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LETTERATURA: Il bambino dalle mani coi buchi

6 Dicembre 2008

di Mariapia Frigerio

L’anno in cui fui più felice fu quello in cui fummo più poveri.
Mio padre, per alcune operazioni sbagliate, dovette dar fondo a tutti i nostri risparmi e vendere alcune proprietà. “Siamo in rovina!”, continuava a ripetere aggirandosi funereo e funesto per la casa e, per quanto ciò non fosse vero (perché ancora avremmo avuto di che vivere comodamente), iniziò a rendere la nostra vita impossibile, come se realmente fossimo sul lastrico.
  Fu a quel punto che mia madre prese la decisione. Dopo essersi rivolta a un legale, si fece assegnare una cifra mensile misera, ma sicura, riprese il suo lavoro di insegnante, disse a mio padre di andarsene.
  Amavo molto mio padre e l’essere privato della sua presenza riempì la mia vita di solitudine. La grande casa, senza di lui, mi sembrava vuota e io mi muovevo tra le stanze irrequieto, aspettando che succedesse qualcosa che riportasse tutto a come era prima.
  Avevo otto anni. Ero piccolo, ma avevo capito benissimo, già da tempo, che il matrimonio dei miei genitori era in crisi. Erano diversi, diversissimi e tanto mia madre era piena di voglia di vivere tanto mio padre era musone e scontento. Ma era mio padre e io ero un bambino sensibile e per certi aspetti romantico: non accettavo che quello che mi era stato narrato da entrambi come un matrimonio d’amore potesse finire così. E poi avevo l’egoismo dei figli: che importava se non andavano d’accordo? A me bastava che stessero insieme e che nella mia casa ci fossero due genitori.  

   Ma mia madre capì. Capì la mia tristezza e la mia solitudine. Capì che in qualche modo era stata lei la causa di tutto, lei che aveva voglia di vivere e che, per quel suo ostinato desiderio, aveva messo a repentaglio la mia felicità. Così lei, che non era mai stata particolarmente materna né con me né con mio fratello, presa solo dai suoi entusiasmi e dalle sue passioni, mi ricoprì di attenzioni e di affetto.
  Avrei scoperto solo più tardi, e già uomo fatto, che chi ama la vita, chi ha entusiasmo te lo comunica.  

   Mi ricoprì d’affetto con una tenerezza incredibile e con quelli che lei chiamava i suoi giochini. Così, quando pranzavamo, lei accarezzava le mie mani di bambino, le mie mani grassocce con i buchini all’attaccatura delle dita. E in quei buchini, a fine pranzo, lei metteva, con un piccolissimo cucchiaino ricurvo che terminava con una pallina verde (ma dove trovava quegli oggetti così inutili?) la Nutella. E poi rideva. “Una goccia di Nutella per ogni buchino”. Ai bambini tristi piace la Nutella. A me, in più, piaceva il fatto che fosse un nostro gioco.  

    Ora sono un uomo e le volte che la vado a trovare, lei mi offre il caffè che mi obbliga a bere in tazzina con piattino (quando io lo preferirei in certi bicchieri che ancora vedo nella vecchia credenza della cucina) e sempre con quel cucchiaino totalmente inutile  (troppo piccolo per lo zucchero, troppo curvo per mescolarlo e con quella stupida pallina verde in cima al manico). Poi, non contenta, mi accarezza le mani. “Dove sono andati i miei buchini?”- mi chiede toccando le mie nocche che ora sporgono in evidenza. E io, con lo sguardo impietoso dei figli, mi accorgo che le sue belle mani hanno nocche più secche e sporgenti delle mie e il mio dito indagatore non tralascia di toccare e di contare le macchie brune che ora cospargono le sue.


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3 Comments

  1. Commento by alex — 6 Dicembre 2008 @ 11:28

    Una storia che contrappone cose grandi a cose piccole. Da una parte tutto il dolore, un mare di dolore, quando un padre esce dalla vita di un bambino, dall’altra un semplice gioco che riesce a lenire almeno in parte tutta quella pena. Attraverso le mani, mani affettuose e tenere, passa l’amore alla vita (‘chi ama la vita… te lo comunica’) e basta poco: un ‘giochino’, un ‘cucchiaino inutile’ e questo poco è forse tutto il necessario che occorre.

  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 6 Dicembre 2008 @ 21:50

    Purtroppo nelle separazioni e nei divorzi le vittime immancabilmente sono i figli. In questa storia fortunatamente la madre ha sopperito in qualche modo o, meglio in modo originale, con piccoli slanci e raro abbandono, alla carenza di affetto paterno. Il percorso, vasto quanto la vita, non pare concludersi con l’ “impietoso†sguardo del figlio sulle mani scarnite e macchiate di vecchiaia della madre, ma nel tocco, quasi carezza sulle stesse, che diviene alchimia di tutto un mondo interiore, quasi vibrazione, ancora, di un sereno “luogo amatoâ€
    Gian Gabriele Benedetti

  3. Commento by Wainer Riccardi — 10 Dicembre 2008 @ 18:35

    Ancora un bellissimo episodio ci raggiunge dal mondo di una scrittrice che ha il dono raro di comunicarci grandissime emozioni in poche frasi. Tristezza e affetto, tenerezza e dolore, passato e presente, un bimbo diventa uomo e ci lascia immaginare l’intero film di due vite, la sua e quella della madre.

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