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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Bufalino, Gesualdo

7 Novembre 2007

Diceria dell’untore
Le menzogne della notte

“Diceria dell’untore”

Bompiani, pagg. 190, Euro 7,23

Sono queste le parole che meglio tratteggiano e ci fanno conoscere il Gran Mago: “siamo solo miliardi di calcoli nel rene di un corpacciuto animale, la sua colica senza fine”. Il Gran Mago, “orbo e bizzoso Geronte”, silenzioso ma robusto, e quando verrà la sua morte, docile e indifeso protagonista, è il medico del sanatorio La Rocca, “livido colombario di pietra”, “vecchia tartana” da cui emana odore “di formalina e di soave putrefazione”, dove si trova ricoverato il protagonista, che ha un polmone tormentato “dall’invisibile camola che mi brucava in silenzio, sotto la mammella destra, in un punto che ormai conoscevo a memoria.” Dio (“Dio Mannaro”) e la morte sono i due misteri che legano la loro amicizia, e il medico, separato da una moglie “di spaventosa bellezza”, i primi tempi va a trovarlo “spesso, dopo cena” e i due si siedono sulla veranda a chiacchierare e a bere. Nella descrizione dell’ambiente desolato e cupo, da “vecchia tartana”, percepiamo i brividi e gli echi di quei versi che gridano: “O Morte o morte vecchio capitano/Ischeletrito stendi le falcate/Braccia e portami in stretta disperata/Verso le stelle”. Più che con “La montagna incantata”, si avverte, infatti, una affinità maggiore, di sostanza e di ispirazione, con il poeta Dino Campana, che meriterebbe qualche approfondimento. Anche con il dolore che nasce dai ricordi dei suoi sventurati, di cui scrisse Mario Tobino – un tenero Gran Mago, lui -, direttore di quella “vecchia tartana” che fu il manicomio di Lucca, vi è più di un’affinità.

Quei malati, reduci di guerra, rinchiusi nel sanatorio, umiliati da quei continui colpi di tosse, secchi “come uno sparo”, anelano alla vita; accolgono l’alba spesso seduti su di una panchina a piangere, e quando odono “il cigolio dei carri di zolfo in fila per la collina” che passano oltre il muro di cinta, si rizzano a vagheggiare “qualche guizzo di vita durante la via”. Oppure avvertono i nuovi rumori e il frastuono che fuori delle mura segnano la rinascita e la ricostruzione, dopo gli orrori della guerra appena terminata. Il dolore e la disperazione, e la “razione infallibile di dileggio e di pena”, quando sono mescolati alla speranza, non sono la morte, ma una lenta, ostinata, crudele agonia: “ogni istante era un affilato coltello di luce a cui offrivo pazientemente le mani.” L’attaccamento alla vita, quando essa minaccia di lasciarci, è l’occhio indagatore che ci fa scoprire le tenerezze di un’esistenza che abbiamo attraversato con occhi ciechi. Ne consegue un viluppo, un nodo di tristezza che è l’ultimo bastione della nostra dignità: “era già amore la passione con cui s’imparava la morte degli altri come se fosse la propria.” E queste morti – questo “albo di croci” – scorrono, sono lì, nel “vagone piombato”, e riguardano adulti e bambini, l’intero percorso, misterioso, imperscrutabile, della nostra vita: “Ed è poi così sicuro che sia suono la vita e silenzio la morte, e non invece il contrario?” La Rocca, questo ambiente nutrito da cascami di vita, diviene il luogo dove proprio la vita è più intensamente celebrata attraverso quelli che l’autore chiama “svolgimenti di degradazione”. L’amore, ad esempio (“un no alla morte”), che nasce, esplode inatteso, tra il protagonista e Marta, “la principessa”, “la ballerina”, “una delle più fradicie”, “Non la curano quasi più”, ha bagliori di desolata, solitaria e struggente intensità: “l’impaurirsi degli occhi ogni volta che la guardavo” e: “si accingeva a cancellare un’impronta”, e ancora: “una famelica solitudine che mi tossiva vicino”. Dirà il giovane studente Sebastiano, condannato come gli altri a morire: “Mi piacerebbe avere un figlio. Che dico? Una memoria qualunque in cui sopravvivere”, anche cercare un bambino per strada “per lasciargli una traccia lunga negli occhi”. La sofferenza e il presagio della morte (“le mie lumacature e polluzioni d’untore”, “spargere e ungere dappertutto la morte”, “attaccarsi un sonaglio alla caviglia”) sono anche la piccola finestra che si apre su Dio. Attraverso la figura dello sventurato frate Vittorio, con belle pagine a conclusione del capitolo VII, l’autore cerca di avvicinarsi a Lui, di immaginarlo “curvo, con lacrime e pietà, sul refuso immenso dell’universo, pronto a raschiare tutto per riprovare un’altra volta…” e di comprendere le ragioni di una “infetta divinità”. Dunque, è nella sofferenza, ancora una volta, la chiave per entrare in contatto con quelle verità inspiegabili che hanno tessuto e tessono continuamente, in un rinnovo dell’antico, l’ordito nascosto della nostra umana esistenza. Un contatto che non risolve mai, ma ci rende consapevoli di una germinosa architettura della quale facciamo parte. La stessa scrittura anticata, “archeologica” e impreziosita da rare parole e con “qualche trucco di crome”, di Bufalino pare nascondere, “ronzante caligine”, l’arcana profezia della nostra vita, con le sue costruzioni che trasudano fatica di esistere, complessità di pensiero, “grani di lenta insostenibile luce”, come quel sole che sorge nella torrida estate siciliana: “grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo.” E le parole che le compongono (“la mia diceria”), essudate di ricordi, sono radiografie che mostrano cavità e postème. Raro trovare una calligrafia come questa, ingioiellata di minute metafore (“sparpagliarmi le foglie dei capelli”, “Che rotonda moneta, lassù, la luna”, “l’acqua battere il suo mite alfabeto”), che si ammanta e riluce della sua propria sofferenza, allo stesso modo dei fantasmi di dolore e di sangue che sono i personaggi di questo libro, nei quali si nascondono, pur nell’angoscia, il sogno e la verità che intravediamo nelle parole di Marta, figura splendida e centrale del libro, allorché ricorda un lontano amante: “Mi consola pensare che in un raggio ancora in cammino c’è lui che mi bacia e mi parla, e che qualcuno in capo al cielo non sa ancora ch’è morto.” Tanto attaccata alla vita, questa infausta eroina, da gridare: “nei miliardi di secoli passati e futuri io non so trovare evento più importante della mia morte”.

È lo stesso amore che ha radici dimenticate ma profonde nel cuore del protagonista (“Sai tu cos’è una ragazzo del Sud nell’ora di mezzogiorno?”), al quale, a lui solo tra i personaggi della storia, miracolosamente guarito e sopravvissuto ai tanti altri (“io solo m’ero salvato”), toccherà in sorte questa splendida occasione: “riinnamorarmi di me”.

“Le menzogne della notte”

Bompiani, pagg. 160. Euro 6,97

Il romanzo (premio Strega) segue di sette anni, essendo del 1988, “Diceria dell’untore” (1981, premio Campiello) che dette notorietà allo scrittore di Comiso (Ragusa), morto nel 1996.

La prosa barocca ci accoglie sin dal principio, allorquando ci fa conoscere la fortezza erta su di uno scoglio (“Si dice isola e si dovrebbe dir scoglio”), dove sono imprigionati i quattro personaggi del romanzo, i quali, tutti colpevoli di “Lesa Maestà” (siamo al tempo dei Borboni) sono in attesa (“la festa dell’indomani”) della morte “mediante decollazione”: il barone Corrado Ingafù, Saglimbeni, “sedicente poeta” di cui nessuno conosce il nome di battesimo, il soldato Agesilao Degli Incerti, e lo studente Narciso Lucifora, “caldo di sensi ribelli contro qualunque potestà di terra e di cielo”, somigliante ad “un Ercole Apollo”. L’aspro odore della solitudine subito ci avvolge. Bufalino ha scelto di circondare di un afflato lirico il suo barocco, così da prepararci ad una conoscenza dei suoi protagonisti che un po’ li affranchi dalle loro colpe, e di cui profitterà anche la figura del Governatore della fortezza, Consalvo De Ritis, soprannominato “Sparafucile”, affetto da sifilide e orbo da un occhio che cela sotto una benda.

Costui vuol fare un ultimo tentativo per conoscere il capo dei quattro cospiratori, detto “Padreterno” giacché prima di andare a dormire recita il Padre Nostro; così entra nella loro cella e promette che saranno salvi se, consegnati loro quattro bussolotti, qualcuno vi vorrà inserire il nome vero del ricercato. Come premio saranno inviati tutti e quattro in esilio “nelle colonie argentine” e col tempo potranno far ritorno in patria, “e nessuno saprà chi ha tradito.”

È la prova di coraggio che attende i prigionieri, secondo quanto dichiara lo stesso Governatore, dopo aver ricevuto il loro disprezzo. Col piede, stropicciando a terra i loro sputi, li sfida: “Vero coraggio sarà respingere la tentazione quando nessuno vi guarda e siete soli nel silenzio della vostra coscienza”.

Scoprire chi siamo è, dunque, il tema del romanzo. Il Governatore li tenta: “Io oso credere, invece, che almeno uno di voi sarà saggio abbastanza per decidere di vivere”.

Già qui la figura del Governatore assume trascendenze che ne metaforizzano il significato: non è più colui che vuole ad ogni costo conoscere una verità, ma è la coscienza che si pone, non solo nei condannati, davanti a se stessa.

Frate Cirillo, un brigante così soprannominato, con il quale condividono l’ultima cella – più grande e pulita della solita – poiché anche lui destinato alla ghigliottina, suggerisce, infatti, di trascorre quell’ultima notte raccontando ciascuno di sé, “quando e come, in un discrimine della sua esistenza, sia stato per avventura, o si sia creduto, o altri l’abbia creduto felice.”

Il richiamo al “Decamerone” è esplicito da parte di frate Cirillo che non mancava mai, nelle sue grassazioni, di rubare per prima cosa i libri, che leggeva nelle ore di ozio.

Come nel celebre capolavoro, l’attesa della morte è la condizione che sollecita il riesame della propria vita: “dica ciascuno quel che crede meglio per dare agli altri e a se stesso scienza o menzogna di sé.” Nel Boccaccio l’attesa della morte è provocata dalla peste; qui, mentre i protagonisti raccontano, e fuori piove, si odono gli aguzzini prendere “un po’ di riposo per asciugarsi i panni ad un fuoco, indi tornare a ribadire con chiodi definitivi il patibolo.”

Comincia Narciso, lo studente, e parla dell’amore: “una combustione spontanea dell’anima che solo quando già lingueggia e divampa cerca fuori di sé l’essere dove appiccarsi.”, e “Solo dall’amore appresi il mio viso e mi conobbi persona.”

Lo stile di Bufalino si trasforma e si piega al modello boccaccesco con grande facilità. Ciò che prima aveva il segno barocco della dovizia e dell’ostentazione, ora si affina, si scioglie e ingentilisce nelle sobrie linee di un narrare che appartenne a quella tradizione, non solo toscana, che della scelta e del gusto della parola fece una scuola d’arte. In questi racconti c’è il Bufalino migliore, che ricorda la grazia e la bellezza della scrittura di “Diceria dell’untore”. Tra un racconto e l’altro, s’inseriscono degli intermezzi, così come, dopo il Boccaccio, si è continuato a fare nei secoli, a cominciare dal lucchese Giovanni Sercambi, fino al napoletano Giambattista Basile.

Il colera anche qui, come nelle opere della tradizione, fa la sua comparsa e ciò accade nel racconto del barone, che segue quello dello studente che ha narrato la sua notte d’amore con la bella Eunice. Il barone spiega come gli sia nata la paura dei temporali e risale all’infanzia, quando, per timore del colera, era considerata “sozzura qualunque cosa, finanche la posta che mi giungeva da fuori, stretta con due legacci, ed era passibile pur essa di quarantena, non meno d’una persona. Ciò può avermi colorato di nero la mente.” Questo orrendo periodo lo ha pervaso di malinconia e di vuoto. Si sente lontano da tutto, al contrario del suo gemello Secondino (nato mezz’ora dopo di lui, da qui il nome), che aveva fatto degli ideali della rivoluzione francese lo scopo della sua vita e morirà in un duello con un realista, nel bosco di Vincennes a Parigi, nel mentre infuria un violento temporale, sotto gli occhi del barone, che lo aveva raggiunto sperando di dare pure lui uno scopo alla sua vita. Quel temporale gli rimarrà impresso nella memoria e gli provocherà il terrore di cui soffre. La morte del fratello lo spingerà ad abbracciarne definitivamente gli ideali.

Lo sfondo resta per tutti il Risorgimento e la cospirazione contro il re borbonico nonché il desiderio della libertà, della giustizia e dell’uguaglianza portato in Europa dalla rivoluzione francese. Padreterno, di cui il Governatore vuole scoprire l’identità, è sempre presente nel ricordo dei quattro narratori.

Il soldato Agesilao, nato in seguito ad uno stupro subito dalla madre, una “commediante girovaga”, da parte di un cavaliere sconosciuto, viene consegnato alla ruota dei padri Caracciolini e allevato in quel convento. La madre gli lascia in eredità uno stiletto con il quale deve uccidere suo padre, una volta che sia riuscito a rintracciarlo. È questo l’episodio della sua vita che egli ricorda: il parricidio.

Ciò che ricorda, invece, il poeta Saglimbeni è una sosta presso la vedova di un duca, dalla quale viene curato per una ferita. Di quel periodo ha ancora viva la sensazione di assenza provata: “un simulacro di dormiveglia, una malavoglia e bonaccia del sangue, con rade minime gocce d’onde a sbriciolarsi senza rumore contro lo scoglio della coscienza.”

Il poeta è l’unico che fa una piccola variazione al racconto, introducendo un personaggio al quale affida l’incarico di compiere ciò che egli fece, ossia l’amore in una stalla con la vedova, che causò il suicidio del figliastro di lei.

È la fantasia che sempre si accompagna alla realtà.

Questo modo di avvicinarsi alla morte narrando gli episodi scelti – veri o immaginari che siano – della propria vita, produce l’effetto di un attaccamento ad essa ancora più desiderato e consapevole, cosicché nasce in tutti la tentazione di rivelare il nome di Padreterno, per conquistare di nuovo la libertà: “noi ch’eravamo sino a poc’anzi così sicuri e solenni.”

Anche frate Cirillo racconta la sua storia, e farà a tutti una sorpresa che non è il caso di svelare, se non che ci accorgiamo presto che non uno dei prigionieri si è servito della verità, bensì della menzogna, con la quale ha raggiunto i suoi fini. Ma davvero contano qualcosa questi fini, se noi uomini siamo “Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d’una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore nemico? Se così è, niente è vero. Peggio: niente è, ogni fatto è uno zero che non può uscire da sé. Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena”.

Sarà, questa, la conclusione disperata dell’ultimo protagonista.

Il romanzo è smarrimento, invocazione, grido, sconfitta, ma soprattutto negazione e annullamento di sé.

L’eleganza della scrittura ne fa un piccolo gioiello letterario.


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Bart