CINEMA: I film visti da Franco Pecori4 Ottobre 2008 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] Miracolo a Sant’AnnaMiracle at St. Anna Non è e non vuole essere un film sulla Resistenza, né su “partigiani e fascisti”, né sulla fede politica  degli uni o degli altri, né sulla buona o cattiva sostanza della gente che nel 1944 era in Toscana, tra Pisa e Firenze. I nazisti di Hitler trucidarono,  il 12 agosto a Sant’Anna di Stazzema, 560 civili, ma Spike Lee non ha fatto un film-inchiesta. Proprio mentre  una sempre più vistosa percentuale  dei film che escono in questo periodo sono lanciati come tratti “da una storia vera”, questo Miracolo a Sant’Anna si apre con una scritta su fondo nero che precisa come la responsabilità di quel  massacro sia stata dell’esercito tedesco. Detto ciò, si passa al racconto, romanzato e poetico, di quattro Buffalo Soldiers della 92 ª Divisione di Fanteria statunitense, che restano bloccati nella valle del Serchio nei giorni dello scontro con i  nazisti sulla Linea Gotica. E il dato decisivo è nel colore della pelle, nero,  dei soldati americani. La responsabilità del loro imbottigliamento è degli ufficiali bianchi, che non vogliono ascoltare le loro informazioni né le loro richieste e li abbandonano a se stessi. Si dirà che una denuncia così arriva a distanza di 54 anni. Ma è appunto questo tempo che indica  l’inquietante attualità di quel tragico episodio di guerra. Il racconto (dal libro “autobiografico” di James McBride) è incorniciato in una doppia graffa “gialla”, in quanto si apre con l’uccisione a sangue freddo di un uomo allo sportello di un ufficio postale e si chiude con un “ricongiungimento” che non conviene rivelare, dopo quella che, in modo fittizio,  risulta la lunga  confessione-ricordo dell'”assassino” al giovane giornalista che gli chiede il motivo del gesto “assurdo”. I caratteri dei quattro soldati sono delineati abbastanza bene, ma  il contesto è verosimile solo nei limiti di una narrazione molto semplificata e volta a suscitare impressioni legate ad una visione  di maniera  –  i tedeschi, la gente del piccolo paese toscano, una certa “umanità ” della situazione in un conflitto che si è ormai andato delineando non più come una guerra estesa e frontale ma come una scontro ravvicinato e brutale, una lotta che coinvolge le persone nelle loro case, nella loro dimensione civile. Tuttavia il perno del film è nel “miracolo” dell’incontro tra Sam (Omar Benson Miller),  il soldato-bambino,  il «gigante di cioccolato »  che affascina e imbambola con la propria generosa ingenuità fiabesca anche i commilitoni perfino nei momenti di  maggiore violenza, e Angelo (Matteo Sciabordi), il ragazzino da lui trovato e salvato, il quale gli resta attaccato come ad una mamma mentre, «bum-bum », tutto scoppia d’intorno. Un filo di “negritudine” fa correre la mente ai soldati afroamericani (uno di loro impersonato dallo stesso Derek Luke)  nell’inferno notturno dell’Afghanistan, come ce li ha raccontati  Robert Redford  nell’impressionante episodio di Leoni per agnelli (2007); e più indietro, restando all’Italia, al bambino napoletano con il soldato Joe in Paisà di Rossellini (1946). Ma certo il paragone non è artistico. Purtroppo, Miracolo a Sant’Anna è ben lontano dallo stile asciutto che caratterizza  la poesia  di Rossellini; e la solitudine nemica,  maledetta, buia della notte afghana  in quella micidiale sequenza di  Redford  sembra espressivamente  inarrivabile.  Colpisce comunque, sia pure in una costruzione diluita e appesantita da momenti di ovvietà , l’intento poetico di Lee, la passione del regista per certi contenuti impegnativi e inusuali, a partire da Fai la cosa giusta (1989) a La 25ma ora (2002),  Lei mi odia (2004),  Inside man (2006). Mamma mia!Mamma mia! Rétro e modernissimo. Non sembri un gioco di parole. È vero, il pop svedese  degli Abba (anni Settanta,  370 milioni di dischi venduti) – la regista inglese Phyllida Lloyd, esperta di teatro e di opera, ha tratto il film dal musical  di Catherine Johnson  che ha strabiliato a Londra e a Broadway – è  “antico” almeno quanto la “Terza via” socio-politica scandinava; di per sé, non sarebbe riproponibile se non ad un ristretto numero di “cultori”. Il fatto che tale componente rétro piaccia oggi  ad un  pubblico  vasto  è dovuto al  suo mascheramento, o meglio alla fusione con uno sguardo  ideale  commisurato alle attuali istanze dell’ultima generazione, non più soltanto post-moderna, ma definitivamente – si direbbe – fluida, disponibile tanto al futuro quanto a qualsiasi “materiale” del passato ancora utilizzabile, sia pure soltanto per  il mantenimento  di una posizione, modernissima,  non progettuale, di attesa. E’ una specie di “vuoto buono”, dove c’è posto per farsi una vita propria, cosciente, persino equilibrata, a patto che si sappia riconoscerne la radice e prendersi le relative responsabilità . Stiamo parlando di Meryl Streep,  cioè di Donna, la protagonista del musical. La grandissima attrice si identifica così a fondo nel ruolo (quanto di più lontano da ciò che ha reso famose le sue interpretazioni!) che nel suo stesso corpo s’incarna la fusione di cui sopra. Un musical in cui la forma del contenuto ha una sua dialettica interna, capace di proporre alla ventenne Sophie (Seyfried), figlia “senza padre” di una madre,  Donna, ex quasi-happy-hyppy, una correzione decisiva  della sua pseudo-modernità . la ragazza sta per sposarsi. E’ cresciuta in un’isoletta greca, insieme alla mamma che lì ha creduto di conservare il privato paradiso “oltreconfine”, smemorando le delusioni amorose della gioventù sentimentalmente  infruttuosa. Madre e figlia invitano alla festa le rispettive amiche, bamboleggiando complementari in un lungo prologo fitto di risatine insulse e di ammiccamenti uniformi. Senonché, Sophie ha invitato anche tre ex ragazzi di Donna, uno  quali – così ha scoperto leggendo per caso il vecchio  diario della mamma – è suo padre. Lo scoprirà , spera, al momento del loro arrivo sull’isola. Non se ne parla, ovvio. Ed è per questo che la “ricerca del padre” svanisce man mano e si cancella per far posto al tema, più vero e profondo, del recupero dei sentimenti autentici. Mentre tutt’intorno la scena si anima di momenti colorati, romantici e farseschi in alternanza, la musica sostiene il racconto, gradevolmente equilibrando le interminabili e  insopportabili esplosioni di stupore della prima metà , con  la progressiva e più credibile spogliazione, da parte di mamma Donna, dell’ammuffita ideologia da “figlia dei fiori” («Avevano paura di volare »). E non in senso rétro, di restaurazione del matrimonio, bensì come riconquista della vitalità troppo a lungo dismessa: «Mamma mia quanto mi sei mancato », canta Streep in forma strepitosa al suo Sam (Brosnan),  «C’è un fuoco nel mio cuore ». Tutte le “simpatie” di costume, delle vecchie  amiche vitali quanto svampite e dei boys di contorno al marriage, si fanno da parte mentre trionfa culminante la “romanza” (sì, come fosse l’Opera) del «Chi vince prende tutto », gioco cruciale in duetto, Steep-Brosnan, che vale da solo tutto il musical. Le ultime sequenze hanno poca importanza, il bello è già stato. ZohanYou Don’t Mess with the Zohan Che senso ha farsi la guerra? non è meglio aprire un super centro commerciale a New York? Zohan Dvir (Sandler), come membro  delle forze speciali antiterrorismo  israeliane, è  un po’ strano, non riesce a vedere i palestinesi come nemici. O meglio, ha ben altro per la testa e da un po’ di tempo non riesce a  cancellare l’idea fissa di tagliare i capelli alle donne. Sì, vuole fare il parrucchiere. Ma con l’incarico non proprio di settore che ha nel suo paese, il progetto gli sembra irrealizzabile o quasi. Perciò si finge morto, così nessuno lo cercherà più ed egli  potrà finalmente spogliarsi  dei panni guerreschi e realizzare il suo sogno. E accade che anche il nemico numero uno, il terrorista Phantom (Turturro), passa in secondo piano di fronte al fatto strabiliante che, a Brooklyn, israeliani e palestinesi vivono tranquillamente gli uni a contatto degli altri. Scrappy Coco – così si fa ora chiamare Zohan – non è proprio un maestro nell’arte delle forbici, ma, dotato com’è di qualità sessuali, trova il modo di far “impazzire” di soddisfazione la clientela femminile, specialmente di età matura. Scene paradossali realizzate “sopra le righe” grazie alla tecnica digitale, costruiscono un personaggio tanto inverosimile quanto imbattibile, nel fisico e nell’umore. Tutto bene, divertente, a cominciare dalle prestazioni insolite di Sandler. La regia di Dugan “serve” alla lettera il dettato della meccanica comica, rischiando però nel finale di arenarsi in una secca  improvvisa, quando Zohan e Phantom, non contenti di stare finalmente  in pace,  decidono di unirsi in una battaglia contro un nemico comune,  definitivo. L’ideologia dietro l’angolo. Letto 1671 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||