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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Cicognani, Bruno

7 Novembre 2007

La Velia

“La Velia”

Edizioni Polistampa, pagg. 240. Euro 14

L’autore, che fece uscire la sua opera nel 1923, è di quelli che scrivono “ha” e “ho” senza la acca e con l’accento (à; ò), e ci si può innamorare di questo uso che ha il sapore dell’antico e che oggi più non si trova se non forse in qualche vezzo bizzarro. Che è scrittore toscano, di quella razza cioè che ha arricchito il nostro idioma, lo si sente sin dal principio, senza alcun bisogno di spiare la sua carta d’identità. Parole dell’uso popolare entrano nella scrittura lisce come la chiave nella sua toppa, e proprio come la chiave aprono le porte al piacere della lettura.

C’è sin dall’inizio un frase significativa della capacità di Cicognani di osservare minutamente la realtà e riferirla, ed è quella che riguarda la morte di Luigi, detto il Biondo, il padre di uno dei protagonisti, Beppino, “quel figliolo chiuso, che covava tutto dentro”. Vicino a spirare “aveva di già cominciato a far con le mani quel verso sulle coperte di chi ormai se ne va”.

Ho assistito, purtroppo, a più di un’agonia di miei familiari per non cogliere questo particolare. Muovono le mani, i moribondi, spiccicando le coperte, le raggrinziscono, quando con gli occhi chiusi, quando con gli occhi aperti perduti nel vuoto o chissà dove. Poi ad un tratto alzano una mano e pare che vogliano toccare qualcosa nell’aria che è intorno a loro. Mi son sempre chiesto se in quegli istanti essi davvero vedano qualcosa o qualcuno. Sono gesti continui, che hanno poi un intervallo, per riprendere allo stesso modo, e tu che sei al capezzale ti rendi conto che ormai quell’essere che ti è stato vicino per tanto tempo, non è più con te.

Beppino Biagini è un giovane che troppo presto si è dato al bere. È un buon partito perché il padre lo ha lasciato ricco e lo zio Giuseppe, detto l’Orso, scapolo, che vive in famiglia, lo è ancora di più.

Annina, la madre rimasta dunque vedova, fin troppo grassa, fa fatica a muoversi per casa, così, ad un certo punto, c’è bisogno di una domestica e viene chiamata Nastasìa, una “furba matricolata”, che ha una figlia, Velia, che fa la sarta, e di lei presto c’è bisogno per cucire e rammendare. In quella casa ingrugnita e silenziosa, la giovane “portò una grande mutazione come il primo sole caldo rianima un groviglio di biscie intirizzite.”

L’autore imprime nella descrizione delle sere trascorse a tavola nella famiglia, e accanto alla stufa, tutto il sapore che tali cose avevano sul finire dell’Ottocento, quando la cucina era appena rischiarata da un lume a petrolio e dai bagliori del fuoco: “sentivano, senza saperlo, il piacere d’essere a cena, con la stufa accesa, mentre fuori durava l’inverno e per le nuove strade deserte la luna faceva più freddo che mai”.

Le descrizioni sono il piatto forte di questo autore, molto sensibile e attento, che vi trasferisce sempre quella profonda, sotterranea coscienza che fa dell’uomo il mistero più affascinante, e forse ambiguamente amato, della natura: “La natura vuole la vittima e la fa più bella che può per il sacrificio.” Leggete questa descrizione delle ombre che si formano intorno a noi, quando si passeggia sotto la luna: “sembrò tutto perso a guardare le ombre che al gelido e silenzioso lume di luna, sul marciapiede che risonava, crescevano dai loro piedi e s’allungavano assottigliandosi fino a sparire e allora ricominciavano dietro, daccapo.”

La furba Nastasìa, che si rivelerà in seguito meno spietata della figlia, non pensa che ad accasarla, e quale partito migliore di Beppino? Così, poiché questi soffriva sempre più di mal di capo, ecco che lei sentenzia: “Ci vuol di molto a capire? í€ bisogno di moglie. La troppa astinenza richiama il sangue ingrossato al cervello.” Scrittura sapida, questa di Cicognani, e senza incertezze quando cola giù nell’inchiostro espressioni che nascono e fermentano nel popolo, per non dire delle numerose parole che son quasi scomparse: “sizio”; “trucia”; “arzente”; “nocchiuto”; “pretto”; “sfilaccicato”; “parletico”, “scompannava”; “suzzata”; “nocchio”; “ciaccolaio”; “cianume”; “incotto”; “stranguglione” e via di questo passo, con le quali si potrebbe comporre un interessantissimo vocabolario.

Si mette perfino a colloquiare con Beppino, quando questi, morto pure lo zio di tifo, si ritrovò sgomento e inesperto ad essere responsabile di cave, cantieri, fornaci, fabbriche, insomma un patrimonio enorme di cui avrebbe voluto volentieri fare a meno.

Questo, dell’interferire col personaggio di turno, come a volergli entrare nell’anima, che è una delle caratteristiche del romanzo, dà alla scrittura una certo eco pascoliana, che si ritrova ogni tanto: “è una parte di te che s’illumina e vibra, la cosa che vedi: era in te e l’ignoravi, e in quel riconoscersi l’anima trema al soffio del suo mistero.”, oppure: “Ella salì, svegliando gli scalini di legno.”

Ci sarà subito, vedrete, chi approfitterà della ignoranza e dabbenaggine di Beppino, così come vogliono le regole non scritte di questo mondo, e darà modo all’autore di descrivere con brevi tratti personaggi a tutto tondo come il ragioniere Gattai, ad esempio, o il notaio “un vecchio con la papalina e in pantofole, tutto tabaccoso, che strascica i piedi facendo dieci passi su un mattone.”, o Sciabolino che, nella sua ubriacatura, sa leggere nell’animo di Beppino meglio dei savi: “Segno che ci ài un altro, dentro, anche te”. O la sciantosa del Caffè Trianon, o lo scritturale del fallimento. Oppure situazioni delicate come quella relativa all’impotenza sessuale di Beppino che da ragazzo aveva: “la sensibilità così tenera, il piacere così a fior di nervi che non avrebbe resistito alla vista d’una donna che si scoprisse il petto.”

Usciti dal romanzo il babbo e lo zio, rapidamente si delinea il nuovo scenario, che vede sorgere una figura destinata a crescere e a recare scompiglio, quella dell’ingegnere Soldani-Bò, che cerca di mettere le mani sul patrimonio di Beppino, sul quale si è precipitata l’ambiziosa e sensuale Velia, che è diventata la sua fidanzata, ma ha già posato gli occhi sull’ingegnere. Il dramma che sta preparandosi appare già delineato, ed è subito incombente: “Una domenica, l’ingegnere aveva invitato la Velia a salir su”, ossia a salire sull’elegante calesse con il quale la portava in giro fino a Fiesole. L’avvicinamento è lento, atteso, e il Cicognani sa farci aspettare, intrattenendoci piacevolmente.

È il caso del matrimonio, anzi dello “sposalizio”, tra Beppino e Velia, che dà modo, fra l’altro, all’autore di regalarci una descrizione della cerimonia e della prima notte trascorsa dagli sposi memorabile per semplicità ed efficacia, e in cui ci avverte: “Ma gli occhi dell’ingegnere ogni tanto s’incontravano con quelli della Velia”. E ancora: “Ah, l’altro. Ella non s’aspettava d’averlo tanto con sé: presenza vista con gli occhi interiori per cui non c’è riparo.” L’impotenza manifestata da Beppino farà il resto.

Velia, dunque, si assesta sin da queste prime mosse al centro del romanzo; la sua figura, entrata come sartina nella casa della ricca famiglia Biagini, principia ad ingrandirsi e sue, nel bene e nel male, sono le scelte, tutte dettate dal desiderio di acquistarsi un agio dovuto alla sua bellezza “che faceva voltar tutti gli uomini addietro”, mentre di dolore, di tristezza e di solitudine si vestono a poco a poco il povero Beppino “diventato più chiuso che mai”, “con un’ombra dentro sempre più fonda”, che si rifugia nell’alcool e Annina, sua madre, la “più abbandonata, in terra, fra tutte le madri.”, la cui morte verrà descritta con pagine asciutte ed eleganti. Altre belle descrizioni riguarderanno la gita sulla diligenza di Zulimo, che fa il suo servizio tra i vari paesi del circondario; le “squallide case di San Marco Vecchio e di Lapo”, nonché la villa della Saletta e la nevicata all’uscita del Caffè Trianon, e l’ospedale di Firenze.

Nell’avviarsi a tratteggiare l’esplodere di una violenta passione tra Velia e l’ingegnere, al quale, come fosse il suo primo amore, “leggermente tremava la bocca”, mentre la donna “si divertiva, con un punzecchiamento di eccitazioni capricciose e penetranti, a portare l’orgasmo di lui fino al parossismo”, l’autore lascia piccole tracce di un decadentismo, di un dannunzianesimo, che hanno permeato di sé la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, e dal quale forse non era facile liberarsi, e riemergeranno ogni tanto, ma la scrittura ancora si regge su quella creatività e vivacità semantiche che Cicognani eredita come toscano.

È pericoloso “a cinquant’anni sonati”, tanti ne ha l’ingegnere, innamorarsi di una intraprendente e bella ragazza come Velia. Si rischia di rimanerne invischiati. La Velia, poi, ha una giovinezza possessiva, indomita (“Non c’è nessuno, capisci, nessuno che sia capace d’incatenarla, la Velia”) e scanzonata, di bimbetta furba e avida, perversa, diventata grande: “l’amore con una vita di penitenza e di stenti non sono mai stata buona a figurarmelo: ò sempre visto che dove entra la miseria l’amore scappa”. Eppure il Soldani-Bò, che alla sua età è ancora scapolo, ha speso tutta la sua esistenza ad arricchirsi profittando di uomini improvvidi, di cui seduceva le mogli per aprirsi la strada al loro patrimonio, ma “era venuto il momento, per lui, di scontare: nel modo come fa la vita scontare.” Non si sfugge alla giusta punizione, quando si compie del male. È, questa, la lezione morale che comincia a delinearsi nel romanzo, che si fa turbinoso e cupo e ci ricorda certe atmosfere tribolate e tragiche di Zola (la stessa Velia, è stato detto, richiama alla mente la sua Nanà), in cui il principio di una storia contiene già il suo triste destino. Ma anche ricorda, in talune situazioni finali, il “Professor Unrat” (conosciuto come “L’angelo azzurro”) di Heinrich Mann, che è del 1905, nei due personaggi principali: il professore e la cantante Rosa Fröhlich.

L’ingegnere che diviene l’amante tormentato di Velia, a poco a poco si fa simile, nei lutti e nel degrado della vita, attraverso questo amore, non solo al professor Unrat, ma altresì allo sventurato Beppino, di cui arriva perfino ad invidiare il chiuso abbrutimento: “E più consumante che mai era l’insoddisfatto desiderio.”, e più avanti: “si vedeva bene che i baffi eran tinti, e il tremolare delle gote flaccide… Nell’umiliazione veniva a galla tutta la miseria del disfacimento.”, “Invidiava Beppino”, sottolinea l’autore.

Protagonisti, questi, che a poco a poco si allontanano, s’inceneriscono, e spariscono nel nulla per poi ricomparire più vividi che mai. Ciò vale, in particolare, per Nastasìa, per l’ingegnere, per Beppino, e per la stessa Velia, i quali tutti, Cicognani è riuscito a scolpire nella nostra memoria con lo stesso peso e la medesima efficacia. Risultato non da poco, mi pare. Il romanzo, che si svolge, come si è già detto, negli ultimi anni dell’Ottocento, ha, dunque, pochi personaggi e si muove quasi interamente dentro la casa di Beppino, e la concentrazione degli avvenimenti all’interno di un’ambientazione assai circoscritta contribuisce a dar loro quel connotato di ineluttabilità, che trasforma la vita in un peso ignobile e spaventoso, dentro una solitudine difficile da riscattare, giacché “i soli che si meraviglino dello sviluppo logico dei fatti son quelli che li vivono.”


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Bart