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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

22 Maggio 2010

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera.  È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

Copia conforme

Copia conforme
Abbas  Kiarostami, 2008
Fotografia Luca Bigazzi
Juliette Binoche, William Shimell, Jean-Claude Carrière, Agathe Natanson, Gianna Giachetti, Adrian Moore, Angelo Barbagallo, Andrea Laurenzi, Filippo Troiano, Manuela Balsimelli.
Cannes 2010, concorso.

Niente è sicuro, la nostra vita è immersa nell’ignoto. Oppure, tutto è certo, la vita si realizza momento per momento, è fatta di particolari verificabili e discutibili. Come l’opera d’arte, siamo originali ma possiamo benissimo valere come copie e, per paradosso, la copia può essere migliore.  Nulla di più difficile che cogliere la verità  in noi stessi giacché qualsiasi parola è parte di un circuito, di una rete usuale che la rende “falsa” rispetto alla nostra realtà “unica”. Rischiamo di nuotare nella banalità, il più senplice di noi e il più “evoluto”. Tutto dipende da chi dice, da chi giudica, da chi vede. Se la cosa più semplice la dice un filosofo, tutto potrà essere diverso. William Shimell è James, uno scrittore inglese venuto in Toscana a presentare  il suo libro, Copia conforme, in cui ha voluto giocare il tutto per tutto sulla tesi “impossibile” del valore della copia. Juliette Binoche è un’antiquadria francese. Ha un negozio, vive nella provincia toscana. Il figlio, ancora bambino, la studia e la provoca quasi da adulto. Affascinata da James, la donna  gli chiede copie con dedica, una  per sé e altre da regalare, poi lo invita a fare un giro fino a Lucignano, paesino lindo e pinto dove le coppie vanno a sposarsi e dove il vino e l’olio sono in mostra. Insomma la Toscana degli inglesi e dei francesi. Copia conforme anche quella. Strada facendo, la donna sposta i discorsi teorici verso la pratica dei comportamenti, fino a che dallo spunto di un dialogo con la proprietaria del bar dove lei e James di sono fermati per un caffè e un cappuccino prende forma l’idea, pure conforme, che lo scrittore sia suo marito. Sposati da 15 anni, come fosse vero.  Lui tenta di resistere, ma il gioco dei ruoli un po’ lo attrae. Del resto, è anche occasione per sperimentare il fondamento del proprio libro. L’attrazione e la resistenza diventa il tema saliente. Un treno attende James alle nove della sera ma intanto lei lo chiama a visitare l’alberghetto dove si fermarono da sposi. Molto del grado di ambiguità, consustanziale alla costruzione del racconto, è dovuto alla bravura di Shimell, baritono lirico passato al cinema con evidente gusto; ma di certo è il raffinato fascino della Binoche a determinare la qualità dell’astrattezza del film. Mentre l’iraniano  Kiarostami conferma la propria vocazione a fondere in un suo specifico rischio estetico la doppia tendenza al documentario e alla metafora (metafisica), è la grande Juliette a realizzare il valore della metafora col suo corpo delicatamente  allusivo. Difficile pensare ad una copia conforme.

La nostra vita

La nostra vita
Daniele Luchetti, 2010
Fotografia Claudio  Collepiccolo
Elio Germano, Raoul Bova, Isabella Ragonese, Luca Zingaretti, Stefania Montorsi, Giorgio Coalngeli, Alina Madalina  Berzunteanu, Marius  Ignat, Awa  Ly, Emiliano Campagnola.
Cannes 2010, concorso.

Sono «tutti impicci », che  si può  fare? Luchetti si guarda intorno e racconta con appassionata partecipazione ma non senza un’occhio critico la vita dei nostri giorni, vista dal basso. Il suo protagonista è vittima di una situazione che sembra difficile da modificare.  Claudio (Germano), operaio edile romano, è pieno di slancio, ama la moglie (Ragonese)  e i due bambini, non vede l’ora che nasca il terzo. Intanto il giovane  si ammazza di lavoro sulle palazzine in costruzione, una delle tante che affogano la città  nel mare di cemento. Poi succede che il bambino nasce e la madre muore. Se avete visto al cinema almeno una volta Elio  Germano (Mio fratello è figlio unico, Tutta la vita davanti, Come Dio comanda), potete immaginare. Claudio stringe i denti, si ricarica e va all’assalto della vita.  Vuole mettersi in proprio,  ma i trucchi che l’appalto  richiede lo schiacciano. Finisce pr accettare compromessi duri. D’altra parte il denaro  sembra essere  l’ingrediente base della felicità (megastore e vacanze al mare). Non sono d’accordo due donne straniere, un’africana che non ha smesso di andare alla messa e una romena che ha perso il marito  (ma crede che se ne sia andato) guardiano notturno nel cantiere dove lavora Claudio. Alla fine, dopo essere precipitato nel baratro dei mille impicci, il nostro viene salvato dalla sorella Liliana (Montorsi), dal fratello Piero (Bova) e dall’amico vicino di casa (Zingaretti), un pusher che per aiutarlo rischia la vita. Claudio ha fatto un bel tonfo ma si riprenderà. Lo lasciamo che gioca sul lettone matrimoniale con i suoi tre piccoli. Non cambia di molto, invece, la “nostra vita”, almeno stando alle condizioni descritte da Luchetti. Realismo? Nel film, tutto ciò che succede ha l’aria di essere “naturale”. Il mito di una felicità materiale  minima e indispensabile celebra la sua vittoria sul mondo di quanti vivono ai primi gradini della società. Gli altri, quelli più in alto, qui non li vediamo, ma si può immaginare.  Sembra non vi sia niente da fare. Quello che vediamo è un male naturalizzato. La recitazione di Germano è lontana dallo straniamento. L’immedesimazione nel fittizio mette l’attore in collegamento diretto con la qualità artificiosa dell’evoluzione culturale e sociale che stiamo vivendo. La distanza tra gioia e disperazione si riduce progressivamente nel vuoto di certe  ideologie colmato da altre ideologie. La scelta di Germano a protagonista, tecnicamente ineccepibile, assume un valore ideale che va oltre il film – film italiano che può  chiudere un arco ideale, da Ladri di biciclette (De Sica 1948)  a Una vita difficile (Risi 1961), a La nostra vita.


Letto 1935 volte.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart