Libri, leggende, informazioni sulla città di LuccaBenvenutoWelcome
 
Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

3 Maggio 2008


[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

Racconti da Stoccolma

När mörkret faller
Anders Nilsson, 2008
Oldoz Javidi, Lia Boysen, Reuben Sallmander, Per Graffman, Bibi Andersson, Bahar Pars, Mina Azarian, Cesar Sarachu, Peter Engman, Annika Hallin, Nisti Stíªrk, Anja Lundqvist, Zeljko Santrac, Jonatan Blode, Christopher Wollter, Tobias Aspelin, Magnus Rossman, Fyr Thorwald, Ashkan Ghods, Tomas Bolme, Toni Haddad, Simon Engman, Tuva Sällström, Ralph Carlsson.
Berlino 2007: Premio Amnesty International.

«Sono stata picchiata e maltrattata per dieci anni da mio marito… e io tutte le volte ero convinta che la colpa era mia, che ero io la causa… E’ fondamentale che le vittime parlino di questa loro condizione ». Nel film si chiama Carina (boysen), nella realtà è Maria Carlshamre, una giornalista  svedese che ha avuto il coraggio di “uscire allo scoperto” e denunciare in diretta televisiva le violenze subite ad opera del marito, collega di lavoro e “geloso” del successo della moglie. Eletta poi  al Parlamento Europeo, Carina/Maria ha potuto presentare un programma per la difesa dei diritti delle donne. Questa ed altre due storie ispirate a fatti accaduti, s’intrecciano nel film di  Nilsson, regista trentenne (Zero Tolerance – 1999, Executive Protection – 2001, The Third Wave – 2003) considerato una grande promessa del cinema scandinavo,  e sono tanto più impressionanti quanto più il contesto  da cui sono tratte, Stoccolma,  è normalmente creduto “civile” e “avanzato”. Diverso, rispetto al background professionale di Carina, il contrasto culturale che sta alla radice della violenza subita da Leyla (Javidi), giovane immigrata mediorientale. Insieme alla sorella Nina (Pars), Leyla vive prigioniera dei pregiudizi dei genitori e degli zii. Proibito per lei frequentare ragazzi. Madre e padre sono pronti a difendere l’ “onore” della famiglia fino alla scelta di soluzioni estreme. E’ impressionante la chiusura  verso la società che li accoglie,  pur attrezzata con  strutture assistenziali che fanno intendere come il problema dell’integrazione non sia troppo  sottovalutato. La terza storia, restando nell’ambito di una forte problematicità di rapporti tra culture eterogenee in un ambiente “moderno”, è raccontata al maschile. L’intolleranza verso  l’omosessualità,  benché questa sia  nascosta e quasi inconsapevole,  si mescola all’arroganza che può  assediare la vita di locali anche di un certo livello, specie se il gestore, Aram (Sallmander), è straniero ed ha un buttafuori, Peter (Graffman), che  s’impegna un po’ troppo a  difenderlo dai delinquenti. Qui siamo all’uso di pistola e coltello, ma la vicenda coinvolge comunque una famiglia, quella di Aram, che deve subire aggressioni e minacce. Insomma, situazioni di violenza diffusa e tuttavia non proprio  presente nell’immaginario dei più. Situazioni di una drammaticità che non avrebbe bisogno di “rappresentazione” se non fosse per la profonda incoerenza che  certi “casi”  denunciano a  chiunque  voglia soltanto  acuire un minimo lo sguardo. L’Italia, per esempio,  non sarà  magari la Svezia, eppure «tra tutte le donne uccise, in media 7 su 10 trovano la morte per mano di un familiare o di un partner » (Eures-Ansa, 2006); e  6 milioni e 740 mila donne tra i 16 e i 70 anni hanno subito «violenza fisica » o «violenza sessuale » nel corso della propria vita (Istat, 2007).   Detto questo, resta da vedere se alla drammaticità del vero corrisponda la drammaticità del film.  Nilsson dice che l’obbiettivo del suo lavoro era «capire perché ciò accade ». Il problema dell’arte è che non si accontenta (non può) della “realtà”. I Racconti da Stoccolma ci dicono come una certa realtà si svolge. Quanto al perché, il loro grado espressivo somiglia più ad uno stimolante  pacchetto di “contributi” per il dibattito in Tv e  sfiora solo in alcuni momenti il traguardo  catartico (nell’arte non basta stare “dalla parte giusta”). Ben venga comunque la diffusione di simili “contributi”.

The Hunting Party

The Hunting Party
Richard Shepard, 2007
Richard Gere, Terrence Howard, Jesse Eisenberg, James Brolin, Ljubomir Kerekes, Kristina Krepela, Diane Kruger, Joy Bryant, Olja Hrustic, Goran Kostic, Mark Ivanir, Hélène Cardona.

Azione di denuncia. Il genere e il contenuto fanno un matrimonio inconsueto, che appassiona e fa pensare, cedendo alla semplificazione televisiva solo di quel tanto che alleggerisca l’angoscia di alcuni momenti del film. Certe scene possono impressionare anche il più navigato e spericolato reporter americano. Tanto da farlo “impazzire” in diretta, colpendo a morte  la linea editoriale. Succede un giorno  a Simon Hunt (Gere), il quale, dopo averne viste di tutti i colori, in Iraq, in Somalia, in Sudamerica,  dal vivo in un villaggio  della Bosnia, fa capire come la pensa su quella guerra. Duck (Howard), il cameraman che ha lavorato sempre in coppia con lui, non se la sente di perdere il posto. Così i due si separano. Duck fa carriera mentre Simon cade in disgrazia. Ma 5 anni dopo, a guerra finita, il reporter  torna a Sarajevo e si ripresenta  al cameraman: ha uno scoop per le mani, sa come trovare l’introvabile “Volpe”, il  criminale di guerra più ricercato. Certo ci sarà qualche rischio da correre, ma «una vita in pericolo è una vita reale, il resto è televisione! ».  Si capisce che Duck non saprà resistere alla tentazione di andare “a caccia” col suo vecchio amico. E comincia l’avventura, questa volta lo scopo è preciso, non si tratta soltanto di accumulare materiali per  reportage volanti. Gli ostacoli, nel paesaggio non ancora “raffreddato” dopo il terribile conflitto, si moltiplicano anche per l’ostilità di tutto l’ambiente. Ai due “cacciatori” si è unito, a formare un terzetto a tratti anche divertente, Benjamin (Eisenberg), il figlio del vicepresidente della compagnia per cui lavora Duck: è fresco di laurea ad Harvard, sembra troppo inesperto ma saprà riscattarsi. La “Volpe” vive al sicuro tra i monti, protetto da un esercito di guardie armate. Se i tre intraprendenti giornalisti avessero i mezzi della Cia…  Ed è qui che scatta la denuncia. Come non pensare a Radovan Karadzic, il vero criminale che nessuno riesce ancora  a scovare? Un finale convulso sfocia nell’impatto col muro dei servizi segreti e non ci resta che tornare alla realtà. Cioè alla finzione? Shepard (The Matador, 2005) è partito dalla lettura di un articolo di Scott Anderson, pubblicato sulla rivista Esquire nel 2000, che raccontava di  cinque ex reporter di guerra  sulle piste di Karadzic. Trasformato in film , il racconto sfrutta il potenziale avventuroso senza rinunciare all’elemento assurdo, della incredibile incapacità delle organizzazioni mondiali a catturare, dopo 10 anni, i responsabili del genocidio nei Balcani. Una vera sorpresa positiva è la felice disinvoltura con cui Richard Gere affronta l’arduo compito di dare al personaggio di Simon la credibilità complessa di un uomo segnato dall’inferno della guerra, il quale non perde l’humor né il senso della vita movimentata che in definitiva lo salvano, al di là delle enormi difficoltà “politiche”.

Iron man

Iron man
Jon Favreau, 2008
Robert Downey Jr., Terrence Howard, Jeff Bridges, Shaun Toub, Gwyneth Paltrow, Samuel L. Jackson, Hilary Swank, Bill Smitrovich, Faran Tahir.

Fumetto (la targa è Marvel)  tecnologico con un sottile substrato di antico. Qui è il maggiore fascino di questo “giocattolo” che sfrutta l’immagine archeologica del ferro per fantasticare, invece,  su soluzioni antropomorfiche della tecnica, che danno al futuro un senso di speranza nonostante l’aggressione progressiva di nuovi poteri e di nuove ambizioni. Il divertimento non è poi tanto puro, come si vorrebbe da chi gestisce il prodotto. Insieme avanzata ed artigiana, la strabiliante tecnologia che in Tony Stark (Downey Jr.) si fa persona produce meraviglia proprio per l’esibizione costante della maschera e del suo contenuto: Tony e l’armatura che egli si construisce suggeriscono un tutt’uno in cui si fondono uomo e macchina e da questa nuova unità sgorga una nuova fantastica  potenza. Tuttavia non si tratta ancora di una fusione, l’elemento futuribile e  l’antichità del  ferro restano ben individuabili. Il protagonista, giustamente, si muove  dietro una sorta di velatura, pur essendo il motore della vicenda non assume rilevanza assoluta: quel che importa è l’ingegnosa armatura (maschera) che gli darà la forza di superare ogni ostacolo, di vincere su ogni cattivo (nella fattispecie siamo in Afghanistan). Si capisce così la scelta di un attore, pur bravo,(Charlot,  Robert Attenborough, 1992, Good night and good luck, George Clooney, 2005, A scanner darkly, Ricard Linklater, 2006, Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus, Steven Shainberg, 2006) non tanto iconologicamente invasivo da soffocare l’importanza dell’armatura. Del resto, la stessa identità di Tony Stark, destinata alla trasformazione da inventore e venditore di armi a inventore dell’arma risolutiva “a fin di bene”, si configura appunto come una sorta di sublimazione dell’armaiolo, artigiano  sublime e pur sempre armaiolo. E la ricchezza di questa ambiguità a stabilire la base della metafora (fumetto) su cui poggia l’impulso all’immaginario.    Il concetto di protezione (armatura) prevale su quello di aggressione e merita il premio della sopravvivenza: Tony, che già all’inizio del film è praticamente più morto che vivo, inventa e applica su di sé il misterioso oggetto salvifico che gli permette di restare in vita e di lavorare, così, alle sorti positive del mondo. Ci manteniamo nel vago giacché la parola pace non viene mai pronunciata. C’è però una fuggevole osservazione che riguarda proprio il protagonista, qualcuno ad un certo punto dice di lui: «Non ha famiglia, è un uomo che ha tutto e niente ». Altro che Afghanistan.

Il treno per il Darjeeling

The Darjeeling Limited
Wes Anderson, 2007
Owen Wilson, Adrien Brody, Jason Schwartzman, Amara Karan, Camilla Rutherford, Irfan Khan, Bill Murray, Anjelica Huston.
Venezia 2007: Leoncino d’oro.

Famiglie difficili. Dopo I Tenenbaum (2001 – Tutti geni e un padre che beve – e Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004 –  Una “nave di folli”  dà la caccia allo squalo cattivo che ha ucciso il fratello di Steve), Anderson continua nella decostruzione parentale salendo sul treno (non meno “folle” della nave di Zissou) con tre stralunati fratelli, Francis (Wilson), Peter (Brody) e Jack (Schwartzman), alla ricerca dell’armonia perduta. Il viaggio riserverà sorprese, sia per l’effetto che può fare l’India sui tre personaggi già per conto loro non poco estranei a se stessi, sia per la difficoltà di comunicazione tra persone che da tempo non si parlano  e che scoprono di non conoscersi e di riconoscersi a stento. La filosofia del viaggio è esposta ed “eseguita” da Anderson con un senso dell’ironia raffinato e piacevole, scopertamente rivolto ad un pubblico altrettanto raffinato. La stessa scelta del treno come location principale, in movimento, è dovuta, per  dichiarazione dello stesso regista, ad una passione cinefila che si spinge fino all’archetipo dei Lumière (L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat, 1895). Con apprezzabile acume Anderson riesce a tenere teso il filo dell’assurdo, cucendo insieme avventura e comicità, dialettica spirituale e sorprese della contingenza. Man mano che la reciproca intrusione dei tre fratelli procede, l’itinerario programmato si spappola lasciando spazio alle verità personali, finché arriva un liberatorio «via le valigie », che solleva dal carico iniziale  le tre “anime” e le proietta, fuori dal film,  verso più consapevoli paesaggi.


Letto 3382 volte.


Nessun commento

No comments yet.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart