CINEMA: I film visti da Franco Pecori20 Aprile 2013 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini] Attacco al potereOlympus Has Falle Scherzano o fanno sul serio? Viene da dirlo quando vediamo giocare i bambini. Sono talmente immedesimati nei personaggi e nelle situazioni da sembrare non più se medesimi bensì figure “altreâ€, quelle appunto a cui hanno scelto di dare vita, prendendole dai loro sogni e cioè dal backgroung immaginario che costituisce gran parte del  loro paesaggio esistenziale. Lo fanno per gioco, ritagliando un momento dalla vita “reale†e trasformandolo in un altro più vero, più intenso, pur sapendo bene – è il punto – che si tratta di una finzione, un trucco che rende facile il difficile, superabile l’ostacolo, abbattibile il nemico. D’altro canto, possiamo stare sereni, i bambini non lasceranno vincere il Male, nemmeno nelle situazioni più ardue per le sorti dei Buoni. Ciò vale anche quando ciascuno di essi è solo col proprio videogioco. Potrà anche “perdereâ€, ma a quel punto la sconfitta sarà percepita come fase di un esercizio ripetibile fino alla piena riuscita. Lasciamoli dunque giocare. Il punto è quando sono gli adulti a fare i bambini. Allora dobbiamo domandarci il perché. Nel film di Antoine Fuqua – regista che ha spesso mostrato “confusioniâ€, se non proprio disastrose almeno ingenuamente provocatorie (Training Day 2001, L’ultima alba 2003, King Arthur 2004, Shooter 2007) – l’attacco alla Casa Bianca da parte di terroristi nordcoreani per prendere in ostaggio il Presidente degli Stati Uniti è raccontato con i particolari di un “gioco†infantile, un divertimento dove i dettagli tecnici, gli oggetti profilmici, le battute del copione, le svolte narrative e perfino i destini della Storia, sono “realtà †provvisorie e convenzionali, immerse in un empireo trasognato, la cui necessità artistica attinge alla meccanica stereotipa, più e prima ancora che alla facilità esecutiva. Tanto che viene da pensare che autore del film non sia l’adulto-bambino ma il bambino stesso, il quale, per la “logica†conseguenza di un dinamismo interno all’evoluzione dei linguaggi, abbia preso – per così dire – coscienza di sé e abbia ormai prescritto a noi tutti l’inutilità della maturazione, ritenendosi autosufficiente e vincente rispetto a sorpassate articolazioni del pensiero. Gerard Butler, con la faccia ancora un po’ muccinesca (Quello che so sull’amore, regia di Gabriele Muccino, 2011), dovuta all’ansia del personaggio di conquistare la maturità necessaria per trovare un posto nella vita, qui non si pone problemi di realismo. Ma come – si dirà – proprio mentre egli, protagonista nei panni dell’ex dei Servizi Segreti Mike Banning, rappresenta l’unico baluardo contro l’aggressività non certo fantasiosa (se ne parla, guarda caso, nei Tg)  dei comunisti di Pyongyang, parliamo di scarsa adesione alla realtà ? Le fasi dell’attacco alla sede del potere Usa e dell’aggressione al Presidente (Aaron Eckart) hanno, è vero, una loro coerenza e rassomiglianza con il relativo armamentario masmediatico e cinematografico, ma è il tono della finzione a dare al tutto quella veste di realtà infantile, fatta dell’uso “spudorato†di frasi usurate e della circostanziale reattività agli esiti delle sequenze, l’uno e l’altra più adatti al soddisfacimento per la riuscita del “gioco†che non a una qualche estetica narrativa. Corrispondenze che al bambino non interessano, né quando gioca a nascondino, né se Babbo Natale gli porta in dono una bella cinepresa. E non sarà certo il suo papà , quello vero, a chiedergli conto delle normali discrepanze tra cose e parole del “vero†e loro uso fittizio. Infatti, il Portavoce Allan Trumbull (Morgan Freeman), vestiti i panni del Presidente mentre questi è legato e preda dei terroristi, si limita a lasciar funzionare il giocattolo. La ragione (almeno a dirsi)  è semplice: i bambini giocano. Il cinema sembra diventato loro. Niente di male. Il punto è tracciare i confini del gioco e non sarebbe compito dei bambini. Nella casaDans la maison La lingua, la scrittura, la realtà circostante, la fantasia, il narrare. Elementi, condizioni, istanze, primi risultati verificabili già nella scuola secondaria. Germain (Fabrice Luchini), professore di lettere in un liceo francese, scrittore mancato, è ormai quasi rassegnato a constatare che i suoi allievi non sono capaci di andare oltre due misere proposizioni descrittive su temi semplici, quali “Come ho trascorso il week endâ€. Ma arriva l’eccezione. Il tema di Claude, quel ragazzo che siede giù in fondo alla fila di banchi – “Il ragazzo dell’ultimo banco†è la pièce teatrale dello spagnolo Juan Mayorga, da cui parte l’ispirazione del regista François Ozon (8 Donne e un mistero 2002, CinquePerDue 2004, Angel – La vita, il romanzo 2006, Ricky – Una storia d’amore e libertà 2008, Il rifugio 2009) – finisce con un inconsueto “continuaâ€. Germain considera quella strana non-chiusura un segno del destino, un invito a occuparsi del “casoâ€, a seguire più da vicino la vocazione del ragazzo allo sviluppo della propria creatività . Il sedicenne Claude (Ernst Umhauer) ha intrapreso un’amicizia con il compagno di classe, Rapha (Bastien Ughetto). E’ interessato a conoscerlo meglio, andando anche a casa sua per aiutarlo nei compiti di matematica. I genitori di Rapha, padre (Denis Ménochet) sportivo e vòlto al commerciale (la Cina come traguardo), madre (Emmanuelle Seigner) lettrice di riviste di arredamento, costituiscono una tipica famiglia medio-borghese. La loro dimora, ampio giardino e interni “lussuosiâ€, attrae Claude, il quale proviene (lo si saprà in seguito) dalla periferia. E soprattutto, il ragazzo è colpito dalla madre di Rapha, affascinante signora. Si intuisce presto che il coté sit-com non potrà essere univoco, la situazione presenta risvolti intriganti che potranno piegare verso il thriller. La presenza di Claude nella casa dell’amico si fa compromettente, per lui, per tutti i componenti della famiglia e anche per Germain, il quale si mostra sempre più coinvolto nel gioco di finzione-realtà tracciato dal ragazzo, in quel suo “continua†ormai quasi ossessivo. Lo stesso professore comincia a mostrare un disagio nella propria vita privata, una “estraneità †alle problematiche della moglie Jeanne (Kristin Scott Thomas), impegnata a condurre una galleria d’arte contemporanea (peccato la banalità della presa in giro della moda di forzare certe invenzioni estetiche in funzione mercantile), e perfino alla contiguità della vita coniugale. Non è il caso di rivelare la conclusione dell’ “indagine†seriale condotta con scrupolo letterario e insieme con puntigliosa partecipazione dal duo – inscindibile da un certo punto in poi – allievo/insegnante. Gustosissime e argute le annotazioni del ragazzo e altrettanto inquietanti i suggerimenti del professore, il quale passa dall’interesse teorico e dall’istanza letteraria e filosofica all’attrazione verso implicazioni più “aderenti†alla situazione reale. Ed è proprio il progressivo coinvolgimento di Germain nell’â€esercizio†di annotazione e scrittura a rafforzare la prospettiva teoretica che sottosta alla costruzione del racconto. Bravissimi gli attori, specialmente Luchini, la cui stessa presenza richiama la memoria di un cinema di coscienza profonda – basti il nome di Rohmer (e anche attrici come Scott Thomas e Seigner portano con sé ricordi di Polanski, Godard, Miller, Schnabel,  Pollack, Altman, Hallström). Ciò che distingue il lavoro di Ozon è tuttavia una speciale tensione costruttivistica, per la quale la sostanza poetica del racconto viene bloccata sulla soglia della rappresentazione, sul limitare del suo “quadro†compositivo. Il che, mentre chiarisce il significato, raffredda il senso dell’opera. reno di notte per LisbonaNight Train to Lisbon Cinema antico? L’immagine complessiva, non certo sfavillante di luci avveniristiche e costruita secondo un narrare per flashback tutt’altro che occultati nel loro susseguirsi discreto ma esplicito, fa pensare al recupero di un cinema-stile, ancorato a una fede estetica riflessiva e cadenzata su ritmi interiori, umanistici in senso classico. Vi furono tempi in cui il cinema trasse dalla letteratura non solo strutture narrative e suggerimenti caratteriali ma metodi sintattici da riprodurre sullo schermo in una subordinazione mimetica considerata ancora come necessaria. Il regista danese Bille August (Pelle alla conquista del mondo 1988, Con le migliori intenzioni 1992, Il senso di Smilla per la neve 1997, Il colore della libertà 2007) ha legato il destino del film al romanzo dello scrittore svizzero Pascal Mercier (Pseudonimo di Peter Bieri, Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera nel 2007), scegliendo come interprete principale Jeremy Irons e affidando al sessantacinquenne e bravissimo attore inglese (La donna del tenente francese 1981, Mission 1986, Il mistero Von Bulow 1990, Il danno 1992, Io ballo da sola 1996, Appaloosa 2008) la mediazione letteraria del racconto. Con ricercata trasparenza, Irons si immedesima nel professore di latino Raimund Gregorius. In quel di Berna, Gregorius sembra essersi rassegnato a una vita decisamente incolore, finché una mattina gli capita di salvare dal suicidio una ragazza, nella tasca del cui soprabito rosso trova un piccolo libro intitolato “L’orafo delle paroleâ€. E una frase lo colpisce: “Se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto?â€. Per Bieri, Il fondamento del libro è nella relazione tra il momento esistenziale, la conoscenza di sé attraverso la conoscenza degli altri, e le parole attraverso le quali formalizziamo le emozioni. Parlare ed esistere finiscono per essere la stessa cosa, sulla quale si misura la diversità di ciascuno. L’autore di quel libro trovato, il portoghese Amadeu Prado (Jack Huston nel film), ha annotato i passaggi della propria vita, gli anni ’70 e il regime fascista di Salazar, gli amici e l’impegno nella resistenza, i rapporti all’interno della propria famiglia, l’amore per la compagna di lotta Estefania. E, soprattutto, Amadeu ha scritto le proprie riflessioni filosofiche, le quali ora costituiscono l’imput primario per la decisione di Gregorius di lasciarsi andare al ritrovamento delle tracce di una storia che fu non solo personalissima ma affascinante e istruttiva per il suo connotato d’insieme. Per Bieri, un libro sul libro ed è intuibile, per August, la serietà del compito di trasformare tale complessità in un film che tenesse in un unico tessuto il doppio binario dei tempi, Gregorius e Prado, e lo speciale modo di raccontare adottato da Prado, un “tra narrare e comprendere†in cui “fatti†e “parole†si integrano secondo una necessità tutta interna. Non a caso il regista si avvale anche per i ruoli “secondari†di attori di primo piano. Dal momento dell’incidente esistenziale registrato nelle prime sequenze, la vita di Gregorius prende una “deriva†in cui, di momento in momento, la ricerca dei personaggi de “L’orafo delle parole†diviene rivelatrice di un profondo trapasso e rinnovamento del protagonista stesso. Simbolico il suo incontro con Mariana (Martina Gedeck), l’oculista che gli prescrive nuovi occhiali e con la quale finirà per recarsi in Spagna per un’ultima tappa della “rechercheâ€. Non tutto è perfetto nel film, poiché August non è Bergman, ma è pur notevole il tentativo – diremmo così – di una riconversione del cinema su traguardi interiori che non implichino arroganze spettacolari.
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