CINEMA: I film visti da Franco Pecori20 Settembre 2008
Il papà di GiovannaIl papà di Giovanna Bravi gli attori. E  non solo Orlando. Ma con Avati regista è quasi un’ovvietà . Meraviglia comunque, in positivo,  che la giuria di Venezia abbia premiato con la Coppa Volpi il “tono minore”, chiave solitamente non riconosciuta per l’accesso nella stanza delle “grandi interpretazioni”. Il film, del resto, è concepito e girato nel rispetto, viene da dire,  del personaggio  del professor Michele Casali (Orlando), sulla cui psicologia si riflette, come in uno specchio, un intero mondo piccolo piccolo, patetico e a tratti delicatamente  grottesco, che sembra esaurire in sé anche il portato storico e sociale della vicenda. Ambientato nella Bologna del 1938, il racconto non ha nulla del thriller, né su chi sia l’assassino né sulle motivazioni “nascoste” del misfatto. Tutto si capisce senza fatica, grazie alla perfetta (anche troppo)  trasparenza della sceneggiatura. Se mai, il problema è che, arrivati a metà , non c’è più niente da attendersi. L’attenzione resta allora ancorata alla maestria di Avati nell’esprimere com-passione per le sue creature, per la loro sofferenza privata e per il penoso contesto in cui vivono;  e nel trasmetterci questo sentimento sotto la forma di un ricordo confidenziale, autentico, solo a tratti contaminato da fuggevoli lapsus sub-felliniani. Eppure, l’ostinazione di Michele nel recintare e proteggere il proprio comportamento di padre gravemente disturbato verso la figlia Giovanna  (Rohrwacher) su cui proietta le conseguenze del falso rapporto con la moglie Delia (Neri) va ben al di là del problema psicoanalitico. Il nascondere sé a se stessi, il chiudersi nelle proprie bugie non è certo il modo migliore per assumersi le necessarie responsabilità verso la storia, verso i destini dell’epoca in cui si vive. In questo senso, al di là della quasi-simpatia del personaggio interpretato da Greggio (l’agente politico, dirimpettaio, amico, padrino di Giovanna e innamorato di Delia), Avati non è stato per niente tenero col fascismo. Burn After Reading – A prova di spiaBurn After Reading Leggero ma non troppo. Il terzo capitolo della “Trilogia dell’idiota”  dedicata alla bravura di George Clooney (Fratello, dove sei?, 2000  e Prima ti sposo, poi ti rovino, 2003) continua nella critica sociale già espressa in chiave drammatica in No country for old men (Oscar 2008). Cambiato il registro (qui siamo nella commedia), non si attenua l’ironia, anzi si tinge a tratti di finissimo sarcasmo. La cinepresa è puntata sulle incoscienze degli americani, sui loro tic indicativi di una multiforme alienazione che rende paradossali certi loro modi di essere, nelle situazioni usuali riferite sia alla quotidianità spicciola sia ai livelli più impegnati e segreti dell’Intelligence. Un filo umoristico unisce i piani bassi e i piani alti di un’unico edificio, il divertimento sta proprio nel cogliere i caratteri comuni di personaggi tanto diversi all’apparenza, come l’uomo fitness, il bello Chad  che si crede anche furbo (Pitt), e l’agente della Cia, Osbourne Cox, un po’ troppo “nervoso” e con problemi di alcol (Malkovich); o come Linda, attempatella e hungry (McDormand), e il maturo belloccio, Harry, traditore della moglie e footing-dipendente (Clooney). Per uno strano intreccio, per un CD di dati insignificanti che finisce nelle mani dello spionaggio russo (momento iconologico fuggevole e sublime è il ritratto di Putin nell’ufficio dei cervelloni ex-sovietici), la commedia sconfina in una suspence non di genere, eccentrica di quel tanto da proiettare la propria “inverosimiglianza” sul senso complessivo del film. «Non dev’essere per forza spiacevole », premette brusco il capo di Osbourne mentre sta per licenziarlo; e l’epurato se ne va triste dal papà col proposito di scrivere le proprie memorie: «Il pensiero indipendente non è apprezzato, ma c’è un patriottismo più alto »! Metafora: potrebbe trattarsi del “patriottismo” degli stessi Ethan e Joel, due che sanno ridere delle false virtù. Di certo la qualità degli attori aiuta gli autori nell’ardua (e vinta) scommessa di mantenere dall’inizio alla fine il difficile equilibrio tra “realtà ” e “parodia”. L’osservazione dei comportamenti rasenta il “documentario” mentre l’uso degli stereotipi assume il valore di un saggio di storia (del cinema, dei generi). Per cinefili, ma divertente per tutti. Letto 4098 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||