CINEMA: I film visti da Franco Pecori2 Novembre 2013 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]
Sole a catinelleSole a catinelle Pensate se  Ladri di biciclette, nel 1948, fosse uscito in 1250 sale. Un sogno. Sarebbe stata un’altra Italia. Ora il sogno si è avverato dopo 65 anni, ma con un altro titolo. Ancora padre e figlio i protagonisti – Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani) e Bruno (Enzo Staiola) nel film di Vittorio De Sica, Checco (Checco Zalone) e Nicolò (Robert Dancs) in  Sole a Catinelle  di Gennaro Nunziante. E però una commedia. Un sogno si avvera, ma ben diverso dal lavoro trovato e perso per la bicicletta rubata, strumento essenziale per il mestiere di attacchino. Bruno aiutava il padre a ricercare la bici, Nicolò, generazione di belle speranze odierne, prende sulle proprie spalle Checco e, grazie all’aggancio con una certa Zoe (Aurore Erguy), trasforma la sua crisi di venditore di aspirapolvere in Molise in un viaggio “ricco†e  trasognato a Portofino e similia. Direte che il paragone non regge: nel dopoguerra film drammatico sulla realtà in ricostruzione, oggi commedia “da sogno†sulla realtà inondata dal sole. Noi troviamo che, al di là dei generi, un denominatore comune risalti dal contrasto, o se volete, dalla netta opposizione, anche formale, tra la disperazione combattiva di allora (risarcita dall’affetto autentico e profondo padre-figlio) e la beata contentezza dell’odierno “tutto-bene-no?†dei “ristoranti pieni†e delle tasse “comunisteâ€. Due visioni critiche a confronto? Ci si augura che possa essere un confronto fruttuoso, ma il dubbio è serio e sta proprio nel dato distributivo di cui sopra. Il film di De Sica, come altre opere del neorealismo italiano, fece non poca fatica a ottenere il successo, il “Sole†di Zalone è scontato che piaccia a moltissimi, tanto che si ritiene di affidarlo alla visione del pubblico (il pubblico che ha sempre ragione) in 1250 sale. E’ evidente che se ne ha un’idea non proprio corrosiva. E infatti la nostra situazione, della società , della cultura, dell’educazione, dello spettacolo e insomma la situazione nel suo complesso, perfino sul piano antropologico, risulta schiacciata a un livello confermativo a dir poco acritico. * Sempre su Checco Zalone, per il problema del “rispecchiamento†e della cancellazione dell’Arte, leggi qui Zoran, il mio nipote scemoZoran, il mio nipote scemo Ricognizione antropologica in chiave autobiografica, realismo e fiaba, protagonismo e contesto, recinzione protettiva, nostalgia dei nonni, recupero della bontà . Si potrebbe continuare. Si sa come vanno le opere prime, il regista tende al film d’autore e l’ispirazione la cerca dove può essere più vicina a sé. Matteo Oleotto (Gorizia, 1977), attore proveniente dall’Accademia d’Arte Drammatica “Nico Pepe†di Udine, diplomato regista al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, autore di cortometraggi premiati e menzionati nonché di programmi tv e spot commerciali, ha sentito l’impulso di ricercare un contatto con la propria terra e con l’ambiente che lo ha visto crescere. E è tornato nel Friuli Venezia Giulia, dove quando incontri un amico non gli dici “ci vediamo per un caffèâ€, ma “ci vediamo per un bicchiere†(di vino). Il protagonista, Paolo Bressan, veste i panni di Giuseppe Battiston. Di solito si dice al contrario: l’attore è nei panni del protagonista, ma qui l’identificazione sfiora il naturalismo. Il corpaccione ancora giovanile di Battiston ha l’aria sufficientemente “spontanea†per sentirsi vivo all’osteria, non una qualunque osteria ma quella di Gustino (Teco Celio) che precisamente vediamo nel film, mentre ci sembra di essere a casa nostra, ossia a casa di Paolo, nel suo preciso ambiente, mantenutosi abbastanza tale quale a distanza di alcuni decenni. Ed è un ambiente – persone e cose – “anticoâ€, dove ciascun bicchiere è un oggetto perfettamente umano, dove il ricordo degli otto giorni (“osmen†in sloveno), concessi dall’imperatore Giuseppe II nel 1784 ai contadini per la vendita diretta dei loro prodotti, rivive nelle “osmizeâ€, nei locali con le buone cose da mangiare fatte in casa. Vita semplice, dialettale, forse residuale, ma non certo finita. Per il modo con cui la cinepresa vi si accosta, specie in alcuni momenti, si pensa a Olmi. Qui però il regista piega la materia profilmica a un linguaggio di poesia, costruendo una specie di paradosso che nasce da una base per così dire aneddotica per sfociare in un linguaggio fiabesco, con la verosimiglianza dei personaggi e dei fatti che non subisce la morsa della referenzialità troppo stretta; e con la prevalenza, invece, del “tonoâ€, chiave imprescindibile per la lettura corretta del film/spartito. Cogliamo Paolo nel mezzo di una sua vita disastrata, un uomo non fedele alla moglie, la quale infatti lo ha lasciato unendosi a un altro, ma un uomo anche sentimentale e disponibile a combattere la battaglia disperata contro il proprio egoismo e contro lo scetticismo che lo invade da quando non ha più l’amore. Il flusso ineluttabile delle piccole e sfiancanti difficoltà quotidiane di Paolo viene interrotto da uno strano nipote, il quindicenne Zoran (Rok Prasnikar), mai visto né sentito prima, di cui improvvisamente l’omaccione deve occuparsi, in seguito alla morte di una vecchia zia. Il ragazzo sembra un po’ ritardato, gli è che ha imparato a parlare usando il linguaggio dei due soli libri, d’autore ai più sconosciuto, che ha potuto leggere finora. Dopo un primo rifiuto, istintivo, espresso con ironia amara e bagnata nel bicchiere continuo, Paolo si accorge che il ragazzo ha una fissazione molto speciale, caratterizzata da un’abilità unica: colpisce praticamente sempre il centro del bersaglio giocando con le “freccetteâ€. La sua è una bravura da campionato mondiale  e potrebbero arrivare molti soldi. Senonché, quella di Oleotto è gente buona e brava, i sentimenti vengono a galla e c’è una ragazzina (Doina Komissarov, prima volta sullo schermo) che tenta di convincere Gustino a frequentare il coro del paese, dove si canta: “El vin servi pai sani, l’acqua la bevi il canâ€. Anche Zoran potrà cantare finalmente, in sloveno, la sola canzone imparata da piccolo. Sarà una sorpresa. Vuoi vedere che i ruoli s’invertono e tocca al nipote “scemo†il compito di trasmettere maturità a quell’omaccione di Paolo? Auguri a Matteo Oleotto per le sue future “osmizeâ€, ché di prodotti caserecci non guasterebbe l’abbondanza. Captain Phillips – Attacco in mare apertoCaptain Phillips Pirateria in mare. Ancora i Caraibi? No, qui Johnny Depp non può farci niente. L’epoca dei velieri spagnoli e inglesi a confronto è lontana, quel simpaticone del capitano Jack Sparrow ha lasciato il posto all’avidità di disperati mossi da altre esigenze, gente dal destino più incerto e drammatico, senza sorriso. E’ il nostro secolo, 2009, siamo nelle acque internazionali di fronte alla Somalia. Il capitano stavolta ha la faccia di Tom Hanks, non è un pirata, è l’irlandese Richard Phillips e guida verso Mombasa la nave portacontainer Maersk Alabama, carica di prodotti dal mondo del benessere. E’ un mondo che – sembra dire il somalo Muse (Barkhad Abdi), capo degli assalitori in mare aperto – deve “pagare il dazio†per la sua ricchezza, a fronte della fame dei pescatori locali, invasi dalle società straniere, avviliti dalla corruzione e dalle violenze della guerra. Sono ragioni comprensibili, Phillips ha l’aria di comprenderle, ma si chiede anche se non debba esservi “un modo di vivere diverso dal fare il pescatore e rapire le personeâ€. La domanda arriva quando, al culmine dello stress dovuto alla decisone dei pirati di prendere in ostaggio Richard e di fuggire con lui verso terra a bordo della scialuppa attrezzata in dotazione alla nave, le cose si mettono male: è in arrivo la Marina Usa, intenzionata a risolvere comunque la situazione. La lunga sequenza “inseguimento†è condotta con la dovuta maestria da Paul Greengrass, regista britannico che ha dato prova di pertinente combinazione tra diverse componenti narrative, quali “azione†e “introspezioneâ€, soprattutto nei film sulla crisi d’identità del personaggio John Bourne (Matt Damon in The Bourne Supremacy 2004 e The Bourne Ultimatum 2007). Qui gran parte del merito va dato alla bravura stranota di Tom Hanks, sul cui volto si stampa la tremenda fatica di resistere alla pressione fisica e psicologica del rapimento, nell’incertezza del suo esito. Emerge, senza retorica e senza ovvietà , il lato umano del personaggio, il quale sta svolgendo il proprio lavoro, non per una vocazione speciale, ma semplicemente per dedizione scrupolosa al dovere professionale. Mentre la  Maersk Alabama con il proprio equipaggio vive  il suo momento di sospensione, nella capsula che tenta di raggiungere la costa somala i due mondi, di Phillips e di Muse, cercano la sopravvivenza. Due uomini rappresentano la doppia faccia di un vivere oggi, in mare aperto, all’incrocio della storia mercantile, con sulle spalle il carico di intenzioni forse non contrastanti eppure nella pratica inconciliabili. Tratto dall’autobiografia di  Richard Phillips e  costato 55 milioni di dollari, il film, per la spettacolarità “seria†(non artefatta a dismisura rispetto al contenuto) e per la coerente cifra stilistica, vale tutto il suo carico emotivo/riflessivo. Miss ViolenceMiss Violence Festa di compleanno. L’undicenne Angeliki (Chloe Bolota), ascolta in perfetta compostezza la canzoncina di auguri che i nonni, la mamma le sorelle e il fratellino le cantano, spegne le candeline del dolce, esce sul balcone e ci lascia un messaggio. Ha inizio per noi l’incubo di una tristezza plumbea, di un enigma orribile da chiarire, di un interrogativo tragico da sciogliere all’interno di  una vita casalinga simile a una prigionia. Una famiglia ateniese ai nostri giorni, un mondo chiuso con poche speranze. La piccola su cui si apre il film è figlia di Eleni (Eleni Roussinou), figlia del pater familias: l’uomo (Themis Panou,  Un tocco di zenzero, Tassos Boulmetis 2003) non ha nome, nessuno lo nomina, ma è lui che comanda e decide il destino segreto delle donne di casa. Eleni esegue in silenzio gli ordini per lo più silenziosi del padre, non esce, non ha un uomo. Rimane incinta e la famiglia cresce. La madre (Reni Pittaki) sopporta in silenzio e porta sul proprio corpo i segni delle violenza con cui il marito la domina. Il silenzio di tutti è anche il segno di una regola non scritta, necessaria a preservare il sistema familiare dal contatto e dal confronto col mondo. La dimensione è criminale, i sentimenti e le idee sono stagnanti, egoismo e opportunismo regnano per una sorta di convenzione perversa. Il padre non si limita a “procreareâ€, non appena una nuova “figlia/nipote†arriva a un’età sfruttabile la offre all’utilizzo di pagatori assatanati. Undici anni possono già andar bene. Ma è così brutto il mondo? E’ talmente irrisolvibile l’occlusione morale di un sistema che tende soltanto a mantenere se stesso? Aggiungete voi gli interrogativi e le risposte che volete. Il regista greco (Larissa, 1977), al suo secondo film (il primo, Without  2008,  è stato premiato al festival di Salonicco) mette le carte in tavola e non spiega le regole del gioco, rimane freddo nello sdegno della rappresentazione, monta le inquadrature senza progressione, impedisce alle ragioni sottostanti di farsi sentimento partecipe, frena ogni fuga analitica, tanto da procurarci un malessere insopportabile, una voglia di rompere il silenzio e di intervenire. Ma dobbiamo almeno attendere la fine del film. Un film tremendamente grigio e asfissiante, girato con una fotografia esplicitamente provocatoria nella sua tetraggine.  Il cinema di Avranas è un cinema impegnato, lo stesso  regista cita Pasolini, Fassbinder, Godard, Haneke. Arriveremmo a pensare a Jean-Marie Straub, se non fossimo in pochi ad aver visto Non riconciliati – Nicht versöhnt oder Es hilft nur Gewalt wo Gewalt herrscht – da un racconto di  Heinrich Böll, 1965. Letto 5207 volte.  Nessun commentoNo comments yet. 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