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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

7 Giugno 2008


[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.]

 

Tropa de elite – Gli squadroni della morte

Tropa de elite
José Padilha, 2007
Wagner Moura, Caio Junqueira, André Ramiro, Milhem Cortaz, Fernanda Machado, Maria Ribeiro, Fabio Lago, Fernanda de Freitas, Paulo Vilela, Marcelo Valle, Marcello Escorel, André Mauro, Paulo Hamilton, Thogun.
Berlino 2008, Orso d’Oro.

Sulla scia delle polemiche suscitate a Berlino per la rappresentazione della violenza a Rio de Janeiro tra squadre speciali della polizia e trafficanti di droga nelle favelas e anche all’interno del corpo di agenti militarizzati e superaddestrati, arriva nelle sale il film che ha spopolato in Brasile e che del Brasile dà un’immagine indubbiamente controversa. Già il fatto che Padilha, partecipando alla sceneggiatura ha lavorato insieme a Braulio Mantovani, lo sceneggiatore di City of God (Fernando Meirelles, 2002), è un segnale di senso abbastanza chiaro. Col film di Meirelles  ci si poteva fare un’idea della situazione di vita  drammatica nelle baraccopoli di Rio e in particolare nella Cidade de Deus, il “quartiere-scuola”  di tanti bambini sulla via della delinquenza. Con Tropa de elite il tema si specifica sul versante del dominio poliziesco.  I risultati artistici a tratti sbalzano lo spettatore al di sopra delle righe e  c’è il  rischio di ritrovarsi dalla parte della violenza “d’ordine” (torture comprese)  quasi senza accorgersene, a causa del potere “anestetico” che le immagini possono avere sulla coscienza  tramite certe sottolineature esasperate. «Nel film non ci schieriamo con nessuno, diamo spazio alle storie che prendiamo dal quotidiano », dichiara il regista, ma certo non siamo di fronte a un “documentario”. E comunque,  se di film di denuncia si tratta, il piano espressivo ha l’aria di dominare pesantemente su  quello del contenuto. D’altra parte, l’inevitabilità della “posizione” di un film, come di qualsiasi opera  comunicativa –  e possiamo dire addirittura dell’ingegno umano -,  sta nella stessa condizione teorica del comunicare. Certo, le istanze da “padre di famiglia” del capitano Nascimento (Moura), la cui moglie è prossima a partorire e lo spinge verso un disimpegno dalla frenetica e rischiosa  attività del Battaglione, non  bilanciano credibilmente gli impulsi al comando e all’azione, che in alcuni momenti sforano, per l’eccesso, rispetto a qualsiasi  precedente del genere “uomini duri”, “giustizieri”, “servitori della patria”, ecc. Nascimento, è vero, ha un problema privato da risolvere: per sfilarsi dalla prima linea, sente il dovere di trovare il proprio sostituto. Ed è vero che, a fronte delle pressioni della moglie, il compito di garantire l’ordine in concomitanza della visita di Giovanni Paolo II  (siamo nel 1997), slitta in secondo piano – mentre invece sale allo stomaco lo stress degli scontri quotidiani, mitra e pistole alla mano. Ma c’è, ed è chiarissima, la priorità assoluta dello “spirito” del Battaglione speciale, il “Bope”. La  sua “morale” conquista i nuovi, disposti a  lottare duramente  per entrarvi a far parte. La selezione è estrema nelle sue forme, ridicola se vista dall’esterno, ma dentro il sistema, ha una logica che finisce per imporsi, per attrarre anche chi sarebbe restio, come Matias (Ramiro), il quale rinuncia all’Università per restare in divisa, in quella divisa. Esagerazioni? Una cosa è sicura, durante l'”addestramento” degli attori, si sono visti Junqueira e Ramiro mangiare erba e fango misti al cibo. Lo racconta Moura, che ha vestito i panni del  capitano.  

L’anno in cui i miei genitori andarono in vacanza

O ano em que meus pais saí­ram de Férias
Cao Hamburger, 2006
Michel Joelsas, Daniela Piepszyk, Germano Haiut, Paulo Autran, Caio Blat, Simone Spoladore, Eduardo Moreira, Liliana Castro, Rodrigo dos Santos.

Il 1970 fu l’anno dei campionati mondiali di calcio giocati in Messico e vinti dalla nazionale brasiliana. Pelè alzò la coppa per la terza volta dopo la vittoriosa finale con gli azzurri italiani (4-1).  Mauro (Joelsas), 12 anni, vive con i genitori, padre ebreo e madre cattolica,  a San Paulo, nel quartiere multietnico di Bom Retiro, e  resta solo proprio nei giorni  conclusivi del terneo. Non potrà godere in pieno la  gioia di vedere in Tv il Brasile se il papà e la mamma non torneranno in tempo. Lo hanno lasciato, in fretta e furia, al portone di casa del nonno, dicendo di andare in vacanza. Non sapevano che, nel frattempo,  il nonno era morto. Con la sua valigia e il suo pallone di gomma, Mauro bussa invanno alla porta. Qualche metro più in là, lungo il corridoio semibuio, s’affaccia un vecchio ebreo, Shlomo (Haiut). Sembra burbero, ma sarà lui a prendersi la responsabilità di aver cura del piccolo. La Tv scandisce le cronache delle partite, il Brasile continua a vincere mentre  il maggiolino con i genitori non si vede. Eppure  Mauro non si stanca di invocarne il ritorno. Dovrà adattarsi nel nuovo universo ristretto, la vecchia casa del nonno  abbandonata, un cortile dove giocare con gli amici di Hanna (Piepszyk), una bambina tutto pepe e piena di iniziative, il bar poco distante dove i grandi seguono anche loro alla Tv le gesta di Pelè.  C’è anche un ragazzo italiano, che sembra voglia essergli amico. Un giorno Mauro lo vedrà ferito fuggire da qualcuno che lo cerca. Sì, c’è ben altro che non il calcio nel Brasile di quegli anni. La dittatura militare, cominciata nel 1964, era contrastata con crescente impegno da oppositori  che venivano perseguitati in tutti i modi, rapimenti, torture, assassinii. Mauro non se ne accorge, avverte soltanto un senso di tristezza per i suoi genitori in “vacanza” e per la solitudine che, tra una partita del Brasile e l’altra, lo rende malinconico. Notevole la bravura del piccolo attore, il cui sguardo “calmo” funziona da “radar” nell’atmosfera di piombo. L’occhio del bambino va oltre la politica, ne trasmette l’angoscia senza nemmeno una parola che la spieghi.  Il regista Hamburger, al suo secondo lungometraggio, sa mantenersi “leggero”, sui toni più della commedia che del dramma, bilanciando con sensibilità le emozioni e i turbamenti di Mauro con lo “strano” contesto di un paese che vive lunghi  momenti di oppressione. Visto a Berlino 2007.

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Precede il film la proiezione di un corto di 5 minuti, già presentato alla Festa del Cinema di Roma e al Sulmonafilmfestival, dal titolo Lettera d’amore a Robert Mitchum, regia di Francesco Vaccaro. Colpisce la situazione surreale che la bravissima Piera Degli Esposti riesce a trasmettere semplicemente con la verità della propria passione erotica per il divo americano: un amore che dura dagli anni dell’adolescenza, una lettera mai spedita che finalmente l’attrice ci legge, in primo piano, ancora oggi turbata dall’attrazione per quel mito del cinema.

Quando tutto cambia

Then she found me
Helen Hunt, 2007
Helen Hunt, Bette Midler, Colin Firth, Matthew Broderick, Ben Shankman, Lynn Cohen, John Benjamin Hickey, Salman Rushdie, Janeane Garafolo, Tim Robbins, Edie Falco.

Adottata, non vuole adottare. Ma se tutto cambia… April (Hunt) ha a che fare tutti i giorni con i bambini della scuola in cui insegna e vorrebbe tanto essere madre anche lei. Le speranze però  vanno attenuandosi mentre l’età avanza.  E mentre  cerca in tutti i modi di non trasferire su un altro piccolo essere il destino che è toccato a lei, di sentirsi, in quanto adottata,  diversa dal vero figlio della  sua madre adottiva, l’anziana donna muore e April si trova ad affrontare la propria crisi matrimoniale, col marito (Broderick) che le confessa di essere stato con un’altra. Combinazione vuole che un altro uomo si affaccia nella vita di April. E’ Frank (Firth), il padre di un alunno, anch’egli in crisi matrimoniale. Ma non basta. Spunta anche Berenice (Midler), strana protagonista di talk show televisivi, la quale sotiene di essere lei la vera madre di April.  confesserà di averla abbandonata per egoismo: «Ho voluto la mia vita più di quanto non volessi te ».    Helen Hunt, esordiente come  regista (da attrice la ricordiamo, tra l’altro,  in Bobby, La maledizione dello scorpione di giada, Quello che le donne vogliono), evita  il rischio della banalità  perseguendo con intelligenza la via senza scorciatoie di una sceneggiatura attenta ai diversi  risvolti del romanzo di Elinor Lipman, Then she found me,  da cui trae linfa. Il resto viene dalla perfetta scelta del cast, con gli attori  ben calati nei ruoli e perfetti nel seguire il giusto respiro delle scene. Hunt, da parte sua, dirige lasciando alle parti tutta la loro consistenza “esistenziale”,  riducendo la  tipicità e valorizzando i dettagli fin quasi a lasciar sembrare che l’improvvisazione sia dominante (bravissimo Colin  Firth). Sicché la problematica sociologica dell’adozione mantiene una sua presenza discreta senza però attenuare la soggettività dei personaggi, i loro umori, le loro ragioni intime, l’evoluzione dei loro sentimenti. L’intreccio non scade nel meccanico. Al centro dell’interesse resta la sostanza umana dei personaggi, seguendo la quale vediamo  emergere e progredire  il cambiamento che porterà al finale. Non un  semplice happyend bensì la conclusione provvisoria di una vicenda non semplice.  Ci sentiamo  persino liberi di immaginarne altre evolusioni.


Letto 2080 volte.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart