, sostengono che il Presidente ha ragione e che le intercettazioni andrebbero distrutte applicando la Costituzione e l’articolo 271 del codice.

Quella norma non c’entra nulla: riguarda le telefonate dell’indagato con il suo legale, non è applicabile per analogia al Capo dello Stato. La Costituzione non si occupa delle intercettazioni indirette, ma so ­lo del divieto di disporre l’intercettazione del Capo dello Stato. L’interpretazione costi ­tuzionalmente orientata a cui lei fa riferimento merita rispetto, ma ho delle perples ­sità su questa tesi. A mio parere c’è una la ­cuna normativa e spetta al Parlamento col ­marla. Non può farlo il pm inventandosi una norma che non c’è o applicando un’altra norma che non c’entra nulla come il 271.

Il Fatto sostiene da tempo questa tesi nell’isolamento generale. Perché nessun costituzionalista ha il coraggio di farsi in ­tervistare per dire una cosa così ovvia?

Lei sa che le mie posizioni su molte questioni sono lontane anni luce dal Fatto. Devo dire pe ­rò con mia sorpresa che su questi aspetti mol ­te volte ho notato che siete stati gli unici a scri ­vere, magari con toni che non condivido (spe ­cie con riferimento alla persona del Presiden ­te), cose corrette dal punto di vista tecnico. Anche se alcuni giuristi come il professor Cor ­dero hanno scritto che la procedura seguita dai pm di Palermo è giusta, effettivamente non sono state tante le voci fuori dal coro. Anche l ‘Anm non ha brillato nel difendere i sostituti della Procura di Palermo sottoposti non a le ­gittime critiche, ma a pesanti accuse.

Come valuta l’intervento del Capo dello Stato nella questione del coordinamen ­to tra le procure che indagano sulle stra ­gi e sulla trattativa? La famosa lettera al Procuratore generale Ciani per imporre un coordinamento tra procure è un’ano ­mala invasione di campo su richiesta di un amico di Napolitano o è una normale attività del presidente?

Se il Presidente Napolitano è intervenuto co ­me Capo dello Stato nella mia qualità di com ­ponente del Csm posso solo esprimere ri ­spetto istituzionale. Ma se si è trattato, come alcuni hanno sostenuto, di un intervento nella qualità di Presidente del Csm, allora, secondo me, si pone un problema sul quale è opportuno riflettere con serenità e rispetto. Ritengo che se il presidente del Csm inter ­viene su una questione così delicata dovreb ­be interessare il Consiglio. Pur con il mas ­simo rispetto e con la massima stima per il suo insostituibile ruolo nella difesa dell’au ­tonomia e dell’indipendenza della magistra ­tura mi chiedo: perché il Presidente della Re ­pubblica, quando ha deciso di far scrivere al Pg della Cassazione, non lo ha comunicato a noi consiglieri del Csm?

Il Csm si occuperà del pro ­blema della distruzione del ­le intercettazioni. Le sem ­bra opportuno?

Dai giornali ho appreso dell’a ­pertura di una pratica sulle prassi e sulle linee interpretative corrette in materia, su richiesta del consigliere Nappi.
Non sono affatto d’accordo: non è compito del Csm dire ai pubblici ministeri e ai gip co ­sa è giusto fare nel merito delle decisioni. Mi sembra una china pericolosa: il Csm non è né il Parlamento né la Cassazione.

Nappi è di Md e altri esponenti influenti di Md come Nello Rossi hanno criticato pubblicamente nel merito l’inchiesta di Ingroia e Di Matteo.

In generale mi sembra inaccettabile che un magistrato critichi pubblicamente un altro magistrato nel merito delle sue indagini. So ­no rimasto deluso dal comportamento del ­l’Anm. La magistratura associata deve difen ­dere per principio un pm esposto ad attacchi molto forti, sia dall’interno della magistratu ­ra sia da esponenti politici, solo perché sta applicando la legge e sta svolgendo, nel suo libero convincimento, la sua funzione nel modo che ritiene giusto. A prescindere dalle idee che ciascuno può avere sul merito del ­l’indagine sulla trattativa, la nostra associa ­zione di categoria doveva difendere Ingroia e Di Matteo così come secondo me era giusto difendere il sostituto pg Iacoviello quando fu attaccato per la sua requisitoria al processo Dell’Utri.

Lei ha votato contro il collocamento fuo ­ri ruolo di Ingroia. Se tutti i consiglieri avessero fatto come lei, Ingroia non sa ­rebbe potuto andare in Guatemala.

È sicuro che sarebbe stato un male per la giu ­stizia italiana? Ed è sicuro che quello era dav ­vero il desiderio più profondo di un magi ­strato appassionato come Ingroia? Il mio ti ­more è che abbia deciso di fare questo passo proprio perché ha sentito l’isolamento crea ­to anche all’interno della stessa magistratura ed è questa la novità che mi preoccupa.


La Giustizia, la Politica e la Ragion di Stato
Lettera di Antonio Ingroia al Corriere della Sera – 9 agosto 2012

Caro direttore,
da lettore assiduo del suo giornale non posso non manifestarle la mia preoccupazione per il fatto di leggervi le (imbarazzanti) sciocchezze e gli (intollerabili) insulti che il signor Ostellino da un po’ di tempo mi riserva (da ultimo sabato scorso) in materia di politica e giustizia. L’ultima carineria è stata la qualifica di ignorante. Purtroppo è proprio Ostellino a ignorare i fondamentali della questione: continua a scrivere di «supposta » trattativa Stato-mafia, così inopinatamente ignorando le sentenze, ormai definitive, pronunciate dalle Corti di mezza Italia, da Firenze a Caltanissetta fino alla Cassazione, peraltro riportate da articoli di questo stesso giornale. E l’ignaro Ostellino ignora anche la Costituzione, perché nel (penoso) tentativo di difendere privilegi indifendibili in uno Stato democratico arriva a teorizzare il principio di diseguaglianza davanti alla legge sostenendo che i coimputati del medesimo reato non dovrebbero essere processati insieme se appartenenti a categorie diverse, i mafiosi di qua, gli uomini dello Stato di là. Riemerge la tesi da ancien régime dei due codici: quello dei «galantuomini » e quello dei «briganti ». Anzi, i primi non andrebbero giudicati, e per giustificare l’ignobile privilegio Ostellino scomoda la Ragion di Stato ed una sequela di nomi illustri del pensiero (un po’ fuori posto quello di Kissinger accanto a Hobbes e Machiavelli…), ma ignora il vero teorico della Ragion di Stato, Giovanni Botero: che la dimenticanza dipenda dal fatto che Botero già nel 1589 raccomandava ai governanti di temperare l’uso spregiudicato della Ragion di Stato con il rispetto della giustizia? E non solo: Ostellino ignora secoli di elaborazione del pensiero liberale da Locke a Tocqueville sui limiti che in uno Stato di diritto la Legge impone all’arbitrio della Ragion di Stato, tipica dell’assolutismo. E in un crescendo di apologia del dispotismo del Potere Sovrano, la furia argomentativa di Ostellino approda al paradosso di ritenere autorizzata la menzogna davanti al giudice, equiparata alla liceità della menzogna di chi deve salvare la vittima (che confonde con l’imputato) dalle grinfie del suo assassino (che confonde con il giudice). Le sciocchezze fanno male, ma fa male anche questo modo spicciolo e offensivo di fare polemica. E meno male che l’ignorante sono io…

Antonio Ingroia
procuratore aggiunto di Palermo

Non penso di aver insultato il signor Ingroia dubitando non sapesse che cosa sia la Ragion di Stato. Piuttosto è lui che insulta non solo me, ma il senso comune, identificando la verità processuale con la verità storica. Se ricordo bene, l’inchiesta sulla (supposta) trattativa Stato-mafia avrebbe la funzione â— nelle sue parole â— di «ripristinare la verità su un periodo della vita del Paese ». Come se fosse compito della magistratura (ri)scrivere la storia… Io ho definito «supposta » la trattativa fra Stato e mafia in omaggio a quel tanto di relativismo e di scetticismo che David Hume ha posto a fondamento della cultura liberale. Diciamo, allora, che il signor Ingroia pare voler definire gli ambiti e fissare i confini della Ragion di Stato, mutuandoli dal «segreto di Stato ». Per esempio quando si rivolge al mondo della politica affermando: «Diteci quali sono i temi e i territori coperti dalla Ragion di Stato, sui quali non volete che la magistratura intervenga; e noi li rispetteremo ». Secondo il signor Ingroia ci sarebbero, dunque, zone tutte bianche e zone tutte nere. È nelle zone nere che si sarebbe esercitata, nel passato, a suo avviso, la Ragion di Stato. Se, invece, la Politica dichiarasse ora, «preventivamente », che le zone nere sono coperte dal segreto di Stato, le cose andrebbero meglio: perché anche quelle nere diventerebbero bianche. Attenzione, signor Ingroia, lei confonde, e inverte, l’ordine dei fattori. È la Ragion di Stato, una (permanente) categoria della Politica, che genera il segreto di Stato, una categoria giuridica (contingente), non viceversa. A me pare, perciò, che la sua proposta abbia (solo) un duplice obiettivo. E di quelli che la Politica «non può accettare », senza dichiararsi esplicitamente legibus soluta. Mira ad assolvere, contemporaneamente, la magistratura dalle derive giustizialiste dell’obbligatorietà dell’azione penale, nelle pieghe delle quali â— con l’inchiesta sulla (supposta) trattativa Stato-mafia â— è finito addirittura il presidente della Repubblica, indotto ad appellarsi (giustamente) alla Corte costituzionale. Fuor di metafora, ciò cui il signor Ingroia tende â— sulla base di una interpretazione parziale e bigotta della «realtà effettuale » â— è, sotto il profilo istituzionale e funzionale, la «giuridicizzazione » della Politica, cioè la sua subordinazione all’idea che egli ha del Diritto e la fine dell’autonomia della Politica rispetto al potere giudiziario. Nello Stato pre-moderno, il potere politico era legibus solutus, non rispondeva che a se stesso. Si era nell’arbitrio assoluto: la Società civile ubbidiva a precetti religiosi cui si ispiravano anche le leggi dello Stato; l’Etica era quella della Chiesa alla quale sottostavano l’imperatore e i sovrani regnanti. Con la nascita dello Stato moderno, l’ingresso della Società civile nella Modernità e la secolarizzazione della cultura politica e dell’Etica, la «teoria dei distinti » è la fonte sulla quale si fonda il Costituzionalismo e la condizione storica nella quale si è realizzata la democrazia liberale. Ma non per questo è scomparsa la Ragion di Stato, come il signor Ingroia vorrebbe far credere.


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Bart