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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

1 Ottobre 2011

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

L’alba del pianeta delle scimmie

Rise of the Planet of the Apes
Rupert Wyatt, 2011
Fotografia Andrew Lesnie
James Franco, Freida Pinto, Andy Serkis, Tyler Labine, David Hewlett, Jamie Harris, Leah Gibson, David Oyelowo, Chelah Horsdal, Karin Konoval, Richard Ridings, Terry Notary, Jesse Reid, Mattie Hawkinson, Christopher Gordon, Devyn Dalton, Brian Cox, Tom Felton, John Lithgow.

L’uomo e la scimmia, la scimmia e l’uomo: andando indietro nel tempo si possono avere delle sorprese. Lasciamo stare la teoria evoluzionista, per l’arte sono di primaria importanza  la suggestione e il fascino del racconto e non mancano certo i motivi per riandare all’origine della saga, cioè a quel Pianeta delle scimmie (Franklin J. Schaffner, 1968) che ebbe per protagonista Charlton Heston. Seguendo il romanzo di Pierre Boulle, il primo film raccontava di un viaggio nello spazio che aveva fatto avanzare di duemila anni il tempo di tre astronauti americani, portandoli su un pianeta dominato da scimmie più intelligenti degli umani. Quel pianeta non era che la Terra, dove le guerre atomiche avevano ridotto l’umanità a un tale degrado da lasciare libero campo alle scimmie. Ora però non è più tempo di guerra atomica. Possiamo tralasciare i séguiti della saga e anche il tardivo esercizio stilistico di Tim Burton (Planet of the Apes, 2001). Nel film dell’inglese Wyatt (The Escapist, 2008) il tema si sposta sul versante della genetica. Sono gli esperimenti dello scienziato Will Rodman (Franco) a sfociare in esiti imprevisti. Will lavora per una casa farmaceutica e cerca di arrivare alla cura dell’Alzheimer, malattia di cui soffre suo padre Charles (Lithgow). Si sperimentano gli effetti di un nuovo farmaco sulle scimmie, ma quando queste danno strani segni di aggressività si decide di arrestare la sperimentazione. Will continua per conto proprio, si porta a casa Caesar, un piccolo scimpanzé nato da una madre alla quale erano state somministrate dosi di ALZ-112, il farmaco sperimentale che lo scienziato prova anche sul padre.  E succede che, mentre i disturbi di Charles regrediscono, l’intelligenza di Caesar fa progressi incredibili. Dal punto di vista scientifico la cosa non è poi così sconvolgente, ma c’è la morale e c’è il cinema. La morale è molto semplice e coincide con il livello di premessa, la scelta della forma “prequel†non poteva essere più opportuna: il dominio delle scimmie non può che derivare dalla “caduta†dell’umanità, dalla perdita dei valori combinata con i pericoli di un uso scriteriato della scienza. L’arte cinematografica fa il resto, utilizzando al meglio le possibilità tecnologiche, in questo caso la tecnica della performance capture, con gli attori che mimano alla perfezione gesti, comportamenti, espressioni dlle scimmie – bravissimo Serkis (il Gollum del Signore degli Anelli) a fare Caesar. La morale ha anche una sottolineatura non necessaria allo spettacolo, laddove insiste nel suggerire come le scimmie siano “migliori†degli umani. Ma lo spettatore è ricompensato dai miracoli abbaglianti degli effetti tecnologici e dal contributo congiunto della fotografia volgente al “neroâ€. L’espressione prevale riscattando la eco-retorica allineata ai tempi.

Oltre il mare

Oltre il mare
Cesare Fragnelli, 2011
Fotografia Andrea Locatelli
Alessandro Intini, Alberto Galetti, Giulia Steigerwalt, Nicola Nocella, Mario Claudio Recchia, Micol Olivieri, Davide Donatiello, Carlotta Tesconi, Francesca Perini, Lidia Cocciolo, Rossana Lorusso, Laura Bardiger, Loredana D’Andrea, Elizabeth Saragnese, Cosimo Cinieri, Paolo Sassanelli, Marit Nissen.

Recita il book di presentazione del film: «Puglia, oggi. Un gruppo di giovani studenti universitari decide di partire per una vacanza in campeggio, destinazione Otranto ». E fin qui ci siamo. I dati corrispondono a ciò che si vede. Poi però si passa a un’ulteriore specificazione del contenuto: «Amori, sentimenti, sesso, droghe, tradimenti si incrociano in una vacanza da schianto ». E qui ci siamo più che altro a livello di enunciato. Al suo primo lungometraggio, il trentaquattrenne regista pugliese (premiato autore di corti d’impegno sociale e di spot pubblicitari) manifesta l’ambizione di «graffiare »  e «emozionare », raccontando «senza filtro »  i ventenni di oggi. Purtroppo l’intenzione di un uso “diretto†della cinepresa attinge all’utopia classica, storica, originaria e fallace, che attribuisce al cineocchio l’onnipotenza del disvelamento obbiettivo della “realtàâ€. I giovani del film, pur bene interpretati da un apprezzabile gruppo di attori, rispondono a un’idea piuttosto risaputa che la sociologia e le comunicazioni di massa hanno trasmesso di loro e non basta la chiave dell’amicizia – suggerita a più riprese – a tenere insieme le diverse istanze interpretative che lungo il film si affacciano a indicare possibili svolte della narrazione. Se dici «amori, sentimenti, sesso », ti impegni a una rappresentazione artistica dei temi, tale che valga una distinzione tra script e scene. Molte scene, invece, risultano deboli, inadeguate nell’espressione dei contenuti che sono chiamate (almeno) a evocare. Tale carenza estetica si nota soprattutto nella forma per lo più didascalica dei dialoghi, anche indecisi tra commedia e “veritàâ€; e produce ulteriore contrasto nei momenti di maggiore accentuazione delle belle musiche originali di Nicola Masciullo. Fragnelli è comunque un regista da seguire. Proseguendo nel lavoro, potrà magari rischiare qualcosa di più sul versante autoriale, viste le sue possibilità di metteur-en-scène.

A Dangerous Method

A Dangerous Method
David Cronenberg, 2011
Fotografia Peter    Suschitzky
Viggo Mortensen, Keira Knightley, Michael Fassbender, Vincent Cassel, Sarah Gadon, André Hennicke, Katharina Palm, Andrea Magro, Arndt Schwering-Sohnrey, Mignon Remé, Mareike Carriere, Franziska Arndt, Wladimir Matuchin, André Dietz, Anna Thalbach, Sarah Marecek, Bjorn Geske, Jost Grix, Severin von Hönsbröch, Torsten Knippertz, Dirk S. Greis, Julia Mack, Aaron Keller.
Venezia 2011, concorso.

A proposito di metodi pericolosi, nel praticare la biografia di personaggi della cultura, filosofi, scienziati, artisti, si annida un pericolo di principio. La corrispondenza tra fatti ed essenze è difficilissima da cogliere e da rappresentare. Ciò è vero a partire dalla scrittura e ancor più complicata diviene l’impresa quando intervengono altri codici espressivi, per esempio nel cinema, linguaggio fortemente eterogeneo. Un film che mette a confronto tre personalità complesse, come quelle di Sigmund Freud, Carl Jung e Sabina Spielrein, condiderati nel periodo 1904-1934, affronta difficoltà vertiginose, soprattutto sul piano dei contenuti. Non staremo qui a trattare di psicoanalisi in modo accademico ma, soltanto riguardo ai problemi della regia, pensiamo a quello che può essere il punto critico della rappresentazione: la psicoanalisi nasce a contrasto con gli stereotipi interpretativi circa i contenuti “interiori†della persona in rapporto alle azioni, è un pensiero rivoluzionario che prende forma nel contesto ancora bloccato di un mondo rigido, il cui sistema sta letteralmente esplodendo (le due guerre mondiali). La freudiana “cura delle parole†comporta l’abbandono di schemi preordinati a favore della pratica del discorso, cioè del divenire dialogico, produttore di catene disvelatrici di contenuti e di forme. Guai a pensare a possibili formulari per l’interpretazione dei sogni. Cronenberg  è regista consapevole, si guarda intorno e si guarda dentro senza presunzione e con coraggio (Crash,  Spider, A History of Violence), ha senso dello spettacolo e della misura, i suoi racconti formano un corpo solido ma pieno di energia, sono utili alla prosecuzione. A Dangerous Method segna forse il culmine di tale coscienza, la pericolosità del metodo fonde in un unico rischio i personaggi e l’autore del film. Mentre racconta l’evolversi dei rapporti tra Freud (Mortensen), Jung (Fassbender) e Sabina (Knightley), il regista evita spiegazioni a tesi e didascalie bignamesche e affida invece alla bravura degli interpreti la produzione progressiva del senso, come in una “cura delle parole†in fieri, non rappresentata ma piuttosto implicita. Cronenberg ci chiama a partecipare criticamente alla composizione e scomposizione delle figure dei protagonisti in un gioco dialettico sul filo della drammaturgia, senza mai lasciar deflagrare il racconto in formali “sperimentazioniâ€. Un filo sottile e resistente di intelligenza artistica regge il miracoloso equilibrio della tensione intellettuale e della pulsione erotica, proprio secondo un criterio psicoanalitico che oggi può venirci riproposto in forme metodologiche nientemeno che in un film “classicoâ€, un film che non si scompone in sottolineature ideologiche né in fughe espressioniste, ma si contiene nella propria dignità narrativa. Provate a cambiere i nomi dei protagonisti, non riuscirete ad avere il romanzetto romantico di una passione a tre.


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Bart