CINEMA: I film visti da Franco Pecori6 Dicembre 2008 [Franco Pecori dal 1969 ha esercitato la critica cinematografica – per Filmcritica, Bianco & Nero, La Rivista del Cinematografo e per il Paese Sera. È autore, tra l’altro, di due monografie, Federico Fellini e Vittorio De Sica (La Nuova Italia, 1974 e 1980). Nel 1975, ha presentato alla Mostra di Venezia la Personale di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet; e alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, con Maurizio Grande, una ricerca su Neorealismo: istituzioni e procedimenti (cfr. Lino Miccichè, Il Neorealismo cinematografico italiano, Marsilio). Dal 2002, ha tenuto per 4 anni, sul Televideo Rai, la rubrica settimanale Film visti da Franco Pecori. Noto anche come poeta, Pecori può vantare la stima di Franco Fortini.] Solo un padreSolo un padre E Fagiolina cammina. Al termine del film la bambina ha compiuto l’anno ed è pronta a fare i primi passi. La sua mamma è morta di parto, il padre Luca (Argentero), dermatologo sui trent’anni, deve crescere la neonata con l’aiuto dei propri genitori e di due amici che sanno comprendere le sue difficoltà di ragazzo padre. Il fatto decisivo è però l’incontro con la francese Camille (Fleri), ricercatrice universitaria in bilico verso il futuro. Come finirà si capisce subito, ma non siamo certo nel thriller, per una commedia così contano la sceneggiatura e la simpatia degli attori. Giulia Calenda e Maddalena Ravagli hanno saputo dare alle battute il tocco di un’intelligenza leggera. Il “ragazzo padre” è visto prevalentemente al femminile, seguito passo passo nell’avventura quotidiana e intima di una vita da ricostruire, anzi da ricominciare quasi da zero. Essenso il tema un po’ scontato, era importante lo “svolgimento”. Il risultato è gradevole, Argentero e Flerì riescono ad avere con la piccola “attrice” un rapporto verosimile e sanno far emergere il loro sentimento reciproco con la dovuta “discrezione”. Lucini conferma l’inclinazione, già mostrata con Amore, bugie e calcetto, a osservare con attenzione le situazioni reali anche tipiche, trattandole con delicatezza e con spirito e cercando di driblare, strada facendo, l’ovvio sempre in agguato. Lontano da Moccia (Tre metri sopra il cielo), delicato alla francese. L ‘ospite inattesoThe visitor L’ospite inatteso, tutt’altro che sgradito, può essere il film stesso. Ha fatto bene la nuova casa di distribuzione Bolero film ha cogliere questo raro fiore al festival di Deauville, dove McCarthy ha trionfato. The visitor ha poi avuto un buon successo al Sundance (McCarthy aveva già vinto con The Station Agent, 2003) ed è infine piaciuto al pubblico americano che lo ha visto in aprile. La sorpresa è nella inusuale attenzione al non-detto, piccoli gesti, pause, silenzi che si accumulano e danno al film un senso talmente ricco e complesso, anche al di là della storia che racconta, da risultarne quasi impossibile un decente riassunto. «Una storia d’amore e di amicizia », dice il regista. Ma così potrebbe essere una storia qualsiasi. Invece, cinepresa (cioè occhio, sguardo) e montaggio (cioè stacchi e tempi) si fondono nell’espressione di una sensibilità semplice e raffinata, a cogliere gli elementi soggettivi e unici di una situazione che, a dirla, risulta fin troppo esemplare. Una giovane coppia di stranieri, il siriano Tarek (Sleiman) e la senegalese Zainab (Gurira), si arrangia a vivere senza permesso di soggiorno a New York. Walter (Jenkins), docente universitario di economia, se li trova in casa rientrando dal Connecticut per una conferenza. Vede che sono bravi ragazzi, non se la sente di cacciarli, proprio lui che tiene lezioni sui problemi dei “Paesi in via di sviluppo”. Il tema sarebbe di una banalità disarmante se il regista non trovasse una chiave di svolgimento ”interna”. Tarek suona il tamburo africano (Djembe), una vera passione: è venuto a New York quasi per questo. Gli piace di battere il ritmo con le mani insieme ai compagni di strada. McCarthy ce lo fa ascoltare. Walter, così serio, introverso, quasi muto, “inadatto” alla musica (così dice la sua insegnante di pianoforte), resta affascinato dal pulsare dei tempi dispari e comincia ad andar dietro al suo ospite. A guardarli in giro per la città con i loro strumenti sembrano due bambini felici. Poi una volta, mentre vanno a prendere la metropolitana, Tarek resta incastrato col suo tamburo in un tornello e lo scavalca. Finisce in un centro di detenzione! Assurdo, ma non tanto nell’America di oggi. E non è facile tirarlo fuori. Walter ci prova senza molte possibilità. «È come in Siria », commenta desolata Mouna (Abbass), la madre di Tarek, venuta a cercare il figlio che da qualche giorno non si faceva più vivo con lei. Il regista osserva con discrezione poetica la nascita di un sentimento tra Walter e Mouna, un amore tenerissimo e disperato, che non potrà durare. La donna deve tornare al suo paese mentre il professore non ha più voglia di continuare il suo corso di lezioni, sempre lo stesso da 20 anni. Restano negli occhi gli interni dell’Immigration and Customs Enforcement, dove Tarek passa incredulo i drammatici giorni che precedono la sua espulsione. Letto 1681 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||