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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

CINEMA: I film visti da Franco Pecori

12 Ottobre 2014

[Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini]

Maze Runner – Il labirinto

The  Maze Runner
Regia Wes Ball, 2014
Sceneggiatura  Noah Oppenheim Grant, Pierce Myers, T.S. Nowlin
Fotografia  Enrique Chediak
Attori Dylan O’Brien, Kaya Scodelario, Thomas Sangster, Will Poulter, Patricia Clarkson, Aml Ameen, Ki Hong Lee, Blake Cooper, Dexter Darden, Chris Sheffield, Jacob Latimore, Alòexander Flores, Randall Cunningham, Dylan Gaspard.

Promessa di Saga giustifica Mistero, le ragioni-per-cui si troveranno più avanti. Fidarsi. Trilogia, tetralogia, biologia. Sopravvivenza cercata in forme di rappresentazione illusionistica e, in fondo, escatologica, non molto diversa dall’invenzione del tempo lineare.  Gioventù senza traguardo, in apparenza, con la sola e confusa consapevolezza dell’esservi, dove, lì ora, al di qua della coscienza, non oltre un innatismo vitale, “naturaleâ€, non orientato. Pare che il target (ma traduci botteghino) sia delimitato alla fascia d’età “young adultâ€, tra i 14 e i 21 anni, i milioni di giovani che oggi non sanno la ragione del non-sapere e vivono un’ansia del conoscere post-illuministica, post-romantica, post-esistenzialista, post-sociologica, tecno-post-tecnologica, pronti per essere infornati nel forno dell’obbedienza, la cui voragine si apre attraendone progressivamente la tendenza verso l’altrove, faccia inversa e complementare del qui-ora. Che il più Grande di tutti ci protegga e ci salvi, è la preghiera implicita e via-via sempre più anche esplicita, armi permettendo. Un ascensore sale non sappiamo da quale abisso e porta in sé un ragazzo tramortito, smemorato, inconsapevole. Thomas (Dylan O’Brien, piace molto alle adolescenti senza un perché) si ritrova in una radura, in compagnia di un certo numero di coetanei, arrivati lì con le medesime modalità, uno al mese. Fidarsi. Non è una radura, ma la Radura. Il mondo ridotto ad unicum. Così è. Si farà presto a rendersi conto che, come in ogni “collegio/comunità†si siano formate gerarchie e vi siano regole da rispettare. Alle regole tiene in particolar modo  Gally (Will Poulter), esercitando sugli altri un’autorevolezza piuttosto deboluccia e tuttavia sufficiente a far sì che ciascuno mantenga le proprie mansioni e, soprattutto, non si sogni di uscire dalla condizione presente. La condizione è definita e delimitata anche fisicamente da un muro circolare e ciclopico, al di là del quale si sviluppa, secondo un disegno misterioso, un labirinto terribile, lungo i cui corridoi si lamentano orribilmente creature più cinematografiche che reali, dette nientedimenoche Dolenti. Si tratterà, com’è intuibile, di sciogliere, prima o poi, il nodo strategico: starsene buoni-buoni nella Radura senza farsi troppe domande e ritagliandosi un proprio e passabile agio minimo di sopravvivenza, oppure cercare di rompere il sistemino coercitivo e, rischiando un po’ di ignoto, riconquistare spazi e prospettive che, almeno momentaneamente, sembrano essersi annullate per motivi tutti da chiarire? Inutile far finta di niente, la rappresentazione fa parte di un contesto, dato anche per scontato, simil-reale e comunque cinematografico – la prima cosa che viene in mente è quella specie di paradiso terrestre al contrario che si chiama Hunger Games. Manca dunque una figura femminile. Ed eccola, sbuca, ospite non inattesa, dal nulla fittizio della saga protettrice – a scriverla, in forma di trilogia, ci ha pensato un certo  James Dashner e sembra proprio che già nel primo libro, Il labirinto, la ragazza Teresa (Kaya Scodelario) abbia subito un caratterino niente male, pronta a farsi coprotagonista accanto all’attraente O’Brien. Attenzione però, niente eroismi, non si tratterà di salvare il mondo dal progetto di un malfattore perverso. Non v’è aria di colpe da redimere. Tutto è soft, come esige ormai lo stesso dominio del software. L’epoca dei fumetti “violenti†per bambini giapponesi abbandonati dalla mamma danti alla tv è tramontata definitivamente. Prendere la condizione morbida della Radura così com’è, almeno per il momento. Magari, tenersi allenati, da Corridori pronti al servizio, se un domani là fuori si aprisse uno spiraglio di altre felicità. Tradurre simili concetti in spettacolo buono per i nuovi mezzi tecnologici non era semplice. Dalla pagina scritta al thriller fantascientifico il passo s’è dimostrato non breve né facile. Tuttavia gli sceneggiatori, lo scenografo Marc Fisichella e il regista hanno trovato l’accordo giusto (soft, ovviamente)  per ottenere il modo “scontatoâ€, quasi-tranquillo, del vivere la non-vita che è la cifra stilistica e rappresentativa della Radura, un mondo circoscritto con-accanto il labirinto della vita-altra, difficile e rischiosissima da risolvere. Insomma, ragazzi, crescete pure ma con calma, senza massacrarvi in rivoluzioni pericolose e inutili. Il labirinto si aprirà.

I due volti di gennaio

The Two Faces of January
Regia Hossein Amini, 2013
Sceneggiatura Hossein Amini
Fotografia Marcel Zyskind
Attori Viggo Mortensen, Kristen Dunst, Oscar Isaac, David Warshofsky, Daisy Vevan, Aleifer Prometheus, Yigit  í–zsener, Omiros Poulakis.

Grecia 1962. Che ci fa l’americano Chester MacFarland (Viggo Mortensen) fra le colonne del Partenone? Visita l’Europa insieme alla moglie Colette (Kristen Dunst), è evidente. Sarà, ma quel Chester ha una faccia strana, uno sguardo preoccupato. Che vuole? La sua è una semplice vacanza? Passato alla regia, lo sceneggiatore di Drive (Nicolas Winding Refn, 2011) e di altri film di avventura/azione, come Le quattro piume (Shekhar  Kapur 2002) o 47 Ronin (Carl Rinsch 2014),  non sembra aver assorbito la sostanza del libro di  Patricia Highsmith (stesso titolo, Bompiani). La coppia “in gitaâ€, sulla carta, è ben assortita: la giovane moglie del protagonista è un’attraente Kristen Dunst, figura interessante anche per i rimandi cinematografici del suo volto (Marie Antoinette  di Sofia Coppola 2006, Melancholia  di Lars Von Trier 2011); e il marito dal comportamento ambiguo è il Viggo Mortensen, non solo l’Aragon della trilogia degli Anelli ma il Tom perseguitato dal destino in  A History of   violence (2005) e il Freud problematico di  A Dangerous Method (2011), due lavori non superficiali di David Cronenberg. Chester porta con sé una valigia con molti soldi e non se ne separa mai. E’ un broker finanziario,  nella testa deve avere un incubo. Emergerà inoltre, col procedere del racconto, un certo abbattimento per l’irrequietudine della moglie, presa dall’intraprendenza di Rydal (Oscar Isaac), giovane guida turistica dalle spiccate doti opportunistiche. Andremo a Creta e poi fino a Istambul. A contatto con le rovine di Cnosso subentrerà una certa cupezza, più “citata†e teorica che derivata dalle immagini. Accadranno fatti gravi che legheranno con un medesimo laccio le vite di Chester e di Rydal. Quest’ultimo sembrerà vittima del suo ruolo piuttosto che interprete di un’inaspettata profondità. La sua passione per Colette, non la vediamo né la sentiamo crescere di quel tanto che servirebbe per tenerci nella sufficiente suspense sentimentale. A farla breve, quella dell’ambiguità – specialmente se si passa dalla letteratura al cinema – è la direzione forse più difficile sulla via di un racconto che leghi insieme la dimensione sentimentale con il dinamismo dell’avventura. E’ facile che il “mistero†stenti a farsi strada tra le pieghe della diegesi. L’ambiguità è sempre parente del senso, univoco soltanto nel linguaggio scientifico, e tra polisenso poetico e banalità (senso comune) la scala delle sfumature è praticamente infinita. Qui, più che di poesia, possiamo parlare di un discreto livello spettacolare e di cinematografica attrazione del cast.  [Berlino 2014, Berlinale Special].


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Bart