CINEMA: Antonioni: “Il grido”6 Agosto 2011 di Filippo Sacchi È un piccolo bravo Festival quello di Locarno. Coinvolto suo malgrado nel complicato conflitto commerciale che da anni si di batte tra noleggiatori svizzeri e produttori europei, e perciò espo sto a veti e sabotaggi da parte delle organizzazioni ufficiali, esso è in po’ un Festival alla macchia, inviso a ministri e a direzioni generali, e perciò istintivamente simpatico a coloro che considera lo la presente dittatura delle burocrazie cinematografiche governative in tutti i paesi come la peste che finirà per uccidere il cinema. È appunto perché è un Festival birichino che ha potuto permettersi una cosa che sembra straordinaria e che invece dovrebbe essere normalissima, se la libertà d’opinione e di espressione al cinema non fosse favola, cioè di presentare un’opera cinematograficamente importante senza tagli di censura. Il film era Il grido di Antonioni, intorno a cui si sapeva che erano sorte in sede di censura controversie vivacissime. Ancora una volta gli spettatori accorsi al richiamo del prezzo proibito dovettero domandarsi se valeva la pena di creare (dopo le Notti di Cabiria) questo nuovo caso di pesante “imprimatur”. Perché concediamo pure che si debbano accorciare un paio di approcci amorosi prolungati, un po’ troppo, quasi sino al limite oltre il quale incomincia l’amplesso, e magari anche si tagli (ma quanta piccineria!) la curiosa scenetta del venditore ambulante di Madonne, dov’è tutta questa materia di scandalo? Ci dissero che uno dei passaggi incriminati è quello in cui Rosina, la bimba, scopre dietro la scarpata il babbo steso accanto all’amante, il cui disordine, nel riposo, denuncia i segni di una trascorsa intimità. Ma questo vuol dire non capir niente. Ma se proprio in questo episodio e in questo choc è la vera profonda amarissima moralità del film. Rosina il frutto di una delle centomila unioni illegittime che rallegrano il nostro moralissimo Paese, Aldo, operaio in uno zuccherificio del Polesine, e Irma, moglie di un emigrato in Australia, convivono sette anni quando arriva a Irma la notizia che il marito è morto. Ed ecco che, proprio al sospirato momento di legalizzare la loro unione e dare una posizione regolare a Rosina, Aldo si trova davanti a una rivelazione tremenda: Irma non lo sposerà perché ama un altro. Suppliche e percosse sono inutili. Aldo prende la bimba e parte. Va a ritrovare la onesta e gentile ragazza che ama va prima di incontrare Irma: ma certe cose non si riprendono. Parte in cerca di lavoro, e il caso lo scarica un giorno in una stazione di servizio, tenuta da un’ardita e provocante benzinara che si incapriccia di lui e se lo piglia come aiuto e come amante. Ma c’è Rosina. Ogni giorno qualcosa viene a fargli sentire che non potrà mai da solo allevare Rosina. Poi arriva la terribile scoperta. Quando rialzandosi confuso e sconvolto egli vede Rosina fugire, capisce che ha perduto tutto. Allora rimanda la bimba alla mamma. Rimanda la bimba, ma tronca con Virginia e va via. Que sto estremo soprassalto di pudore e di rimorso per cui, solo perché quella triste passione ha mortificato la sua bambina, e quasi per purificarsi tardivamente agli occhi di lei, abbandona l’unica donna che poteva nella rabbia dei sensi fargli dimenticare Irma, perdendo il solo lavoro sicuro, è un grande, bellissimo movimento d’anima, un disperato atto di onestà. Ebbene, tutto ciò è irreparabilmente cancellato e distrutto se si sopprime quella scena. Arrivo a dire che, sotto questo aspetto, anche l’arditezza critica di certi passaggi diventa giustificabile: sì, perché fa più cocente, dopo la vergogna di lui, più misera la povera animalesca foia dei grandi davanti a quelle due chiare pupille di bimba. E poi, sopprimendo quella scena, si ammazzerebbe il personaggio di Rosina. Ora, questa bimbetta che vediamo per tre quarti del film, coi suoi due scopini biondi, il suo intelligente musetto slavato, sgambettare accanto al suo papà sullo sfondo di quel desolato paesaggio alluvionale, è la vera protagonista del film. È da sola una creazione: per trovare un altro personaggio infantile cosi assoluto e poetico bisogna risalire alla Brigitte Fossey di Giochi Proibiti (questa è polesana e si chiama Mirna Girardi). E infatti quando Rosina esce, il film cade immediatamente. L’episodio della quarta donna, Andreina, volutamente introdotto ed esacerbato per spingere Aldo al collasso finale, per quanto pieno di acutissime osservazioni documentarie, invece di accelerare il dramma, lo devia negli ardui sentieri di una troppo sottintesa protesta sociale. E la catastrofe arriva melodrammatica e scontata. Non importa, anche così Il grido rasenta almeno per metà il ca polavoro. Ci sono pezzi degni di un classico. C’è tutto il mondo del basso Polesine, trasferito intero sullo schermo coi suoi paesi, i suoi orizzonti, le sue genti. C’è una folla di personaggi unici e indimenticabili, come il tragico Aldo di Steve Cochran così sem plice e predestinato, la formidabile Virginia di Dorian Gray (una vera e propria rivelazione), la fiera, dolente e delicatissima Elvia di Betsy Blair; e infine quello straordinario tipo che è il vecchio Campanili, un paesano polesano preso tal quale, col suo cappello e tutto, che è un vero monumento di natura: i suoi colloqui con Rosina, sono pezzi unici. Insomma, se l’arte ha qualche diritto, questa è arte. Letto 2513 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||